Università del Teatro Eurasiano, 2004

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1240 iscritti / anno III,  n ° 14 /settembre 2004


Università Teatro Eurasiano 2004Università del Teatro Eurasiano, XI sessione,
Caulonia 2004 –

 

 

“Storia sotterranea del teatro contemporaneo: la regia”

I Seminari teorico-pratici si sono tenuti a Caulonia nel giugno 2004 con la partecipazione di: Eugenio Barba e Julia Varley (Odin Teatret), Franco Ruffini e Nicola Savarese (Università di Roma III), Ferdinando Taviani e Mirella Schino (Università dell’Aquila).

L’organizzazione è stata della Associazione Proskenion e in particolare di Claudio La Camera e Maria Ficara

Quella che presentiamo è una selezione degli appunti redatti dall’amico Marco Galati  che pubblichiamo senza correzioni o aggiunte e dunque non ha la sistematicità di un capitolo di un libro, eppure presenta la freschezza della presa diretta.

Ringraziamo Marco Galati per il permesso alla pubblicazione e ricordiamo di aver già pubblicato i suoi appunti su

Buona Lettura



 Università del Teatro Eurasiano, XI sessione, Caulonia 2004

“Storia sotterranea del teatro contemporaneo: la regia

Eugenio Barba

Un regista ha moltissimo potere, ha delle persone che gli credono e ha sempre l’ultima parola.

Si assume la responsabilità di far sopravvivere il gruppo; il regista è colui che decide e che indirizza le persone con cui lavora anche in direzioni diverse da quelle che loro avrebbero preso.

Il regista è uno degli ultimi despoti fisici, economici e psichici.

Mentre un regista lavora con i suoi attori c’è sempre la presenza di una componente fluttuante (in continuo movimento) che va dall’attore al regista e viceversa.

Esiste una tecnica per lavorare con gli attori e fare uno spettacolo. Si possono definire dei principi che un regista deve conoscere: l’uso della parola, dei silenzi, delle azioni, deve far vedere ai suoi attori i varchi dove loro devono introdursi. E’ importante la fisicità del regista quando dirige le prove.

Deve trovare il modo di non far perdere nessuna sua parola agli attori.

Il carattere può essere energico e furioso, oppure contemplativo e calmo.

Il regista deve essere capace di mandare i propri attori oltre i propri limiti.

Il modo di essere regista si trasforma negli anni tramite le diverse situazioni in cui ritrova ad operare.

Il regista non deve mai dire la “verità assoluta” perché “non esiste”. Deve trovare il modo migliore per stare in mezzo a queste due estremità (dire e non dire). Esistono dei principi di regia che si possono leggere nei libri o apprendere con la pratica, ma le cose migliori si imparano in maniera indiretta, osservando le prove e gli spettacoli. E’ interessante vedere come situazioni che sembravano senza via d’uscita, destinate a naufragare, si sono invece sbloccate perché il regista trovava delle soluzioni opportune. Ogni regista ha il suo modo di comunicare, in maniera diretta o indiretta con i propri attori. Ogni regista sa, quando lavora, che non sempre sa esattamente in che direzione andare; può capitare che sia il caso a decidere e a sbrogliare una situazione.

Il regista deve avere il coraggio di ammettere di fronte ai propri attori che, talvolta, non sa cosa stia facendo e perché. Questa regola vale però per un gruppo affiatato che lavora insieme da anni.

In ogni caso c’è una cosa che il regista sa sempre e cioè: che vuole raccontare una storia.

Capita, alle volte, che solo alla fine delle prove di uno spettacolo, o dopo molte repliche, finalmente il regista scopre esattamente che storia ha voluto raccontare. L’insicurezza su cosa e come va raccontata una storia da parte del regista deve essere accompagnata da una profonda competenza tecnica e profondo senso di responsabilità morale agli occhi degli attori del suo gruppo.

La storia che si racconta in scena deve essere come un corpo umano: deve avere un’epidermide, una pressione sanguigna, un volto, una voce, una personalità, un sistema nervoso, delle precise dimensioni fisiche, acciacchi, vizi e virtù, memoria emotiva.

La storia è come un segreto che il regista sa e non sa.

Il regista deve sempre essere incredulo verso i propri convincimenti, ma sempre pronto ad essere forte e deciso nelle sue idee e convinzioni quando, lavorando con i suoi attori, si creano relazioni che a loro volta creano intrecci, bios, vita.

Il testo è essenziale. Non si può fare uno spettacolo teatrale senza testo, ma non necessariamente il testo dello spettacolo teatrale deve essere un testo teatrale.

A volte nell’oscurità abbiamo visioni, intravediamo barlumi di luce che non sappiamo definire con esattezza ma proviamo ad interpretare con parole che gli attori possano comprendere. Esiste il principio della presenza del regista, il suo modo di suggerire all’attore come comportarsi. Per un regista è molto diverso lavorare con attori che conosce bene e che ha formato e di cui prevede i comportamenti piuttosto che lavorare con attori che non conosce. E’ molto importante notare come  gli attori reagiscono alle indicazioni del regista. Quando attori e registi si conoscono bene non c’è mai ridondanza di materiale, in genere si salva subito il cuore, i polmoni, il fegato e cioè tutte quelle parti essenziali a mantenere in vita un organismo (vivente). Molta parte del lavoro di regia è coordinamento del lavoro di altri (attori, tecnici, scrittori, musicisti, scenografi). Decidere di non fare più spettacoli oppure di fare spettacoli per un numero estremamente limitato di persone va contro la natura stessa del teatro; ma come si fa a non diventare banali e superficiali negli anni !? E’ molto importante il livello di energia mentale della trasmissione attraverso le parole e del modo di operare del regista nei confronti dei suoi attori. Teoria, tecnica e un terzo fattore decisivo ma che non si lascia spiegare facilmente:

la “temperatura” personale dell’attore che è saldata alle sue memorie autobiografiche.

Lo spettacolo cresce quando è sognato, le sue continue trasformazioni vanno sognate.

Lo spettacolo deve essere sognato ad occhi aperti; esiste una tecnica speciale che ci fa guidare i sogni da svegli affinché non si diventi succubi di ciò che sogniamo, ma ci resti intatta la facoltà di decidere in qualunque momento in quale direzione dirigere il nostro sogno, la nostra visione.

Il sogno si deve concludere alla fine, dopo anni di lavoro, in un modo speciale: deve diventare anche il sogno degli spettatori.

Mentre si fanno le prove dello spettacolo diventa evidente quasi subito che il sogno naufraga, allora il regista lo deve trasformare per fare in modo che gli attori possano entrare nuovamente nel suo sogno. Si intrecciano energie ed informazioni diverse che provengono da chi lavora alla costruzione dello spettacolo. E’ un continuo stillicidio psicologico preparare un nuovo spettacolo: vivere nell’incertezza del risultato finale, dei dubbi sul materiale che si elabora. E’ come se fossimo in un antro oscuro,

ci sono delle finestre ma come facciamo a sapere quale dobbiamo aprire per far entrare la luce, il sole, chiarore nella stanza e rendere così visibile lo spettacolo (i nostri sogni) al pubblico !?

Il difficile non è sognare ma mettersi nello stato di sognare.

Come trasformare in azioni e scene il lavoro mentale di un regista ? Come si dà anatomia al sogno?

Il regista e gli attori devono vivere a livello cenestetico (empatia) le emozioni che si provano raccontandosi il sogno. Anche se mancano ancora delle parti, l’empatia ci fa immaginare tutta la forma che alla fine prenderà lo spettacolo.

Il regista deve creare l’anatomia dello spettacolo: la sua pelle, le sue ossa, il suo sistema nervoso, la sua circolazione sanguigna. Deve saper creare il corpo-mente (soma-pneuma) dello spettacolo.

