Calderón de la Barca: La vita è sogno

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Calderon de la Barca: LA VITA E’ SOGNO

La vita è sogno
Il sogno del nobiluomo, olio su tela di Antonio de Pereda, 1670 circa,
MadridMuseo de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando.

Interpretazione morale e filosofica

di Cinzia Poli

Ogni volta che tentiamo di inquadrare La vita è sogno in uno schema esegetico finito, si ha come l’impressione che ci sfugga di mano, mostrandoci il suo caleidoscopico intreccio di piani, proponendoci nuove riflessioni. È il trionfo del molteplice barocco che, sotto l’apparente semplicità fiabesca, dietro un titolo che sembra il riproporsi di una formula consunta sottende interrogativi dalla valenza cosmica: cos’è la realtà? È il sogno finzione e la veglia realtà? O è l’inverso? Se la vita che viviamo non fosse che una rappresentazione in cui recitiamo una parte?

Ringraziamo il sito letteratour.it per il permesso alla pubblicazione.

Il saggio è alla pag https://www.letteratour.it/tesine/A06caldeP01.asp



Calderon de la Barca: LA VITA E’ SOGNO

calderon de la barca

Pedro Calderon de la Barca
(1600 – 1681)

Risale al 1635 l’opera più celebre del drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca (Madrid 1600-81): La vita è sogno, una commedia filosofica divenuta oggetto di numerose interpretazioni, soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento. La giustificazione di tanto interesse è facilmente riconducibile alla fondamentale ambiguità di un’opera che, rappresentando un esempio fra i più illustri della corrente barocca, oscilla fra “la semplicità della fiaba e la complessità della costruzione simbolica”.
Vista l’impossibilità di illustrare, anche soltanto i principali studi, ho scelto di seguirne alcuni, riconducibili a due possibili vie interpretative, che ho reputato più interessanti, l’una di carattere morale, l’altra di carattere filosofico.

1. INTERPRETAZIONE MORALE

La lettura de La vita è sogno ci pone di fronte alla decisione di un re di rinchiudere il proprio figlio in una torre, escludendolo dal mondo esterno perché i suoi calcoli astrologici annunciano che si rivelerà un pessimo governante. Tale scelta inevitabilmente introduce un interrogativo morale, forse ben più complesso di come Ciriaco Morón lo presenti. Il critico si esprime in questi termini: Per noi il vecchio Basilio è un re venerabile che ha preteso di liberare il suo popolo da un tiranno; per Calderón e il suo pubblico, Basilio è un fantoccio che si è distratto dal suo autentico obbligo a governare, un padre tiranno che ha ucciso suo figlio sul momento di nascere e un re tiranno che ha privato il popolo del suo principe legittimo. Non penso che per noi lettori moderni sia così automatico condividere una simile posizione. È giusto che un padre decida della vita del proprio figlio affidandosi alla scienza? Premettendo che nel XVII secolo l’astrologia è per lo più considerata una scienza, per cui si crede all’influenza degli astri sulla vita degli uomini, ci rendiamo conto che il testo ci propone una riflessione quanto mai attuale, ovvero: se l’astrologia incarna una delle forme del sapere scientifico e la sua consultazione induce a una conclusione tanto estrema, deve prevalere l’adesione incondizionata a quest’ultima, oppure la ragione morale deve intervenire a ponderare tale risultato “scientifico”? Qual è, in breve, il confine tra scienza e morale? Si potrebbe, seguendo la partizione hegeliana tra etica e morale, interpretare il gesto di Basilio come moralmente riprovevole ma eticamente giustificato: sacrifica il figlio, ma per il bene dello Stato. Una volta riconosciuta la scienza astrologica che l’autore non rifiutava, come fa notare Davies, dobbiamo però tener presente un fatto di rilevante importanza: per l’auditorio di Calderón è, impensabile un re che in prima persona consulti le stelle, sottraendo tempo agli uffici di sua competenza. Per renderci conto di quanto ciò potesse essere disprezzato, citiamo due giudizi contro i “re matematici”: uno di Gracián contro Alfonso X “el sabio,” l’altro, senza un preciso destinatario, di P. Mariana. Afferma Gracián:

che importanza può avere che Alfonso X sia un grande matematico, se non è nemmeno un politico mediocre? Ebbe la presunzione di correggere la fabbrica dell’universo colui che fu sul punto di perdere il proprio regno.

