Eugenio Barba: Hong Kong 2006

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Eugenio BarbaEugenio BARBA: Academy for Performing Arts, Hong Kong 2006

Angelanimal

Tecniche perdute per lo spettatore

“È impossibile non pensare alla peste endemica e alle sue vittime quotidiane al tempo della nascita del commercio del teatro. Nella Londra elisabettiana, quando il numero dei morti della pestilenza superava venticinque a settimana, le autorità chiudevano i teatri per settimane e mesi. Le epidemie, insieme ai bigotti, erano gli avversari del teatro.”

Siamo lieti di pubblicare il discorso tenuto da Eugenio Barba in occasione della laurea Honoris Causa conferitagli dall’Academy for Performing Arts di Hong Kong il 7 luglio 2006

Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione.



Eugenio Barba: Academy for Performing Arts, Hong Kong 2006

Angelanimal

Tecniche perdute per lo spettatore

Discorso di Eugenio Barba in occasione della laurea Honoris Causa conferitagli dall’Academy for Performing Arts di Hong Kong il 7 luglio 2006

Eugenio BarbaDi quante sensazioni è composta l’angoscia? Per darmi coraggio, la mia ragione si compiace a individuarle e descriverle mentre il camioncino avanza con un estenuante singhiozzo di scossoni e frenate. Le strade sono un tappeto di buche, pozzanghere, un fetore di fogne aperte e soprattutto tenebre. La città sembra sconfinata, senza illuminazione, senza lampioni, vetrine rischiarate e
insegne sfavillanti. L’ansia mi afferra: insicurezza, voglia di essere altrove, riconoscere qualcosa che mi tranquillizzi. Una fitta nebbia nera: così è Port-au-Prince, la capitale di Haiti, quando il sole scompare. Fioche luci consentono di immaginare finestre e caseggiati. Intravedo i passanti come ombre minacciose, pronte ad aggredirmi. Uno sprazzo luminoso fuoriesce da una baracca, un gruppo di persone si muove tra candele e consolanti lampadine elettriche. “Una casa di santi” mi informa l’autista, un luogo di venerazione dei loa del Voodou.

Di che tipo di dettagli abbiamo bisogno per identificarci con una situazione del passato? L’oscurità di Port au Prince mi lascia immaginare sensorialmente cosa fosse un teatro ai tempi della commedia dell’arte. Un eccesso di luci, come una chiesa o un salone aristocratico, in un mondo caliginoso. Lo spettatore si inoltrava per strade buie, nella polvere, l’acqua stagnante, il fango, il lezzo degli escrementi e dei rifiuti e la paura dei tagliaborse in agguato. Ed arrivava alla tremolante luminosità di innumerevoli candele che amalgamava ricchi e poveri e infondeva un elementare piacere sensuale, strappandolo al grigiore e sancendo la rottura delle norme.

Anch’io ho vissuto a volte situazioni del genere come spettatore: una sensazione di benessere, vitalità, salute. Dimenticavo momentaneamente il terrore che mi accompagnava: la presenza del cancro che come un’ombra seguiva i passi di una persona amata. Osservo in silenzio una fotografia che mi mostra Stan Lai, il regista di Taiwan: la sala stracolma del Teatro Nazionale di Taipei, più di mille spettatori, tutti con il viso protetto da una mascherina bianca. Siamo nel 2002, in piena epidemia di SARS, l’intera vita sociale di Taipei è tarpata, la gente evita di prendere i mezzi pubblici, i cinema sono chiusi e i ristoranti deserti. Eppure lo spettacolo del suo Performance Workshop vince il terrore del contagio e la gente si ammassa per assistervi. Qual è il fascino o la perentorietà di questo spettacolo che inducono lo spettatore a dimenticare l’istinto di conservazione?

È impossibile non pensare alla peste endemica e alle sue vittime quotidiane al tempo della nascita del commercio del teatro. Nella Londra elisabettiana, quando il numero dei morti della pestilenza superava venticinque a settimana, le autorità chiudevano i teatri per settimane e mesi. Le epidemie, insieme ai bigotti, erano gli avversari del teatro. Fu la peste, che chiuse il suo teatro nel 1593, a spingere Shakespeare a guadagnarsi il pane scrivendo poemetti su Venus and Adonis e The Rape of Lucrece dedicati al Duca di Southampton.