Il riduttivismo è quella tecnica che obbliga il ricercatore a ridurre sempre di più il suo campo di studio per trovare il nocciolo, l’essenza del problema. Per l’attore si può provare a trovare le azioni fisiche minime ed essenziali che permettano alla sua sensibilità e alle sue capacità di dar vita al sogno.

Che cosa è veramente utile quando leggo i libri di storia del teatro? A volte mi sembra che tutta la mia conoscenza provenga dai libri, ci sono delle cose che sono sempre rimaste vive in me, negli anni. Quando leggo cerco sempre esempi che stimolino la mai fantasia, la mia astuzia a districarmi dalle situazioni ingarbugliate. Quando si lavora in un certo tipo di teatro si hanno sempre delle conseguenze che derivano appunto da un certo modo di lavorare.

Qualunque cosa tu dica ai tuoi attori lascia un segno, una traccia dentro di loro, che al momento può sembrare invisibile ma le cui conseguenze gli restano dentro per sempre.

I registi devono essere moralmente consapevoli delle parole che dicono ai loro attori.

Conoscere tutti questi esempi (famosi e misconosciuti) hanno significato per me una piattaforma solida su cui potermi appoggiare e stare al sicuro nei grandi momenti di sconforto della mia vita professionale.

La regia è una forma di artigianato che ognuno si deve inventare a suo modo e che con il tempo in effetti si crea da sé. Il regista deve essere un commutatore di valori oltre che di segni e di energia.

Esiste un’influenza diretta dai libri sul mio modo di lavorare. Le persone di buon senso sanno che alle volte è possibile imitare in maniera diretta ed altre volte, invece, è meglio imitare in maniera indiretta per non fare del male alle persone che si vuole imitare. Finché il regista non ha un rapporto consolidato con i suoi attori non può mostrarsi indeciso nei loro confronti. E’ un percorso a tappe che necessita di molto tempo e di molto lavoro in comune. La domanda che chi vuol fare teatro deve porsi è soprattutto questa: voglio fare teatro per tutta la vita, oppure no!? Credo sia importante che ciascuno di noi si faccia questa domanda e provi a rispondere. Se io mi rispondo che voglio fare teatro per tutta la vita so di avere un ”tempo lungo” a disposizione e la possibilità quindi di raggiungere certi risultati.

Se così è posso scegliere compagni di un certo tipo. L’importanza di lavorare in gruppo sta nel creare una forte complicità tra i componenti del gruppo. Si può creare una specie di mitologia grazie alle persone che si scoprono nei libri; i loro problemi, le loro difficoltà. Certi teatranti sono delle vere e proprie figure guerriere. Leggere le biografie di questi uomini di teatro serve non solo a conoscere le loro tecniche, i loro consigli per gli attori, ma scoprire attraverso le loro difficoltà il modo di superarle nei “tempi lunghi”. Se nei momenti di sconforto uno cede e si lascia andare agli umori del tempo che vive, allora finisce con il vendersi l’anima.

Il regista deve saper far lavorare l’attore nel gruppo, anche se deve essere in grado di fargli sviluppare la sua personalità.

Più uno dura negli anni con la coerenza del suo comportamento rigoroso, più si crea attorno al gruppo un alone di prestigio che lo distingue. Nei “tempi lunghi” tu impari come preparare un attore fisicamente, intellettualmente, crei un forte e solido legame che va al di là di quella che può essere un semplice rapporto professionale e diventa una vera amicizia, speciale, particolare. L’uomo è incredibilmente capace di adattarsi alle condizioni ed alle circostanze in cui opera. Però nel teatro ci sono anche i “tempi brevi”. Il momento della verità è quando tu devi agire di fronte allo spettatore, perché ti misuri di fronte a qualcuno che nei tuoi confronti è inesorabile.

Da qui non si scappa: non si può sempre rimandare il momento del confronto.

Quando comincia e quando finisce la responsabilità del regista?

La sua responsabilità comincia dal primo giorno che permette ad un attore di entrare nel suo gruppo e finisce quando un attore, di sua volontà, lascia il suo gruppo teatrale.

Io lo trovo un sano costume che qualche attore ogni tanto se ne vada e mi lasci. Perché è giusto che ogni attore senta profondamente il desiderio di andare oltre le proprie possibilità, i propri limiti, anche cambiando gruppo. Regista ed attori, quando lavorano insieme ad uno spettacolo teatrale diventano parte integrante l’uno dell’altro, in maniera spesso non consapevole. Per il regista non esiste momento più strano di quando finalmente lo spettacolo comincia e vede gli attori allontanarsi da se e l’unica consolazione che gli rimane è quella di vederlo rimanere vivo sera dopo sera. Nel tempo lungo devi inventare circostanze pratiche e precise in cui far lavorare gli attori che devono, a loro volta, essere precisi e non ridondanti.

Il regista deve riuscire a capire chiaramente cosa gli dà fastidio di un attore e l’attore deve essere profondamente consapevole di cosa è necessario nei suoi comportamenti in scena e di cosa invece deve liberarsi perché superfluo. L’attore deve essere radicato al suolo. Il “grounding” è la prima regola di tutti gli sporti agonistici da combattimento (boxe, judo, lotta, scherma). L’attore deve sempre essere pronto ad attaccare e, allo stesso tempo, a ritirarsi. Cercare di colpire il proprio partner al petto con i piedi, non troppo forte, e cercare di fargli perdere l’equilibrio o anche quello del training fatto con Ana Woolf (colpirsi al ginocchio stando di fronte o anche di spalle senza voltarsi).

Il regista deve saper elaborare e complicare all’infinito un esercizio facendo sì che gli attori eliminino tutti i gesti superflui. Il problema della precisione è legato alla libertà dell’altro partner. Come è possibile creare libertà all’attore? Facendo l’azione e, contemporaneamente, negarla. Sorprendersi reciprocamente, per gli attori significa restare in uno stato di permanete reattività. Prendiamo un altro esercizio di Ana: quello in cui saltiamo di fronte ad un partner e gli diamo degli schiaffi con le mani a palme aperte sulle mani, una variante può essere, ad esempio, fare questo esercizio con lo schiocco o senza schiocco, i partner devono capire mentre sono in aria quali saranno le loro reciproche intenzioni senza dichiararle apertamente ma implicitamente con il lavoro fisico del corpo che parla con i suoi segni speciali. Senza schiocco può essere, ad esempio, che i due attori si prendono le mani per aria e si stringono le dita senza fare rumore.

Che significa agire senza recitare? Gli attori eseguono azioni senza recitare quando sono concentrati su quello che devono fare e sono vivi nell’azione.

E’ importante conoscere la corporeità dei propri compagni e reagire di conseguenza ai loro stimoli e facendolo crescere nella fiducia reciproca. La regola della libertà impone di avere (al minimo) due modi per fare un’azione. Complicità significa per un gruppo di attori la capacità di intrecciare insieme azioni. Come fa il regista a lavorare con cura con i propri attori quando c’è poco tempo a disposizione? Evidentemente non può farlo perché per lavorare in questo modo bisogna essere ricchi di tempo. Formare pedagogicamente i tuoi attori significa portarli oltre i propri limiti. Pedagogia significa infatti “andare oltre”. Il regista ti deve indicare come andare oltre dando dei compiti precisi e quando finalmente l’attore ci riesce e fa bene ciò che deve fare e il regista si deve inventare un nuovo compito. “Andare oltre” è un’azione fisica tangibile che agisce sull’istinto vitale dell’animale umano,

è una sete di assoluto. Questa è la vera funzione del training.

Noi, all’Odin, abbiamo l’abitudine quando lavoriamo ad un nuovo spettacolo di far passare un po’ di tempo prima di incontrarci in modo che quando gli attori presenteranno il materiale da loro elaborato sapranno stupirmi e sorprendermi. “Andare oltre” significa superare i nostro muri, le nostre barriere. Non si può programmare la commutazione di senso, si può solo provare ad indurla.