Mariano si esprime invece in questi termini:

Oh, principe dolcissimo, evita ogni tipo di superstizione, considera futile e vana ogni arte che pretenda di trarre profitto dalla conoscenza del cielo per indagare il futuro, non impiegare mai né nell’ ozio né nella contemplazione, il tempo dovuto agli affari 

Non solo il re matematico o astrologo (come nel nostro caso) è impensabile, ma ne La vita è sogno è presentato sulla scena come una parodia di Alessandro Magno:

BASILIO: già sapete che ho meritato in questo mondo, per la mia scienza, il nome di dotto, e che i pennelli di Timante e i marmi di Lisippo su tutta la terra proclamano la grandezza di Basilio contro il tempo e l’oblio…( I, 6 p.16).

E la sua posizione è aggravata dal fatto che non legge nemmeno con cura le stelle ma tan veloz (I, 6 ), agisce con tanta leggerezza, pur dovendo decidere della vita di suo figlio, che non a caso farà condurre a palazzo proprio perché teme di aver commesso un grave errore nel dare facilmente credito alle sue previsioni(I, 6 p.19).
Una simile restituzione del personaggio mostra la limpida disapprovazione dell’autore, sostanziata non solo da ragioni formali, ma anche dalla fiducia che Calderón accorda alla cultura e alla formazione, come vedremo nel corso dell’interpretazione platonica del testo: Basilio, al contrario, affidandosi al suo sapere insicuro, congetturale rifiuta l’educazione a suo figlio e produce “un hipogrifo violento.”
Se la decisione di Basilio si situa al centro dell’interrogativo morale, in quanto, fra l’altro, motore dell’azione, altre scelte, altre situazioni attengono a tale dominio: Clotaldo ha abbandonato sua figlia, Astolfo ha violato l’onore di Rosaura; accanto a queste che implicano con sicurezza una condanna morale, si collocano le azioni di Sigismondo a palazzo la cui valutazione è più complessa: sono moralmente aberranti, ma muovono dall’assenza di educazione. Se è vero che il testo, come afferma Morón, non fornisce una risposta al problema morale promosso da Basilio, è altrettanto innegabile che il principe, attraverso una progressiva maturazione, finisca per farsi portatore di saldi principi, quali l’agire secondo il bene, perché le buone opere non si perdono nemmeno in sogno (III, 4) e il concedere il perdono a chi lo aveva sottratto alla vita. Il finale non solo è il momento in cui le acquisizioni morali si traducono in opere e viene reso onore ai personaggi oltraggiati, ma è anche lo scenario della punizione del soldato ribelle. Il fatto che Sigismondo punisca il suo liberatore, sembra contrastare con l’agire bene, e non a caso, tale azione ha diviso le opinioni di vari critici contemporanei: c’è chi per esempio, come H. B. Hall ha visto nel soldato “un agente del bene” e nel principe ingrato un comportamento “machiavellico.” Altri, invece, hanno giustificato la punizione impartita, in seguito alla richiesta di compenso fatta dal ribelle (III, 14 vv. 3293-3296). Altri ancora e fra questi si situa C. Morón, vedono il ripristino di una giustizia clemente, propria di un re rispettoso della prudenza. L’auditorio dell’epoca, secondo lo studioso, considera positivamente il risultato dell’azione del ribelle, ma condanna l’azione in sé: essa ha comportato il reato di lesa maestà che Sigismondo punisce “con pietà;” dice infatti Morón: La prigione del soldato nella torre è il castigo pietoso dato a chi avrebbe meritato la morte. Nonostante le inevitabili divergenze valutative che la questione morale provoca tra il pubblico contemporaneo a Calderon e quello moderno, riteniamo che il messaggio finale, relativo a questo ambito sia limpido:

SIGISMONDO: Ma, sia realtà o sogno, una sola cosa importa: agire bene…(III, 4 p.57).