Una volta, ho creduto veramente di essere spettatore di uno spettacolo del Seicento. Ero tra un pubblico che sembrava godersi l’interminabile attesa dell’inizio della recita. Chiacchieravano, si lanciavano motti a distanza, andavano a trovarsi da una parte all’altra della sala. Uomini e donne di tutte le età e provenienze sociali, schiere di giovani e famiglie con bambini e infanti che dormivano o piangevano in braccio alle madri o le sorelle. Frotte di ragazzini offrivano a gara gelati, bibite, semi e noccioline, fotografie d’attori e soprattutto d’attrici. Un’atmosfera di instancabile vociferare. Mentre la musica invadeva la sala, un mezza dozzina di ragazze bionde, abbigliate in attillati e succinti costumi sfavillanti di paillette iniziavano una danza provocante. (Vengono dalle ex repubbliche sovietiche – mi dice l’amica egiziana che mi accompagna – hanno studiato balletto classico in Russia, Ucraina, Bielorussia, sono intrattenute da chi se lo può permettere). Il balletto, sempre più provocante, era interrotto dall’entrata dei protagonisti. Seguiva una successione di scene farcite di allusioni ad avvenimenti politici e di cronica, intramezzate regolarmente dal balletto delle biondine in costumi sempre più titillanti. Erano situazioni di attualità, presentate per accenni, in maniera elusiva: satira e critica indiretta (un funzionario della polizia corrotto che alla fine veniva punito), una buona dose di nazionalismo (proveniamo dai Faraoni e ritorneremo alla loro grandezza, dichiarava un personaggio dalla cima di una piramide), solidarietà con i fratelli arabi (un attore sventolava una bandiera palestinese tra il trasporto del pubblico), gran finale con le ballerine che sgambettavano tra gli eroi.

Gli attori erano interrotti con frequenza dai commenti della sala, uno spettatore lanciava una battuta, l’attore replicava, il dialogo improvvisato veniva ripreso nello spettacolo tra schiamazzi e risate. Ero in un teatro popolare del Cairo, ben lontano dagli esperimenti artistici dei gruppi indipendenti teatrali egiziani. Sull’intero paese vigilava l’Università islamica di El Azar, la somma autorità religiosa che, nel mondo musulmano, valuta le minime deviazioni dall’ortodossia con giudizi inflessibili. Qui la censura di stato ha un nome ufficiale: “protezione degli artisti” per salvaguardarli dai fulmini teologici.

Intravedo in queste situazioni una componente del DNA del teatro del passato, oggi irrimediabilmente perduta. Rarissime volte, quando uno spettacolo ci fa cadere il cielo addosso, sembra risorgere. Vorrei evidenziare questa componente, ricrearla, descriverla obiettivamente senza rifarmi ad aneddoti personali. So in anticipo che la mia descrizione sembrerà enfatica o romanzata. Eppure voglio tentare.

*

All’inizio era la fame e la paura. Coloro che vendevano spettacoli nei primi cent’anni del teatro moderno europeo – l’epoca di Shakespeare, Calderón, di Lope de Vega e Marlowe, di Molière e della Commedia dell’Arte – rischiavano letteralmente di morire di fame, se i loro prodotti non erano attraenti abbastanza da legare a sé gli spettatori paganti. L’indigenza era in agguato se non suscitavano un attaccamento ed una dipendenza capace di contrastare il marchio d’infamia che le rigide convenzioni dell’epoca, le leggi contro il vagabondaggio e i cleri delle diverse sette cristiane imprimevano sul commercio delle scene.

Era un epoca di violenza e sospetto, intolleranza e scarsità di risorse. Le autorità indagavano i cittadini ritenuti immorali, i servi fuggiti dai loro padroni erano imprigionati, le mogli accusate di infedeltà punite pubblicamente. L’insicurezza materiale, l’incertezza del futuro e la durezza dei rapporti tra gentiluomini e servi erano impresse nei corpi spesso deformati dalle malattie e in anime storpiate dai vizi. Nobili e plebei erano decimati dalle pestilenze e dalle guerre, atterriti dal peccato e dalla minaccia della giustizia celeste. Il peso della vita li schiacciava a terra come una forza di gravità. Solo i loro sogni rimanevano in alto.