Commutazione significa mutazione, partendo da una fase energetica precisa;

è un vero e proprio salto quali-quantitativo di energia e di segni.

Il regista deve stare  molto attento a non farsi esplodere il gruppo tra le mani. Alle volte il buon senso consiste nel non essere sensati, ragionevoli.

Una cosa è vivere stati affettivi, tutt’altra cosa è riuscire ad esprimerli.

Il pensare un movimento non significa (solo) saperlo eseguire.

Chi, in un determinato momento del montaggio, decide cosa è giusto o cosa è meglio fare o cosa bisogna sapere abbandonare? Non c’è alcun dubbio: è il regista che deve svolgere questo ruolo e solo a lui sta la decisione se spiegare ai suoi attori oppure no le proprie scelte. Ci sono dei registi che spiegano ai loro attori cosa vogliono ed altri registi che tengono invece nascosto ciò che vogliono dai loro attori mentre viene elaborato il materiale da portare in scena. La regia di gruppo non esiste perché di fatto anche in quelle situazioni che sembrano così, esiste un leader che prende in mano il gruppo e lo guida. Il regista si deve preoccupare che lo spettacolo venga costruito bene e poi deve lasciarlo andare per la sua strada che può anche essere indipendente dalla sua volontà iniziale e chi può dare l’indipendenza ad uno spettacolo? Solamente gli attori possono (saper) fare questo. Quando parlo di spietatezza mi riferisco al fatto di non barare, di non scegliere solo le cose semplici ed evitare appositamente quelle difficili. La stessa severità che il regista impone ai suoi attori, deve sapere imporla prima di tutto a se stesso, alla sua natura intima.



 

Università Teatro Eurasiano 2004

Franco Ruffini, Nicola Savarese, Mirella Schino e Ferdinando Taviani

 

Appunti tratti dagli interventi degli storici del teatro
(Franco Ruffini, Nicola Savarese, Mirella Schino e Ferdinando Taviani)

 

Attore, scenografo, drammaturgo, illuminotecnico… sappiamo che figure siano e che ruoli (precisi) hanno in un certo tipo di teatro.

Ma esiste il mestiere di regista? Non è affatto definito cosa debba fare il regista all’interno di un gruppo. Coloro che hanno creato la figura del regista (Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Artaud, Copeau) hanno creato delle vere e proprie enclavi bellicose ed efficaci nel teatro del primo ‘900.

Queste persone assommano in sé alcune peculiarità:

– capitano di nave (organizzatore e procacciatore di denaro)

– maestro d’attore (abilità di formare nuovi attori in questo modo particolare di fare teatro)

– autori e responsabili della messa in scena dei loro spettacoli

Allora un regista è qualcuno che impersona tutte queste qualità. Con loro arrivano nella storia del teatro alcuni oggetti artistici che prima di loro non esistevano e cioè non solo la capacità di fare del lavoro teatrale su testi scritti da altri (autori), ma la capacità del regista di costruire spettacoli insieme agli attori del gruppo. Non sempre una parola definisce bene un concetto, alle volte si limita ad indicare qualcosa ma senza circoscriverlo in maniera precisa; questo è il caso della parola regista e del suo mestiere.

Esistono diverse funzioni nel teatro ed è normale che siano distinte, non è detto però che siano separabili. Nella stessa persona del regista vengono accorpate e distinte, ma non separate, diverse funzioni teatrali. Il valore del teatro, sia per chi lo studia che per chi lo fa, sta nell’estremismo.

Prendiamo ad esempio Stanislavskij che chiede ad un suo attore di fare la parte dell’ubriaco e quando questo gli mostra la sua azione Stanislavskij gli dice severo: “Lei barcolla, lei ci fa vedere che barcolla, invece il vero ubriaco cerca di non cadere. Tu non sei estremista, ma fai la recita, la parodia, non il dramma dell’ubriaco”. A volte bastano pochi centimetri per fare la differenza tra una bella recita e il vero dramma e cioè mettere in scena il bios, la vita. Cosa siamo disposti come attori a mettere in gioco per non scivolare banalmente su una buccia di banana, per non naufragare? Si è veramente estremisti quando si lotta realmente per non cadere. Cosa fanno i teatranti estremisti? Fanno quel passo in più (quei pochi centimetri) per cui la recita si rovescia in dramma. Prendono estremamente sul serio quello che fanno ma senza perdere il senso della realtà.

I nodi, i grumi negli spettacoli, impegnano la memoria emotiva degli spettatori.

Che rapporto c’è tra l’attore e tutto quello che fa? E’ un continuo conflitto sempre pieno di tensioni. Possiamo provare a pensare ad un incontro di boxe: ci sono due pugili e poi c’è un arbitro che sta attento che le regole vengano rispettate. E se durante l’incontro arriva sul ring un terzo pugile?

C’è differenza tra il teatro di regia e il ruolo (mestiere) del regista? Un gioco della fune (tra gli attori) diventa un triangolo quando arriva la figura del regista. Ciò non crea un nuovo equilibrio ma disequilibrio continuo. Il regista non è presente in scena fisicamente, ma la sua presenza si fa sentire eccome. In scena ci sono sempre il corpo dell’attore e la testa del regista. Ma è veramente giusto che le cose debbano andare così? Il teatro deve essere un corpo anomalo che ha più teste.

Un corpo (il personaggio interpretato dall’attore) con più teste (quella dell’attore, del suo regista, dei suoi compagni di gruppo) come se fosse una specie di mostro. Un elemento di disordine verso un ordine naturale, una rottura continua di equilibri.

Nel teatro e nella danza orientale il vero regista è il tempo. Pensiamo alle grandi opere architettoniche (cattedrali) del medioevo che per finirle di costruire ci volevo decine e decine di anni, e che tra il momento dell’inizio e quello della fine della costruzione passavano così tanti anni che i progettisti non erano più in vita, mentre gli esecutori diventavano coloro che plasmavano il prodotto finale.

La figura del regista possiamo assimilarla ad un acceleratore di particelle; si parte dall’atomo per arrivare allo scoppio di una bomba atomica. Un regista moderno prende sulle sue spalle il lavoro fatto dal tempo nei secoli e ci aggiunge un elemento nuovo. Che rapporto ha la storia del teatro con la pedagogia e come questa storia del teatro può interessare la regia? Nel teatro manca il rapporto concreto con il passato. Ad esempio, nella pittura, un giovane pittore può andare a vedersi i musei e ammirare i capolavori del passato; nel teatro non puoi avere un rapporto preciso neanche con lo spettacolo fatto il giorno prima se tu non l’hai visto di persona.

Gli storici del teatro hanno delle grosse responsabilità verso coloro che fanno teatro. L’unico tramite tra il passato, che è irrimediabilmente scomparso, e i teatranti di oggi, sono gli storici del teatro, che raccontano il passato ma non possono mostrarlo, possono solo farlo immaginare, intravedere, senza contare il rischio (sempre presente) della manomissione delle informazioni nel trasporto da ieri ad oggi della storia del teatro, dei suoi spettacoli, dei suoi attori e dei suoi registi. Pedagogia in teatro è una parola molto difficile perché l’apparato tecnico del passato non esiste realmente; al massimo sono arrivati sino a noi degli scritti, oppure la tecnica continua ad essere trasmessa (quando ciò accade) dai vecchi allievi ai nuovi allievi e così via. La prima cosa che insegna Mejerchol’d è di imparare a pensare, quando l’attore è in scena, in modo diverso dal normale. Si crea per la prima volta nella biomeccanica il concetto di movimento (in scena) non-quotidiano e cioè extra-quotidiano. La pedagogia si crea in un ambiente non nel lavoro del singolo gruppo o di un singolo regista, a parte rarissimi casi straordinari.