2. INTERPRETAZIONE ONTOLOGICO-FILOSOFICA

2.1. La vita è sogno e la teoria platonica della conoscenza.

Addentrarsi ne La vita è sogno, comporta lo scontro inevitabile con riflessioni filosofiche di straordinaria entità: la vita umana intesa come processo verso la vera conoscenza, in chiave platonica o cristiana, il passaggio dalla pura ferinità alla razionalità, il rapporto tra fato, provvidenza e libero arbitrio. Non sono mancate poi, considerazioni di carattere psicanalitico che hanno esaltato la cultura come strumento di coercizione capace di dominare gli istinti naturali dell’uomo. Preferiamo, peraltro, non affrontare tali interpretazioni e sviluppare, invece, le riflessioni cui accennavamo, partendo da una lettura molto suggestiva: l’opera di Calderón come illustrazione della teoria della conoscenza platonica.
Prima di prendere in esame il testo, possiamo ricordare, in modo schematico, i caratteri essenziali che tale teoria contempla. Ne La Repubblica (libri VI, VII), Platone parte dal principio che la conoscenza sia proporzionale all’essere: è perfettamente conoscibile ciò che è massimamente essere, al contrario, è assolutamente inconoscibile il non-essere. Tra essere e non-essere, esiste una realtà intermedia, il sensibile che, essendo un misto di essere e non-essere, prevede una conoscenza intermedia tra scienza e ignoranza: la doxa o opinione. Solitamente, essa è fallace, perché non partecipa della conoscenza dell’Idea, come invece, l’episteme o scienza (conoscenza suprema), che insieme alla precedente costituisce uno dei due possibili modi di conoscere. Al loro interno esse si dividono in due ulteriori gradi e in particolare, la doxa in:
1. eikasía o mera immaginazione, corrispondente alle ombre delle cose sensibili ;
2. pistis o credenza, corrispondente agli oggetti sensibili stessi.
L’episteme si divide invece in:
1. diánoia o conoscenza mediata, che, nonostante si riferisca all’intelligibile, conserva legami con gli elementi visivi;
2. noesis o pura conoscenza delle Idee e del principio supremo e assoluto da cui tutte dipendono,ovvero l’Idea del Bene.
Per Platone, i pochi che attingono questo grado sommo sono i filosofi, i quali, consci del Bene, sono gli unici degni di regnare.

Il nostro testo allegorizza proprio questo processo di formazione, come Jorge E. Sørensen , il critico a cui ci rifacciamo, illustra. Il luogo stesso in cui Sigismondo si trova, all’inizio dell’opera:

un rustico palazzo , così poco elevato che non riesce a mostrarsi al sole( I, 1 p.6)

e al cui interno è illuminato solo da un

un fioco lume quella tremula fiamma, quella pallida stella che con incerti bagliori, palpitando di luce timorosa, rende ancor più tenebrosa la stanza buia con insicura luminosità (I,1 p.7).

richiama alla nostra mente la caverna del mito platonico, dove uomini incatenati vedono soltanto grazie a “una luce di fuoco che arde” alle loro spalle e proietta loro le ombre degli oggetti che altri uomini, fuori dalla caverna portano su di sé. La condizione di Sigismondo è analoga a quella di quei prigionieri: non ha mai conosciuto la realtà, ma le sue apparenze, attraverso l’educazione impartitagli da Clotaldo. Egli è quindi vittima della doxa e più precisamente del suo primo livello: l’eikasía, una distinzione che credo sia lecito introdurre, benché Sørensen, per la conoscenza sensibile, si limiti a parlare genericamente di doxa. Tra i due gradi, infatti, sono percepibili delle sfumature sostanziali che tenteremo di mostrare brevemente. Il grado di ignoranza di Sigismondo spiega perché al momento del primo incontro con Rosaura, che rappresenta il trait d’union con quella realtà a lui sconosciuta, egli reagisca con violenza, minacciandola addirittura di morte:

Ti punirò con la morte, perché tu non sappia che io so che tu sai delle mie debolezze.(I, 2 p.8).