Fame e paura, ma anche fede, la ragione che va aldilà della pura sopravvivenza. Le fedi davano conforto e incutevano terrore. Erano armate e accoglienti, rispondevano all’oltraggio con la tortura che per la vittima rappresentava spesso la gloria del martirio. Le guerre erano ammantate di religione. Quelle intestine, fra i cristiani e i loro intransigenti estremismi, riproducevano in Europa lo scontro che nella geografia planetaria si svolgeva fra cristianesimo, musulmanesimo e paganesimo. Nell’interiorità dei singoli individui, guerre equivalenti opponevano la speranza della Salvezza al terrore della Dannazione.

A quel tempo il teatro era la celebrazione del turbamento e dell’eccitazione. Gli attori parlavano all’animale e all’angelo negli spettatori, pungolavano quella parte del cervello rettiliano in cui si annidano le pulsioni elementari della fame, della paura, della sessualità e della fede. Chi faceva un teatro che andava venduto sfruttava il brivido del raccapriccio intrecciato al fremito del godimento trasgressivo alternando scene di comicità e orrore, d’esaltazione religiosa e amore sregolato, volgarità e onore, tradimento e follia, apparizioni infernali e epifanie dell’Aldilà.

I palcoscenici erano pieni di botole e i loro cieli finti erano dotati di macchine. Dal basso salivano i demoni, i morti, i fantasmi; dall’alto scendevano angeli e dèi. Sprofondavano i dannati, volavano via i salvati. La dimensione verticale, che in scena diveniva un’attrazione, era incarnata nell’esperienza quotidiana: preghiera e blasfemia, la rigida ortodossia della fede e l’accanimento dell’eresia. Simulazione e dissimulazione stavano in egual misura nelle cronache e nei teatri: machiavellismi, amori colpevoli e assassinati, ebrei in veste di cristiani, eretici nascosti nel conformismo, viziosi pii, eroiche e sante fedeltà. L’ascesa e la caduta di re e regine infiammavano la fantasia della piccola gente sia nel teatro della storia che nelle storie dei teatri. Erano spettacolo popolare i roghi delle streghe e le esecuzioni.

Il teatro, nella sua maggior parte, intratteneva le passioni e gli impulsi istintivi degli spettatori stuzzicando desideri repressi, illusioni, ansie e superstizioni.

Da quei tempi e da quei teatri lontani restano incagliate sulle nostre spiagge alcune imponenti rovine. Tre figure di persone, soprattutto, capaci di viaggiare nel tempo: il principe Hamlet, l’aristocratico Don Giovanni e il dottor Faust. Ed Arlecchino, che è soltanto una maschera. Visitiamo queste e altre rovine rispettosi e ammirati. Le rimettiamo in piedi sui nostri palcoscenici. Restituiamo loro il dono della parola e dell’azione. Storici, artisti o scienziati dedicano loro larga parte della propria vita e dei propri sogni. Scandagliano queste rovine, le dissezionano, le interpretano, le spaesano attualizzandole o si spaesano essi stessi tentando di penetrare nel loro passato. Ma di fronte a loro, i nervi dell’animale e il fervore dell’angelo non si tendono più per l’allarme o il piacere. L’anima dello spettatore non vola né si sgomenta. Angelanimal dorme.

Angelanimal è il nome d’uno spettatore. O meglio: il mio modo di nominare una sfaccettatura dell’insieme complesso di reazioni intellettuali, emotive, critiche, razionali e istintive che compongono il singolare collettivo chiamato “spettatore”. È il nome che do all’animale che si nasconde nel fondo del mio cervello, e all’angelo indissolubile che come un’ombra si libra negli spazi vuoti sopra o sotto di lui. Gli uomini di scienza gli attribuirebbero forse una dimora precisa, nel macrocosmo del nostro cranio, fra il cervello rettiliano e il limbico. Non sono, però, un uomo di scienza, sono un artigiano, e Angelanimal m’interessa in quanto artigiano.