Se uno dice autore non sta a significare il padrone dell’opera, ma intende solo colui che si occupa di una parte precisa del lavoro teatrale, il testo, che alla fine confluirà (in un modo o nell’altro) nel risultato finale dello spettacolo. E’ giusto intendere cose diverse quando un attore piuttosto che un regista o un autore dicono “il mio spettacolo”? Ma quando diciamo che “Genova è la mia città” mica intendiamo davvero che Genova è nostra ma solo che è la città dove siamo nati e cresciuti. Certamente il teatro è un’arte collettiva anche se capita che molti spettacoli si ricordano solo per il nome del regista (Brook, Grotowski) e non per i suoi attori. Quando parliamo di regia dobbiamo decidere se sentiamo questa cosa come un problema oppure no. Se è un problema importante bisogna cercare di definire chiaramente il suo campo d’azione. Il vero autore di uno spettacolo è in qualche modo sempre un autore collettivo. L’esistenza della parola regia crea degli automatismi che dipendono dai modelli che fanno da punti di riferimento. Bisogna invece intendere il regista come un commutatore di energia.

Le scuole teatrali servono ad una sola cosa: ad essere abbandonate. Un ambiente teatrale è una cosa fatta da molte tensioni (positive e negative) che vivono al suo interno. Gli automatismi possono provocare catastrofi, per cui può essere utile individuarli e stanarli.

La figura del regista assomma almeno quattro funzioni: leader del gruppo, maestro di attori, realizzatore del montaggio degli spettacoli e poeta (autore del testo), senza contare la gestione degli aspetti economici, organizzativi, morali e politici.

Questa visione del regista così complessa attrae molti giovani teatranti e li ispira; però questo è un campo minato, pericolosissimo da seguire. Pensiamo all’ostinazione di Stanislavskij nell’ossessionare i suoi attori sulla cura dei dettagli. Non possiamo fare a meno degli automatismi: pensiamo a quando prendiamo una tazzina di caffè e agli automatismi che mettiamo in modo mentre facciamo questa azione… beh alla fine la tazzina di caffè la prendiamo e basta, non è che possiamo stare due anni a pensarci su, però allo stesso tempo dobbiamo fare attenzione a non far dominare la nostra vita dagli automatismi. Per cui la toeletta spirituale che auspicava Stanislavskij per i suoi attori può creare una sorta di nostalgia per la creazione di un vero e proprio romanzo ogni volta che un attore deve dire la più semplice e banale delle battute, anche se poi non è che ogni volta gli attori possono ricreare romanzi in scena (partitura e sottopartitura) ogni volta che dicono una battuta.

Ogni volta che fai un passo avanti, l’oggetto della tua ricerca si allontana… un po’.

La regia è come una farfalla che fa un salto in avanti ogni volta che cerchiamo di catturarla.

Che cosa accomuna tutti i registi teatrali? Persone così diverse tra loro… l’unica cosa in comune è una funzione direttiva sullo spettacolo. Ci sono dei principi comuni malgrado tutte le differenze?

Probabilmente no! Il problema della regia esiste soprattutto per gli aspetti negativi.

La regia è un mestiere simile al modo di operare degli artigiani? Ciascun regista è un artigiano ma non esiste un artigianato della regia. Quali sono le conseguenze di ciò? E’ un lavoro di compromesso (ricerca) tra il testo teatrale e gli attori. Questo però non vale per il teatro di gruppo.

Il regista può essere considerato come un commutare di segni (energia).

Le regole non si possono eludere, si possono solo infrangere. Come si può creare commutazione di senso e passare dal mondo delle idee a dei corpi in scena?

Gli spettatori che si innamorano del tuo teatro sono il vero capitale di chi fa teatro fuori dalle protezioni delle sovvenzioni pubbliche. Lo spettatore si può innamorare del tuo teatro quando gli pianti un chiodo nella testa e rimane conficcato per sempre nella sua memoria, e vuole assolutamente rivedere lo spettacolo perché lo considera un autentico valore di vita perché gli ha dato una “scossa” e gli è sembrato di vivere una “festa”. Una persona sperimenta la “festa” quando il tempo cambia di qualità e tu provochi una “scossa” (elettrica) nello spettatore. Dopo aver visto questo tipo di teatro lo spettatore si sente povero senza quel tipo di teatro. Non esiste spettacolo fatto male, ma veramente male, che non trovi comunque degli spettatori entusiasti di quello che hanno visto, e allora come la mettiamo!? Questo è il vero problema del teatro: la soggettività del giudizio su ciò che si vede in scena. Le cose importanti sulla regia non si insegnano, si imparano. C’è una parte della regia che non è artigianato (che si può insegnare) ma è genialità (che non si può imparare); o ce l’hai o no ce l’hai, non c’è niente da fare, le cose stanno così in un certo tipo di teatro. Quando ad uno spettacolo si toglie qualcosa (ad esempio, il testo) si deve aggiungere qualcos’altro (per esempio, la musica) per il principio dell’equilibrio, dei pesi su una bilancia; se tolgo peso dal piatto destro è necessario che ne aggiunga sul piatto sinistro. Pedagogia teatrale è allevarsi un gruppo di attori e formarli ed educarli alle proprie conoscenze, teorie, idee e tecniche. All’inizio del ‘900 un grande mutamento per gli attori si ha quando i registi si mettono ad insegnare nuove tecniche di recitazione e nuovi modi di improvvisare agli attori. Questa è un’idea rivoluzionaria, perché prima a nessuno interessava come gli attori potessero imparare a recitare.

Questo tipo di teatro ha due tempi: il tempo breve (lo spettacolo) e il tempo lungo (la preparazione dello spettacolo), ed è solo dal tempo lungo che possono nascere le cose buone, quelle veramente importanti per il teatro.

Un attore lo puoi cambiare dall’esterno, cambiando ad esempio il suo modo di camminare e di stare sulla scena; ma lo puoi anche cambiare dall’interno creando un uomo nuovo, un nuovo tipo di attore.

I grandi maestri del passato (Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau) volevano che i loro attori non imparassero a recitare, pur facendo il mestiere degli attori, e allora come si fa? Come si può insegnare a non recitare? I grandi maestri del passato sostenevano che non ci può essere un nuovo tipo di teatro senza che ci sia un nuovo tipo di attore, che ha cioè una nuova natura. Per Copeau l’insegnamento per il nuovo attore deve partire innanzitutto dal corpo. Gorge Eber era un istruttore della marina francese (anni ’10 – ’20). Lui sosteneva che la capacità che permette ad un soldato di sopravvivere in battaglia è la prontezza di riflessi al di là delle più dure forme di addestramento militare a cui è stato sottoposto prima di partire per il fronte. Eber applicava per la preparazione tecnica degli attori di Jaques-Dalcroze il principio di auto-emulazione da utilizzare quando le loro capacità si sono sviluppate fino al loro limite naturale. Il segreto sta nel trovare la difficoltà che rendeva ogni giorno l’esercizio una novità. L’attore vede ma non guarda, sente ma non ascolta. L’obiettivo intermedio prima di eseguire bene una cosa può essere di cercare di far bene le azioni ausiliari che compongono l’azione principale.

Gli attori devono imparare ad affidarsi alla memoria dei muscoli.

L’azione chiede all’attore: “non mi lasciare vuota se no io lascio il tuo corpo e ti faccio diventare automatico e ti faccio recitare”. Bisogna acquisire una forma (abito) mentale di crearsi sempre nuove difficoltà mentre si svolge il proprio lavoro anche se ciò costa in termini energetici e ci complica la vita. L’attore che ripete la propria improvvisazione rischia alla lunga di compiacersi della propria perizia tecnica e noi dobbiamo fare di tutto per guastargli questa (sua) piacevole sensazione.