Progressivamente però, l’atteggiamento del giovane principe si fa più mansueto:

La tua voce ha avuto il potere di intenerirmi; il tuo aspetto mi trattiene, e provo per te un rispetto che mi turba. ( I, 2 p.9)

E’ come se provasse quel “dolore” che anche i prigionieri della caverna soffrono quando “levano lo sguardo in su, verso la luce,” che qui trova espressione nella donna e segna un lento spostamento verso la pistis : egli sta divenendo consapevole di un’esistenza altra dalla sua, ma sempre menzognera, perché sensibile e con cui si scontrerà quando verrà condotto nel palazzo (Seconda giornata).
Allo stupore del risveglio:

Cielo, aiutami, che vedo?Cielo, aiutami,che osservo?Non mi spaventa ciò che vedo,ma stento a credervi. (II, 3 p.28)

Segue la credenza o pistis di agire nell’unico mondo esistente:

Ma sia pure quel che vuol essere! Chi mi obbliga a fare
tanti ragionamenti ? Voglio lasciarmi servire, e accada poi quel che deve accade. (II, 3 p.29)

Idea che lo vede compiere una serie di azioni riprovevoli, come l’uccisione di un servitore, il tentativo di stupro verso Rosaura (II, 8) che denunciano come le convinzioni di Sigismondo siano fallaci.
Le considerazioni che il critico fa a proposito della sostanziale equiparazione tra vita e sogno cui perviene il principe in seguito al suo risveglio nella torre (II, 19), risultano forse alquanto riduttive: egli si limita a vedervi l’intenzione di Sigismondo di dominare i propri istinti per timore che questi possano indurlo a compiere azioni che gli si ritorcano contro. Se possiamo riconoscere con lo studioso che il percorso conoscitivo di Sigismondo è ancora lontano dalla vera scienza e si colloca tuttora nel dominio della doxa, è del resto innegabile che tali riflessioni preparino il terreno ai contenuti del suo dialogo con Rosaura, con cui si incontrerà per la terza volta, momento di particolare importanza poiché la donna segna il punto di convergenza tra quella che potremmo definire la “realtà” del sogno, ovvero quella della torre e la realtà effettiva del palazzo. E qui forse non è fuori luogo notare la presenza di un altro motivo di fondamentale importanza nell’ambito della filosofia platonica: la funzione maieutica che rivestono il ricordo e la visione di Rosaura ; la donna in quanto copia del mondo sensibile risveglia le idee in Sigismondo, fa vacillare le sue certezze precedenti, opera un po’ alla maniera di Socrate : sollecita il suo interlocutore che esclusivamente con le proprie forze risolve il suo problema, in questo caso, quello della conoscenza. Affidandoci nuovamente a Sørensen, assistiamo infatti al riproporsi del dilemma tra vita e sogno che finisce per assumere un valore metaforico: “tutte le cose terrene sono prive di valore in quanto effimere”:il principe trascende così la sua conoscenza sensibile, per approdare al primo grado di quella intelligibile: la diánoia, che si esplica in modo particolarmente significativo nelle seguenti riflessioni del principe:

Sono dunque tanto simili ai sogni le glorie, che quelle reali sembrano false, e quelle simulate, vere ? Così poca differenza c’è tra le une e le altre, che si deve discutere per sapere se ciò che si vede e si gode è verità o menzogna? ( III, 10 p.67)