Il suo nome potrà apparire strano, ma ci basta poco per riconoscerlo nella sua semplicità. Si mette in azione nostro malgrado, per esempio, quando ci capita d’affacciarci nel vuoto da una postazione sicura, ma da una grande altezza. Qualcosa si annoda nella nostra pancia. Non pensieri, ma nervi. Non coscienza, ma istinto. Contemporaneamente ali di corvi neri squassano la testa, sogni-lampo che non riconosciamo nostri, fantasie di suicidio, irragionevoli ansie e terrificanti impulsi: basterebbe un piccolo salto, una corta interminabile apnea, e non saremmo più. Sono attimi fuggitivi, in genere non permettiamo loro di affiorare alla coscienza. Ma il nostro Angelanimal, in quegli attimi, si è svegliato. A teatro, quasi mai.

Li chiamiamo “stati d’animo”. Potremmo anche dire “stati di corpo”. Tali stati primordiali d’anima-e-corpo sono essenziali per dare al teatro l’esperienza d’una esperienza. Senza di essi, lo spettacolo rimane per me un ricamo d’intelligenza disincarnata. Questi stati primordiali non costituiscono i più alti valori del teatro, sono il terreno da cui essi crescono e dal quale si distinguono. Se Angelanimal non si risveglia, lo spettacolo più sopraffino a me dà l’impressione di essere un bambino bello e intelligente dai piedi di sabbia.

Può anche darsi che gli spettatori, nei loro apprezzamenti e nei loro ricordi, possano trascurare questi stati primordiali d’anima e-corpo. Ma come artigiano non voglio ignorarli, quando penso non solo alla densità estetica ed alla finalità culturale dello spettacolo, ma anche alle fondamenta della sua natura organica.

Riso, erotismo, spavento sono stati per secoli gli ingredienti elementari degli spettacoli teatrali, dei molti grossolani e beceri, ma anche dei pochi spiritualmente sottili. Oggi sembra che d’ingredienti elementari il teatro possa fare a meno, come un corpo idealizzato privo delle sue pudende. Come un corpo censurato dall’intelligenza o dall’intellighentsia. Sembra che il compito di risvegliare Angelanimal, la nostra ombra alata e la nostra ombra a quattro zampe, sia stato delegato ad altri spettacoli. Il teatro si è purificato. E’ diventato una nicchia disinfettata, intelligente e colta,     anche quando mostra corpi nudi e simulazioni di coito. Mi domando: perché il teatro è ora solo intelligente? Perché solo colto? Un cervello di solo cortex è ancora un cervello o una pura mostruosità?

L’ombra ha delle ali. Non sono molto presentabili, né decorose: hanno a che fare con l’animale. Eppure, non dovrei dimenticare che sono ali. Mejerchol’d affermava che l’attore è un uccello che con un’ala sfiora il cielo e con l’altra la terra. A me il compito di ritrovare nel mio lavoro quello che voleva dire, e coniare le mie parole per spiegarmelo.

L’artigianato del regista affonda per me le sue radici nella voglia di dare un sistema nervoso e un corpo-in-vita a una realtà impercettibile. Una delle funzioni di questo artigianato consiste anche nella capacità di individuare le differenti nature dello spettatore, nel saperle far dialogare, difendendole anche quando paiono di basso rango, garantendo la loro autonomia e la loro dignità. E’ facile reagire contro uno spettacolo che privilegia la volgarità. Più difficile ammettere che altrettanto inerte è uno spettacolo che vive soltanto per le alte quote dell’intelligenza e del piacere intellettuale.

Diciamo “spettatore”e pensiamo ad una personalità unitaria. Non è così, lo spettatore è sempre plurale.

Quando penso a me stesso come spettatore, debbo riconoscere la compresenza di molte voci parlanti all’unisono, alcune prevaricanti, altre per lo più tacitate, perché sepolte sotto i miei preconcetti culturali. Sono le più rozze, ma hanno anch’esse una loro saggezza.

Uno spettacolo parla alla fantasia e all’intelligenza. Di qui il suo valore. È vero e non è vero. Dovrebbe parlare anche alla stupidità, allo stupore infantile, alla sensualità elementare che alletta l’istinto ed all’altrettanto elementare impulso ad affondare un’ala nel cielo, mentre l’altra, con le sue piume, disegna ignobili graffiti nella terra polverosa.