Noi che pratichiamo libri, cosa vi possiamo dire di utile da portarvi a casa? Credo che sia utile illustrarvi situazioni estreme. Diceva Stanislavskij ai propri attori: “se dimentichi che stai recitando e non ti affidi alla memoria dei muscoli corri il rischio di farmi orrore”.

Voi, registi, siete pronti ad essere estremisti, o no?

Conoscere le pratiche serve ad escogitare nuove pratiche, qui sta il vero esercizio mentale. Perché la parola regista ci sembra una parola nuova? Il regista è uno che fa buchi nell’acqua perché butta una  grossa pietra (la tradizione) nell’acqua e il rumore che si sente è: “gluck”. Anche un piccolo sassolino gettato in acqua crea delle onde che si propagano lontano anche se no fa rumore (gluck). Con chi si deve confrontare un regista? La regia non è un lavoro che esiste in natura come il muratore o il falegname; perché da sempre l’uomo ha bisogno di case. La regia è un’invenzione e non si può imparare o insegnare come si inventa. Si inventa (se si è capaci) e basta. La regia è un problema di organizzazione del tempo? Ma esiste un punto da dove cominciare a fare il regista? Esiste un problema di apprendere ad apprendere, ma cos’ si può andare avanti all’infinito, invece ad un certo punto bisogna passare all’azione. Quando si semina e quando si raccoglie in teatro? Non c’è un tempo preciso perché la regia teatrale non è un lavoro “naturale”. Esiste un “homo ludens” ma questo è un gioco dannatamente serio. L’aspetto del gioco è fondamentale. Certe volte bisogna saper essere farfalle leggerissime ma non per questo non si prendono le cose sul serio.

Non si può insegnare la regia si può solo provare ad apprendere. Il teatro è per eccellenza una creazione collettiva; la risultante del lavoro di molte componenti del gruppo.

Portare all’interno del gruppo un grado di formalizzazione estetica ed artistica che arriva dall’esterno, se viene metabolizzato dal gruppo finirà con il farlo arricchire e farlo ripartire da nuovi punti (mattoni) di partenza (riferimento) e spingere gli attori verso nuovi orizzonti e così via, in un processo che non ha (o no dovrebbe aver) fine. L’ultima parola nello svolgimento, nel montaggio, e nel risultato finale dello spettacolo spetta sempre, però, al regista. Il muoversi per deviazioni fa parte della struttura profonda del teatro di regia. Il tipo di logica nel teatro è sempre bipolare: attore-personaggio, attori-pubblico, attori-testo, azioni fisiche-parole del testo, e naturalmente attori-regista. Sono tutti rapporti molto forti che creano tensioni. Quando si crea la figura del regista (primi anni del ‘900) il rapporto diventa multipolare: attore-personaggio-autore-regista.

La regia crea scompiglio ma serve anche a rompere le logiche precostituite e gli automatismi.

Nel fare teatro c’è sempre (anche se in modi diversi nei vari gruppi) una componente di creazione collettiva. Pratica della creazione collettiva è anche la vita in comune del gruppo.

C’è una bella differenza tra i libri che si leggono e i libri che si rileggono. Il caso più tipico sono i libri di poesia; perché accade questo? Perché le parole di una poesia ti ronzano nella testa? Certo per la loro bellezza, ma ci deve essere dell’altro… sono parole precise, necessarie, che però noi non riusciamo a capire, non ne acchiappiamo il senso, ma sappiamo che dobbiamo tornarci su a leggercele più e più volte. E’ bello trovare nei libri domande che non trovano risposte, dei veri chiodi che si piantano nelle nostre teste. La ri-lettura di un libro non è come la lettura di un libro; è piuttosto un lavorio continuo, un tarlo che ti rode in testa, che non ti lascia mai solo e ti dà l’urgenza di una domanda che ti accompagna sempre. Quando parliamo di tecniche, parliamo di due poli contrapposti:

la tecnica personale e la tecnica condivisa; è questa contrapposizione che crea la giusta tensione.

Se uno vuol fare il regista qualcosa deve pur imparare. Il regista è un uomo d’azione: Esiste una tecnica dell’uomo d’azione? No. Però esistono gli uomini d’azione. Che cosa definisce un uomo d’azione?

E’ una persona (uomo, donna) che reagisce in maniera appropriata, che si orienta nelle circostanze e nelle situazioni in cui vive e che lo assediano. Le circostanze precise, o lo stato d’assedio, è, ad esempio, lo spettacolo: lo spettacolo (primo o poi) si deve fare e il regista deve (assolutamente) vincere la sfida con lo spettacolo. A tutti gli aspetti del lavoro di una creazione dello spettacolo partecipano tutti i componenti del gruppo, tutti possono discuterne e in questo senso possiamo anche parlare di regia collettiva. Ma anche in questo caso emergono le singole competenze e i diversi meriti e anche in questo caso si conferma l’importanza della presenza di un leader. Se in uno spettacolo riesco a distinguere tra ciò che fa l’attore e ciò che avrebbe fatto o voluto il regista, allora vuol dire che lo spettacolo non funziona. Le appartenenze spesso fanno male ai gruppi perché mettono i veli davanti agli occhi. L’importanze di due parole: scossa e festa (come tempo che ti esplode dentro). Qualunque cosa uno si inventi scopre che è già stata fatta ma, d’altro canto, non esiste una circostanza uguale all’altra.

Per tutti noi c’è un teatro che sentiamo come la nostra patria.

Eugenio Barba   

(dimostrazione di lavoro con gli attori)

Il sats è un impulso; è ciò che decide ciò che avverrà dopo, si deve essere pronti a fare un’azione prima di farla. Devi saper fare un’azione e poi suddividerla (scomporla) nelle sue varie fasi e individuare i sats (gli impulsi) che danno vita all’azione.

Scelgo un certo numero di attori con cui lavorare (durante la sessione ne scelse quattro, ndr) e poi spiego loro in maniera abbastanza precisa una situazione (scena).

“Vi siete appena comprati delle scarpe nuove e dovete attraversare una strada piena di pozzanghere, lunga cinque metri, e non volete sporcarvi le scarpe appena comprate. A un certo punto, mentre attraversate questa strada piena di pozzanghere, vi fermate perché avete visto qualcosa che luccica, prendete questo oggetto (che noi all’esterno non sappiamo cos’è) e reagite (nel modo che ogni attore sceglie). Infine fate ancora l’ultimo metro di strada che vi separa dal marciapiede pulito e vi mettete sotto una tettoia per ripararvi dalla pioggia.”

Si dà agli attori una mezz’ora di tempo per ripetere più volte l’azione e fissarla. Poi faccio sedere gli attori e gli faccio ripassare l’improvvisazione nella loro testa chiedendo loro di contare di quante fasi si compone, loro dicono il numero e poi proviamo a vedere se questo numero da loro dichiarato coincide effettivamente con l’azione eseguita. Questa tecnica è stata messa a punto da Stanislavskij.

E’ possibile trasmettere delle tecniche agli attori ma fondamentale importanza riveste la “temperatura” con cui loro lavorano.

Il riduttivismo consiste nel trasformare in azioni pratiche l’energia mentale di un regista.

Dopo aver fatto un’azione in scena (anche complessa) suddividerla mentalmente (scomporla) nelle sue diverse fasi e contarle e poi provare a verificare in scena se il numero dichiarato dagli attori è giusto.

Provare a rifare l’azione non secondo il proprio orologio interiore ma secondo ritmi e tempi diversi (10, 20, 30 secondi, un minuto, ecc…) per i quattro attori. L’attore deve adattare la propria improvvisazione ai nuovi compiti che il regista gli ha dato. La prima improvvisazione, di solito, crea dal nulla una precisa sequenza di azioni. Nella seconda improvvisazione c’è un altro partner, il regista, con cui bisogna dialogare per effettuare le variazioni che il regista ha suggerito. Poi si può introdurre il lavoro con la musica che può essere di natura diversa. Questa tecnica, permette all’attore e al regista di intendersi con esattezza; sostituisce alle motivazioni interiori il numero esatto delle fasi.