Si deve ancora parlare di diánoia, come lo dimostra il fatto che Sigismondo “continui a subire le influenze dei suoi istinti primitivi:

Rosaura è nelle mie mani, e io desidero la sua bellezza. Profittiamo dell’occasione…(III, 10 p.67)

i quali ben presto lasciano spazio al conseguimento della conoscenza suprema, il noesis, che lo rende partecipe dell’eterno,concetto che in una visione cristiana si sovrappone al Bene di Platone:

pensiamo alle cose eterne, alla fama perenne, dove la felicità non dorme né riposa la grandezza. (III, 10 p.67)

Si è compiuto il processo conoscitivo e conseguentemente la formazione del re-filosofo che, finalmente degno di governare, con saggezza perdona il padre, riconquista l’onore di Rosaura e ristabilisce la giustizia nello Stato.
A questa “ascesa dalla caverna,” si legano strettamente altri motivi platonici di forte suggestione come l’amore e la bellezza. Si può comprendere il ruolo cardinale svolto da Rosaura, considerando ciò che i due valori rappresentano per il filosofo di Atene: la bellezza si lega con la tematica dell’amore che viene inteso come forza mediatrice tra sensibile e soprasensibile, forza che eleva verso l’idea della Bellezza in sé. Poiché la Bellezza coincide col Bene, la bellezza sensibile di Rosaura richiama quella ideale e il sentimento di amore che essa suscita è anelito al soprasensibile. Il percorso ascendente verso la conoscenza del testo di Calderón, si arricchisce e trae linfa vitale proprio dalla suggestiva presenza dell’ “amore platonico”, via alogica all’assoluto.
Una simile lettura, tanto specialistica per un testo dagli spunti infiniti, può talora risultare alquanto forzata, ma ha indubbiamente il fascino di calare in un’atmosfera mitica, uno dei grandi interrogativi, eternamente significanti, proposti dal testo: quello della conoscenza umana.

2.2. Fato, Provvidenza e libero arbitrio.

Abbandoniamo il problema della conoscenza, per affrontarne un altro, forse più spinoso e dibattuto, ovvero il rapporto tra Fato, Provvidenza e libero arbitrio. Per fare questo ci avvarremo di uno studio di E. Teresa Howe: Fate and Providence in Calderón de la Barca, che, a differenza di altre letture, ha forse il merito di centrare i nodi cruciali della questione, attenendosi strettamente al testo.
Su questo possibile rapporto e sulle sue modalità, si sono interrogati grandi pensatori cristiani, quali San Tommaso e Sant’Agostino, le cui riflessioni sono di fondamentale importanza per comprendere come debbano intendersi le due forze che regolano la vita umana: il Fato e la Provvidenza. Il Fato, concetto originariamente pagano, nell’universo della cristianità, è venuto a indicare “la disposizione delle cause seconde”, ossia delle azioni umane “che possono indurre al compimento del volere divino;” la Provvidenza rappresenta, invece, “l’ordine di tutte le cose, orientate necessariamente verso il fine supremo, la perfezione dell’universo.” Sant’Agostino riconosce poi che certi segni naturali, come per esempio gli astri possano avere una qualche influenza sugli uomini e possano servire a predirne il Fato; essi non agiscono invece sul volere umano che è libero, all’interno del grande disegno provvidenziale.
Cerchiamo di comprendere come simili argomenti teorici trovino applicazione nel testo di Calderón de la Barca. Basilio si è affidato all’interpretazione delle stelle, pensando che queste potessero determinare il futuro di Sigismondo. Così facendo,” ha negato il potere del libero arbitrio” e della Provvidenza, scavalcando la dottrina cristiana che pur non doveva essergli ignota. E proprio rimeditando su Fato e libero arbitrio, si renderà conto della possibilità che ha l’uomo di dominare sulle stelle. Afferma, infatti:

anche se la sua inclinazione lo spinge alla rovina, potrebbe non avere il sopravvento; il fato più aspro, l’indole più violenta, la stella più empia inclinano sì la volontà, ma non la forzano. (I, 6,p.19)