È come se idealmente vi fossero quattro spettatori per ogni mio spettacolo. Devo convincere e sfamare ciascuno di essi. E li ho messi per iscritto tentando di distinguerli. Sono quattro personificazioni di diverse tendenze dei sensi e della coscienza:

1) il bambino che vede le azioni dell’attore alla lettera, e non si lascia sedurre dalle astrazioni, dai significati reconditi, dalle metafore e dalle innovazioni interpretative. Se Hamlet recita “Essere o non essere”, il bambino – attento alla letteralità delle azioni e non al valore della letteratura – vede un uomo che parla a lungo da solo senza far niente di interessante ;
2) lo spettatore che capisce di non capire, che non condivide né la nostra lingua né i nostri codici, ma che a sua insaputa danza, se è contagiato dall’organicità delle azioni dell’attore, dalla sua presenza scenica, ovvero dal livello pre-espressivo dello spettacolo. Anche se non sa di che storia si tratti, si rende conto quando il lavoro “è fatto bene”, curato nei dettagli, e intuisce che vuol dire qualcosa, anche se lui non capisce che cosa dica;
3) lo spettatore alter ego del regista-drammaturgo e di ciascuno degli attori: capace di riconoscere in ogni particolare un frammento di storia richiamata in vita, e minuziosamente informato di tutti i contenuti dello spettacolo, del significato e delle associazioni suscitate dalle parole. Ritornando ogni sera, vede lo stesso spettacolo come se fosse nuovo, come se le situazioni ben note gli fossero ignote, gravide di domande impreviste ed enigmi inaspettati;
4) e un quarto spettatore, muto, invisibile e onnisciente, che fra sé e sé ride del velo di Maia dello spettacolo. Osserva quel che nessun occhio può vedere: quel che l’attore fa con la mano sinistra quando gli altri spettatori vedono solo la destra. È lo spettatore che giudica l’impegno dell’attore nascosto nelle pieghe dello spettacolo e ne penetra i segreti, come se ogni cosa ed ogni corpo fossero vetro limpidissimo.

Potrei aggiungere altri spettatori: lo spettatore cieco, al quale dovrei far vedere l’intero spettacolo tramite le orecchie. O lo spettatore sordo che deve poter udire con gli occhi. O uno dei cosiddetti “selvaggi” della tribù scoperta una cinquantina d’anni fa nella Nuova Guinea. Se assistesse a un mio spettacolo, dovrebbe essere convinto che quel che vede corrisponde alle azioni che anche lui compie con la sua gente, quando si raccolgono in una di quelle cerimonie incastonate in un tempo/spazio extra-quotidiano. Tutti questi spettatori popolano la mia fantasia artigianale, la guidano e la tengono d’occhio.

Ma Angelanimal è diverso. A lui m’hanno obbligato a pensare le tre figure antiche e però ancora familiari ai nostri teatri: Hamlet, Faust e Don Giovanni. Negli ultimi anni, i casi mai casuali della professione m’hanno portato a confrontarmi con esse. Le avevo sempre evitate. Ora si vendicano e sorridono. Ma non mi dicono nulla.

C’è stato un tempo in cui Angelanimal si svegliava davanti alle loro vicende, quando vedeva, fra le vaste ombre delle tombe, un monumento funebre annuire, parlare e accettar un invito a cena che s’affacciava sul pozzo dell’inferno. O quando sugli spalti d’un castello, contro un cielo gelido, immaginava sorgere un fantasma dalle acque del mare, un’anima senza pace, morta senza il tempo di pentirsi e ricevere l’assoluzione per i suoi peccati. O quando contemplava il modo in cui un vegliardo sapiente, chiusi i suoi libri sterminati, si pungeva le vene dei polsi per far sprizzare qualche goccia di sangue in cui intingere la penna e firmare il contratto per vendere l’anima ad un giovane diavolo garbato ed untuoso.

L’inferno, la statua che si muove, il demonio e il fantasma, che accompagnano Hamlet, Faust e Don Giovanni, mettono in moto il nostro intelletto e si prestano a mille interpretazioni intelligenti e a fantasiose attualizzazioni. La modernità ha lasciato intatta la loro grandezza. L’ha solo castrata. Non fanno più paura. Parlo della paura primordiale, inintelligente, che sbatte contro un buio che non si lascia sfondare. Non atterriscono più l’animale che si nasconde nel fondo del mio cervello, né l’angelo che come un’ombra si libra negli spazi vuoti sopra o sotto di lui.