Il secondo fattore molto importante e che l’improvvisazione una volta fissata nelle sue varie fasi può essere messa in relazione ad agenti esterni (musiche, oggetti, parole, indicazioni di regia, interazioni con altri attori). Dopo che gli attori hanno lavorato un po’ da soli proviamo a metterli in relazione tra loro. Ad esempio: due su un lato e gli altri due sul lato opposto (della strada) e mentre attraversano i cinque metri di strada con le pozzanghere stiamo a vedere cosa succede (prima lavora in scena una sola coppia poi tutte e due).

L’attore reagisce in scena con le sue motivazioni personali tutto il tempo che sta in scena.

Occorre creare un fraseggio tra i due attori, un botta e risposta, una reazione dettata dalla qualità del movimento con cui un attore si avvicina ad un altro; reazioni istintive, animalesche, non razionali (almeno in questa fase del lavoro). Mi piace far giocare gli attori al “gioco delle ombre” dove, mentre un attore fa la sua improvvisazione, l’altro diventa la sua ombra; l’ombra può variare di grandezza, spostarsi di lato, ma resta sempre in relazione con l’attore che segue; è logico che se l’attore si ferma, si ferma anche la sua ombra. L’attore “ombra” deve cercare di mantenere le sue azioni, non deve imitare l’attore che lo precede e fare le sue azioni. L’ombra è silenziosa, non fa alcun rumore, deve però usare il ritmo dell’attore che lo precede. Poi gli attori devono provare a fare la loro improvvisazione singola al contrario. Il contrario può significare dall’ultima azione alla prima, oppure fare tutte le azioni di prima nella stessa sequenza ma con gesti opposti, o altro ancora, decide l’attore cosa fare.

L’improvvisazione deve creare l’anatomia di un corpo.

Attraverso i movimenti precisi e la capacità di ricostruire si possono fare continue variazioni che mantengono viva la presenza scenica dell’attore.

Poi gli attori possono cominciare a lavorare intrecciando le due improvvisazioni (diritta e suo rovescio) come meglio preferiscono e provare a metterle in relazioni con gli agenti esterni, mentre l’attore elabora tutti questi materiali, il regista, a sua volta, crea le sue variazioni indicando nuovi compiti agli attori.

Poi gli attori si muovono in circolo e non su linee verticali e devono far seguire una precisa reazione all’azione del proprio compagno (si lavora in coppia). Non si deve “recitare” qualcosa, ma essere concentrati, pronti a far scattare una reazione quando parte l’azione del proprio partner, poi si possono mandare in scena anche gli altri due attori che useranno degli oggetti (anche di grandi dimensioni) e si sta a vedere cosa succede (si può utilizzare anche la musica) e infine il regista dà indicazioni agli attori in base a cosa sta accadendo in scena, i compiti dati dal regista vanno eseguiti immediatamente dagli attori senza fare domande e senza stare a pensarci su in modo che si creino ulteriori variazioni (elementi di disordine) in scena provocate da un agente esterno (il regista). E’ profonda la mia convinzione che non si può giungere subito al risultato finale, ma che si deve partire da qualcosa di molto semplice, come un’ameba che ha però la forte volontà e capacità di rimanere in vita. Come se gli attori fossero dei gattini appena nati, ciechi, che sentono pochissimo, ma già reagiscono, in qualche modo, agli stimoli esterni. In questo modo gli attori cominciano a preparare i primi materiali del loro lavoro.

Gli attori devono poi provare a ridurre le loro improvvisazioni in fasi sempre più piccole fino ad arrivare ai “sats” (gli impulsi), riconoscerli e reagire creando nuove variazioni, esterne al movimento fino ad ora fissato, ma che preservino i “sats” originali e ciò che fa reagire l’emotività dello spettatore.

Compito del regista è di sovvertire l’ordine interno dell’attore, creargli delle difficoltà che lo costringono ad un lavoro faticoso sia da un punto di vista fisico che psichico. Il regista deve dare in continuazione compiti che disorganizzino le certezze dell’attore e da questo nuovo disordine ricominciare ad organizzare nuovi materiali per la scena.

Il regista deve saper dominare la sua impazienza nell’aspettarsi subito dei buoni risultati dagli attori e dal suo lavoro di montaggio. Una delle abilità che deve avere l’attore è quella di non far prevedere le sue azioni al pubblico prima di compierle e cioè negare l’azione un attimo prima di compierla. Spesso questo modo di lavorare è frustante perché ci appare arido continuare a creare, ripetere, fissare, distruggere, reagire ai “sats” dei propri compagni, senza mai avere la sensazione che il lavoro proceda verso una meta precisa; in realtà stiamo mettendo da parte preziosi mattoni che ci serviranno poi per costruire la casa. Certamente, una volta che si sono costruiti materiali in modo così tecnico e freddo, bisogna essere capaci di elevargli la temperatura. Si può partire da un tema qualunque per poi approdare a materiali scenici per il montaggio dello spettacolo. Non sempre è utile definire il contesto preciso di una parte dello spettacolo prima delle improvvisazioni iniziali degli attori. Per me è importante non dire all’attore l’obiettivo preciso da raggiungere, anche perché il più delle volte non lo so neanche io. Lo spettacolo può nascere dai sogni del regista e degli attori, ma non basta, sarebbe ancora troppo superficiale, serve qualcos’altro.

E’ fondamentale invece trovarsi in uno stato di “sats” (impulsi) che poi risuoni in uno stato di forma (spirito) che dà sostanza alla scena.

Uno dei doveri del regista è di non soddisfare sempre i desideri dell’attore ma anzi di contrastarlo e metterlo continuamente alla prova. Fargli creare sottopartiture che inizialmente il regista non deve commentare di fronte a loro. Per creare materiali scenici si può partire da un tema ma anche da un testo che non centra con cosa poi si metterà in scena.

Tecnica del sogno ad occhi aperti: io do agli attori delle indicazioni fisiche precise (in sala può esserci anche un solo attore per volta) a cui loro, sdraiati a terra, cercano di reagire (improvvisazioni calde).

Tecnica della composizione: L’attore deve comporre, creare l’equivalente fisico dell’informazione contenuta nel testo, parlare cioè tramite “segni fisici”. Mi piace molto lavorare su testi poetici perché la poesia non è prolissa ma ha invece una grande densità (ambiguità) di significati. La mia preparazione consiste nel prepararmi ad essere disarmato. Capita, alle volte, che elementi casuali decidano per me, in realtà ciò che poi accade non è così casuale ma è frutto di un lavoro preparato a lungo. Scelgo un testo poetico perché è saturo di situazioni fisiche. Il bello delle poesie è che non si capisce sempre tutto ma ci sono enigmi contenuti dentro che non si riescono a comprendere e bisogna con gli attori provare a dare una spiegazione, che può essere diversa per ciascuno di loro.

Ora leggerò ai quattro attori la poesia che ho scelto, dopodiché chiederò loro di costruire un segno preciso (improvvisazione) sulle parole, i verbi e le immagini che la poesia gli suggerisce. Il punto di partenza del lavoro si può anche perdere per strada ma l’impulso elettrico iniziale resterà a lungo dentro l’attore. Le associazioni mentali degli attori possono essere molto libere e anche poco logiche, però devono essere concrete affinché si prestino bene a creare azioni fisiche. Gli attori devono subito imparare il testo a memoria. In questa fase iniziale non mi va che gli attori usino la voce perché preferisco che prima lavorino sulla partitura fisica e poi su quella vocale in maniera separata, e infine chiedo loro di provare ad unirle. Il testo non va illustrato e cioè ripetere in maniera didascalica ciò che il poeta ha già detto, gli attori dell’Odin sanno che se fanno questo commettono peccato mortale. L’attore deve invece estendere con l’azione fisica ciò che il poeta con le sole parole non può dire. I gesti degli attori non devono essere arbitrari, liberi sì, ma non arbitrari.