Un fato che inclina l’indole dell’uomo verso il male non è una forza irresistibile, il libero arbitrio e la Provvidenza possono indirizzare la sua condotta verso il bene e la saggezza. Basilio deciderà allora di mettere alla prova suo figlio, introducendolo a palazzo, come più volte abbiamo visto, ma dopo averlo cresciuto come un bruto. Scontrandosi con la sua prima esperienza di vita, egli non può che confermare i vaticini del fato, rivelando la sua violenta natura. Ma poiché è la Provvidenza a determinare i destini umani e per Sigismondo prevede un corso ben diverso, necessariamente vince sul Fato. Il principe sarà, infatti, liberato e, avendo ormai tratto insegnamento dalla sua uscita dalla torre, potrà, esercitando il libero arbitrio concorrere alla realizzazione del disegno provvidenziale. Alla fine, innegabilmente, i vaticini trovano in parte conferma: il monarca è umiliato ai piedi del figlio, ma come dice Sigismondo, egli non ha tentato di ostacolare la sorte con moderazione e saggezza, bensì si è comportato come chi “temendo una belva feroce la ridesti” o come chi “temendo di trovare la morte dalla spada che ha di fianco, se la sfoderi davanti al petto”(III, 14 vv.3186-3193). Non avverrà invece la fine pronosticata per il regno: non sarà né diviso in fazioni, né diventerà scuola di vizi e tradimenti, ma al contrario, assisterà al compimento di azioni nobili proprio da parte di chi sarebbe dovuto divenire il più empio dei tiranni. Il messaggio di Calderón de la Barca si fa quanto mai evidente: la Provvidenza e l’esercizio del libero arbitrio possono indirizzare verso il bene anche la natura più malvagia.

3. CONCLUSIONE

Benché le interpretazioni illustrate non rappresentino che una minima esemplificazione delle letture proposte dalla critica, sono forse sufficienti per rendersi conto della sua ricchezza e complessità. Ogni volta che tentiamo di inquadrare La vita è sogno in uno schema esegetico finito, si ha come l’impressione che ci sfugga di mano, mostrandoci il suo caleidoscopico intreccio di piani, proponendoci nuove riflessioni. È il trionfo del molteplice barocco che, sotto l’apparente semplicità fiabesca, dietro un titolo che sembra il riproporsi di una formula consunta sottende interrogativi dalla valenza cosmica: cos’è la realtà? È il sogno finzione e la veglia realtà? O è l’inverso? Se la vita che viviamo non fosse che una rappresentazione in cui recitiamo una parte?
Come abbiamo cercato di mostrare attraverso alcune interpretazioni, Calderón de la Barca non ci presenta solo riflessioni tanto astratte da apparire quasi giochi intellettualistici, peraltro stimolanti, ma ci pone di fronte a quelle grandi domande dalle implicazioni pragmatiche a cui egli sembra rispondere proponendo la via etica. Il trionfo del bene costituisce il punto di convergenza di letture anche lontane fra loro, forse proprio perché il messaggio di Sigismondo: obrar bien es lo que importa risuona prepotentemente, improntando di sé la magmatica ricchezza dell’opera.

BIBLIOGRAFIA

CALDERÓN DE LA BARCA, Pedro, La vida es sueño, Madrid,
Ediciones Cátedra, 1998, Introduzione di Ciriaco Morón.

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CILVETI, Ángel L.,El significado de “La vida es sueño”,Valencia,
Ediciones Albatros, 1971.

DAVIES ,Charles, “Poland, politics and La vida es sueño”, BHS,
1993, pp.147-164.

HOWE , Elizabeth Teresa, ” Fate and Providence in Calderón de la
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McGRADY, Donald, “Calderón’s Rebel Soldier and Poetic Justice
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SØRENSEN, Jorge, “La vida es sueño and Plato’s Theory of
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