C’è stato un tempo in cui le nozioni di peccato, di giudizio post mortem, di pene dell’inferno, di anime senza pace risvegliavano Angelanimal, e lasciavano che si agitasse nel fondo del cuore e dello stomaco degli spettatori, suscitandovi la trepidazione del pericolo, dell’oltraggio e della blasfemia. Oggi a tutto questo, fisicamente non crede più nessuno, neppure coloro che spiritualmente vi credono. Non è un problema ideologico, filosofico o d’antropologia culturale. Per me è un dilemma artigianale.

Immagino che Jean Genet pensasse a questi elementi primordiali dell’artigianato, quando disse, con parole che riassumo: Cominciate a costruire i teatri nei vostri cimiteri. Pensate a che cosa sarebbe uscire di notte da una rappresentazione del Don Giovanni di Mozart, fra i lumini e i silenzi delle tombe.

C’è stato un tempo in cui Don Giovanni suscitava il riso e la ripugnanza, eccitava fantasie perverse e incuteva tremore quando un uomo di sasso lo spingeva nell’abisso riducendolo a un grumo di lercio dolore, dopo tanta ansia di gioia. L’Uomo di Sasso, poteva essere una statua grossolana o un attore ricoperto di biacca, ma in esso il potere giusto e onnisciente dell’intera cupola del Cielo sembrava implodere. Finto fuoco, finti tuoni, finta disperazione: ma Angelanimal riconosceva a che cosa accennasse quel cumulo di finzioni. Qualcosa si raggrinzava nei nervi. Un’ala nera scompigliava la sicurezza dei pensieri.

Oggi quelle finzioni si sono rovesciate in preziosi forme estetiche e mirabili interpretazioni concettuali.

Non credo al mistero della statua e neppure al diavolo. L’inferno è nel mondo che conosco, non nell’Aldilà. Non è affatto un mistero, è storia. I fantasmi non mi fanno paura, ne parlo spesso e sono utilissimi attrezzi metaforici. Mi piace immaginarli e non temo di incontrarli sulla mia strada.

Non ci credo io e so che non ci credono i miei spettatori. Siamo troppo avveduti per lasciarci spaventare da questi ruderi suntuosi del passato. Il teatro del nostro tempo è diventato tanto intelligente e colto da impedire ad Angelanimal di risvegliarsi.

Ma se faccio teatro, è per sfamare anche lui, Angelanimal, e lasciare libero passo al Disordine, all’irruzione di un’energia scompigliante nell’ordinato banchetto culturale. Forse, se per qualche breve momento, tutto lo spettacolo si incrinasse, perdesse l’equilibrio, le staffe e i lumi, allora Angelanimal troverebbe lo spazio per alzarsi sulle sue zampe e sgranchirsi le ali.

Non faccio teatro per provocare gli spettatori. Desidero essere io provocato dal mio stesso lavoro, come il falegname Geppetto, il “padre” di Pinocchio, che sente il legno rispondergli e si sente scrutato da occhi che lui stesso ha intagliato.

Per anni mi sono confrontato con storie e figure che mi ponevano domande per me essenziali e per le quali non avevo risposte. Potevo solo addentrarmi fra di esse, cercando di aprirmi un sentiero. Da qualche tempo vengo sospinto verso classici monumenti che ammiro ma che non mi minacciano.

Pongo loro ossessivamente la domanda infantile, per me sostanziale, che mi ha accompagnato lungo tutta la mia esperienza teatrale: che cosa volete dirmi? Non vogliono dirmi proprio niente. Solo belle e intelligenti interpretazioni. Null’altro.

Mi chiedo se Hamlet, Don Giovanni e Faust che ritrovo continuamente sul mio cammino professionale – e tante volte evitati – siano casi-limite, grandi letterarie rovine del teatro defunto, invulnerabili e incapaci di ferire. O se non siano invece l’incarnazione della conquista dell’inutile che è il teatro.

Poi la loro monumentale stabilità comincia a suggerirmi un crollo.

So che debbo costruire architetture, convenzioni e muri intorno a loro. Ed attendere con pazienza l’irruzione del Disordine, di una forza improvvisa che con una provvida scossa farà crollare le tre grandi figure, distorcendo le loro storie così spesso viste e previste, travisando la geografia in cui io e gli spettatori sappiamo orientarci.

Ciò che crolla non pone domande. Siamo noi a porre domande su di noi, risvegliati alla nostra stupefatta paura.

Angelanimal tace. È in attesa del Disordine.

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