I gesti degli attori mi devono innanzitutto convincere e inoltre mostrarmi “segni espliciti” che io posso collegare al testo.

L’attore deve avere fede, grande fiducia, nel regista e in ciò che lui vede, accetta o rifiuta. L’attore non deve mollare, deve tener duro anche se a volte deve abbandonare delle sue profonde convinzioni, sopportare i tagli che il regista gli impone. Il regista è consapevole di quanto l’attore patisca questo processo ma non può evitare di fare questo lavoro. Gli attori devono imparare a sputar sangue insieme al loro regista. Ma un attore di tal fatta non lo si compra al mercato degli schiavi; va educato e formato negli anni attraverso il comportamento del regista nei confronti dell’attore. Il regista deve sputar sangue almeno quanto i suoi attori; è però moralmente auspicabile che ne sputi di più. Attraverso l’esempio morale e il suo comportamento, il regista deve conquistarsi la fiducia dei suoi attori sul campo, giorno dopo giorno, negli anni.

Bisogna sempre tenere a mente che le improvvisazioni degli attori non sono sacrosante, devono invece avere una qualche relazione con il testo o con il compito dato dal regista.

Non sono però importanti solo i gesti degli attori e i loro segni e significati, ma anche la qualità artistica dei loro gesti. Il regista è importante perché alla fin fine deve rimanere l’unico o meglio l’ultimo punto di riferimento per gli attori, indipendentemente da qualunque altro tipo di supporto possa giungere dagli altri membri del gruppo.

Il regista è il primo ed unico spettatore dello spettacolo mentre lo spettacolo viene montato.

Una volta che l’attore domina l’esercizio e cioè dopo averlo ripetuto innumerevoli volte, può cominciare ad improvvisare. Nel tempo deve cambiare il modo di fare training di un gruppo di attori, altrimenti si corre il rischio che attori e registi si annoino a fare e vedere sempre gli stessi esercizi, bisogna allora che il regista inventi dei nuovi compiti. Mi piace vedere gli attori che fanno training quando ci trovo dell’intelligenza fisica. Le cose sono belle da vedere quando ti affascinano e vanno al di là dell’esperienza quotidiana. Spesso la capacità, la bravura di fare gli esercizi, non corrisponde al risultato che l’attore ha poi in scena. Come fanno gli attori a costruire dei “segni” in scena?

La regia è un’invenzione che ognuno di noi applica in modi diversi nel suo metodo di lavoro.

Ora chiederò agli attori di mostrare i segni delle loro improvvisazioni che fanno riferimento al testo. Una volta che gli attori hanno mostrato i “segni” che fanno riferimento al testo glieli faccio ripetere alcune volte e poi provo a cambiarglieli, scomporre, riprovare, fissare e di nuovo distruggere. Infine gli chiedo di dire il testo insieme all’azione ricostruita, dopo averla prima destrutturata. Cercare il ritmo giusto che dà tono, vigore, alla coppia azione fisica-testo. Poi l’attore può provare a sostituire al testo parole sue in certe parti dell’improvvisazione, parole che gli nascono come associazioni mentali mentre lavora con il corpo. Quando l’azione funziona, ci mettiamo sopra le parole esatte del testo. Se l’attore ripete in maniera identica l’azione fisica io mi rendo conto che lui ha le idee chiare sul movimento da fare in base al testo (visione ideoplastica), altrimenti se ogni volta cambia i gesti mi mostra la sua incertezza e confusione. I “segni” per me devono sempre avere una doppia indicazione.

Nel testo mi va d inserire dei brani cantati (usando parole del testo) prendendo spunto da canti, melodie popolari, filastrocche, ninne nanne ed anche dello humour nero. Tutti gli attori dell’Odin dovevano avere durante le prove, un quaderno dove si scrivevano tutto il lavoro svolto durante le prove. Lo spettatore deve potersi orientare nello spettacolo. Si può anche lavorare sull’attore senza preoccuparsi del significato, ma lavorando sul senso del ritmo dell’intera improvvisazione eseguita.

I quattro attori tornano a fare l’improvvisazione della strada da attraversare e mettono su questa improvvisazione i versi del brano di poesia studiata a memoria. La segmentazione è il modo di legare l’azione. Creata un’azione si fa avanti e indietro fino a dominarla completamente. Poi io gli creo delle variazioni, delle difficoltà, alle loro improvvisazioni: ad esempio ad un attore do uno strumento da suonare, ad un altro gli faccio trasportare a spalla una persona e così via. Infine si prova a montare tutto il materiale elaborato. Il regista deve avere la capacità di sognare ad occhi aperti e di osservare con molta attenzione e cura amorosa tutti i dettagli portati in scena dagli attori.

Quando metto in scena qualcosa, il tema o il testo diventano come dei vampiri che tutto il tempo succhiano le mie energie e non mi fanno pensare ad altro.

Per dare radici a qualcuno basta fargli fare un’azione reale e quando faticherà veramente e suderà, allora in quel momento, farà bene la sua azione (ad esempio portarsi qualcuno a spalla).

Uno degli obiettivi fondamentali durante il training è di mantenere per periodi sempre più lunghi una grande qualità (livello) di energia.

Quando si lavora ad uno spettacolo ci sono lunghi momenti in cui il regista può restare seduto ed osservare il lavoro dei suoi attori, ma poi arriva sempre il momento in cui il regista deve cominciare a prendere decisioni. Un problema del regista in questa fase è che l’entropia degli attori sta cominciando a diminuire e quindi il regista deve intervenire per variare, destrutturate e ricostruire.

Il montaggio del materiale elaborato dagli attori diventa il momento principe per eliminare dallo spettacolo le ovvietà e i cliches.

Esiste una relazione tra il training e il processo creativo? L’attore che lavora solo con la sua presenza scenica non lavora sulle azioni fisiche ma sul suo egocentrismo. Non si può “credere” alle azioni fisiche che non sono “incorporate” al 100 % al corpo-mente dell’attore.

Lavoro di montaggio di materiale scenico  
(diretto da Julia Varley)

Regia come conduzione di elettricità, qualcosa che passa, che si trasmette, da un elemento all’altro. Esistono i gruppi di teatro e il teatro di gruppo e sono due cose molto diverse tra loro.

Il teatro di gruppo diventa un genere, un estremismo, che esige altri mezzi e punti di riferimento professionali. All’interno del teatro di gruppo la regia ha una funzione molto utile. Lo spettatore è uno degli elementi fondamentali per creare lo spettacolo, diventa autore dello spettacolo.

Potrei definire il regista così:

a) la regia come conduzione elettrica che non si può legare ad una persona, ma che diventa un

     lavoro di gruppo

b) regista come occhio esterno molto utile che vede e informa coloro che lavorano allo

     spettacolo sul risultato dei materiali che stanno via via elaborando

Nel teatro di gruppo sono anche gli attori che diventano registi perché partecipano attivamente al lavoro di creazione. Perché un regista è un regista? Cosa lo definisce e caratterizza con esattezza?

Un regista sa spingere l’attore verso l’estremismo, questo è il suo potere, la sua qualità, se sa esercitarla.

Un regista deve anche essere capace di delegare le sue funzioni (organizzative, economiche, tecniche) fino a delegare il suo sogno, le sue visioni agli attori. Non è giusto focalizzare la figura del regista intorno a pochi punti. Nel passato registi ed attori interpretavano opere di autori; ora registi ed attori creano un teatro di gruppo che non interpreta la visione di un singolo autore ma che diventa la creazione collettiva di un gruppo, come una grande opera di artigianato collettiva in cui ognuno di noi può metterci il suo pezzettino.

La problematica più grande della regia è la distanza enorme che separa le intenzioni del regista da ciò che poi avviene realmente in scena.

Occorre quindi sempre lavorare tenendo presente una doppia visione:

l’intenzione e la sua (effettiva) realizzazione.

Da dove si inizia? Si ha l’idea e a quel punto si sente il bisogno di avere una casa dove abitare e lavorare teatralmente. La casa si costruisce usando tanti mattoni, si comincia dal primo mattoni e via così, ogni mattone ha il suo significato. Ogni partecipante dei vari gruppi deve recuperare un mattone e portarlo al proprio luogo di lavoro. Quando si sceglie un inizio occorre restarci lì un po’ di tempo e cercare di rimanere fedeli e coerenti al punto di partenza che ci siamo scelti.

E’ importante cercare di capire dagli errori degli altri per mettere a posto i nostri difetti.

L’essenza del regista è di imparare ad osservare, a vedere, immaginare, comprendere cosa sta accadendo in scena mentre i suoi attori lavorano.

Un aspetto fondamentale per il regista è di saper lavorare con le circostanze che si creano.

Dobbiamo essere capaci durante la fase di montaggio del materiale elaborato dagli attori di passare dallo logica del processo alla logica dello spettacolo. Non bisogna lavorare sul significato ma il significato è il risultato del lavoro e quindi durante il processo di elaborazione e montaggio dei materiali non bisogna lavorare (solo) per il risultato e non bisogna giudicare il risultato che viene fuori man mano durante il processo. E’ importante avere la capacità di lavorare sui singoli frammenti con il talento di un montaggio musicale e basato sul ritmo.

Se l’attore, quando riceve un compito, cerca di realizzarlo subito in maniera diretta è molto probabile che non riesca nel suo intento. Come quando vuoi colpire un bersaglio in movimento e sai che non devi mirare direttamente al bersaglio ma un po’ più in là. Non bisogna illudersi che si possa arrivare al risultato puntando subito al risultato; alle volte è utile invece allontanarsi, andare in direzione opposta e poi cercare di tornare (in un secondo tempo) a puntare al risultato.

Formiamo una serie di gruppi costituiti da un regista, da un assistente alla regia e da alcuni attori. Ciascuno, senza distinzione di ruoli, deve scrivere nel suo personale quaderno di appunti il proprio tema a cui ispirarsi durante tutte le fasi successive del lavoro; il tema deve rimanere segreto e dovrà rimanere sempre un punto di partenza, una fonte di ispirazione, e un rifugio sicuro a cui fare ritorno nei momenti di crisi. Ogni partecipante scrive il suo tema e poi lo scambia all’interno del suo gruppo di omologhi (registi fra loro, attori fra loro ed assistenti fra loro). Il proprio tema rimarrà sempre il punto personale di riferimento del proprio lavoro, mentre il tema ricevuto diventerà il lavoro da svolgere. Nessuno dei due temi andrà mai abbandonato durante le successive fasi di lavoro. Quando si fanno gli esercizi del training si cerca sempre un preciso risultato fisico e si va determinati in quella direzione, dobbiamo provare a fare la stessa cosa quando si lavora alla preparazione di una scena. Tutto il lavoro di training è di aprirsi alla scoperta della propria intelligenza corporale.

Esercizi di training

Camminata

Ognuno crea la sua camminata particolare e quando è ben fissata crea un’azione e si inventa un modo di portare in giro un’altra persona. Si possono scambiare gesti e persone durante l’esercizio. Può anche accadere che due persone portino in giro una terza persona; l’importante di questo esercizio è l’energia del momento del distacco. Dopo un aver fatto un po’ di questo lavoro, scegliamo una camminata e un modo di portare e proviamo a metterle in relazione con un testo.

Plasticità degli occhi

Restando seduti o sdraiati o in piedi ma comunque fermi, si lavora solo con gli occhi, guardando attorno in tutte le direzioni e osservando e fissando bene cosa sta intorno a noi. Senza muovere la testa guardare a destra, a sinistra, in su e in giù, senza mai effettuare salti ma eseguendo passaggi dolci. Si può lavorare in neutro o utilizzando espressioni facciali. Dopo un aver fatto un po’ di questo lavoro con gli occhi, scegliamo un paio di posizioni e proviamo a metterle in relazione con un testo.

Regole generative di azioni

Creare azioni ed interazioni lavorando a terra e rotolandosi, oppure strisciando o saltando. Dopo che gli attori hanno creato e fissato azioni e movimenti devono provare a metterli in relazione reciproca improvvisando (prima) e fissando (dopo). Poi, a turno, gli attori scelgono una loro azione e la insegnano agli altri. Questo lavoro si può fare prima tutti insieme e poi all’interno di ogni singolo sottogruppo che è stato creato per il lavoro successivo di elaborazione e montaggio di scene. Dopo un aver fatto un po’ di questo lavoro, scegliamo un’azione e proviamo a metterla in relazione con un testo.

Uso del testo

Ogni attore deve scrivere un proprio testo che utilizzi sia il proprio tema personale che quello che ha ricevuto. L’attore deve imparare a vedere le proprie azioni attraverso il testo che utilizza. Poi l’attore sceglie un titolo per il proprio testo e per il lavoro che esegue. Il titolo è la prima pietra della casa che vola oltre l’orizzonte. Gli attori improvvisano con un mattone ed un oggetto che lo nasconda lavorando sul titolo che si sono scelti e sul testo che si sono scritti. Nel lavoro con la voce si uniscono due poli: l’intimità della voce, il suo suono personale, e il significato, il valore delle parole. Ciò crea insicurezza sia agli attori che ai registi e si corre il rischio di un lavoro pedagogico. Più si va in profondità, più è facile che escano significati. Spesso il testo non resta associato alla musicalità del corpo e non perché sia in opposizione ma perché non ha niente a che fare con esso; i due elementi (musicalità del corpo e della voce) non sempre riescono a dialogare tra loro.

Fase di montaggio

Dopo che hanno lavorato singolarmente per un po’, il regista di ogni sottogruppo inizia a montare il materiale elaborato dai propri attori. In questa fase finale del lavoro gli attori devono sapere che hanno una sola chance; c’è solo quell’attimo e lì devono dare tutto quello che hanno dentro. I registi devono fare i conti con il rigore e sapere che non ci sono scuse per ciò che si presenta allo spettatore e che quindi dovranno cercare la massima qualità possibile nel tempo che hanno a disposizione. I registi devono saper presentare l’essenziale di tutto il lavoro elaborato ed eliminare ogni parte superflua. Il rigore per i registi è la ricerca delle cose essenziali e la forza di non cercare e trovare scuse per il lavoro che hanno svolto.

Presentazione della performances

Presentare infine una performances costituita da tre scene (unite) di cui ciascuna duri circa un minuto. Il regista dirà il titolo della performances e spiegherà come ha lavorato con il suo gruppo. Dopo che tutte le performances sono state presentate ogni regista dirà tre suoi consigli per gli attori e dirà quale, a suo parere, è stato l’indizio più importante del lavoro che ha visto fare dagli altri gruppi e risponderà infine a queste quattro domande:

a) Cosa cercavate nel vostro lavoro, cosa avete detto e cosa avete ricevuto dagli attori?

b) Qual è stata la vostra relazione con il tempo: il tempo era un amico o un nemico in queste

     condizioni?

c) Qual è stato il metodo che avete seguito nell’impostare la vostra relazione con gli attori?

d) Qual è il risultato che vorreste rubare agli altri gruppi e quale invece il vostro errore che non vorreste

     più ripetere?

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“Bisogna ammettere nell’attore l’esistenza di una sorta di muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti” (A. Artaud; Il teatro e il suo doppio, pag 242).

 

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