GROTOWSKI: Per un Teatro Povero (prima parte)

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GROTOWSKI: Per un Teatro Povero

(prima parte )

Leggi la seconda parte del saggio

GROTOWSKI Jerzy: per un teatro poveroRECENSIONI, RIFLESSIONI SULLA SCRITTURA di Giovanni Lancellotti 

Per un teatro povero di Jerzy Grotowski, Bulzoni Editore 1970.
Titolo originale Towards a poor theatre, Jerzy Grotowski and Odin Theatrets Forlag, 1968.

Nel 1968 esce una raccolta di saggi intitolata “Per un teatro Povero” (Bulzoni Editore 1970). Una sorta di manifesto delle tecniche teatrali ideate da Jerzy Grotowski (1933-1998), che hanno rivoluzionato il teatro. Grotowski, insieme al suo allievo Eugenio Barba, direttore e fondatore dell’Odin Teatret, è considerato uno dei padri del teatro contemporaneo.

Scrive Peter Brook nella sua prefazione al libro:

“Grotowski è straordinario.

Perché ?

Per quanto io ne sappia, nessun altro al mondo, dopo Stanislavskij, ha condotto una ricerca così approfondita e completa sulle caratteristiche, la fenomenologia e il significato della recitazione, sulla natura e la scienza dei processi mentali, fisici ed emotivi ad essa connessi”

Il saggio che proponiamo (in due parti) ci fa riflettere su questo testo affascinante e di straordinario interesse che, pagina dopo pagina , ci trasporta per l’intensità, l’onestà e la precisione della sua opera…(Brook)

Ringraziamo il Dott. Giovanni Lancellotti per il permesso alla pubblicazione. Psicologo psicoterapeuta giovannilance@alice.it SCRIPT Centro Psicologia Umanistica Pisa

Buona Lettura


VIDEO PRESENTAZIONE  https://youtu.be/9XRQysp0EGo



GROTOWSKI: Per un Teatro Povero

(prima parte )

Leggi la seconda parte del saggio

Grotowski: per un teatro poveroRECENSIONI, RIFLESSIONI SULLA SCRITTURA di Giovanni Lancellotti

Il primo “modulo” del libro (la definizione modulo è impropria, ma ben si addice ad un’opera che è un’antologia di scritti raccolti in diversi tempi e nelle occasioni più disparate, senza alcuna pretesa di organicità) ci porta immediatamente in medias res…la tecnica è vista come “ via negativa” per la rimozione dei blocchi psichici.”…L’atteggiamento mentale necessario è una disponibilità passiva ad attuare una partitura attiva, non un atteggiamento per cui una persona vuole fare una determinata cosa, ma per cui fa a meno di non farla” (pag.23).

Fin da queste prime righe si nota come segno distintivo dell’impostazione grotowskiana che la formazione dell’attore tragga la sua fonte da forze inconsce che emergono e sono governate, appunto, dalla “tecnica dell’attore”.

Di fatto Grotowski è ben lontano da far leva sulla così detta spontaneità, al contrario c’è una grande attenzione alla costruzione del gesto da parte dell’attore, come se il materiale spirituale che uscirà dovesse trovare un luogo di collocazione, vale a dire la preparazione formale dell’attore stesso: “… Noi crediamo che un processo personale che non sia assistito ed espresso attraverso una disciplina formale e una strutturazione controllata della parte non avrà alcun potere liberatorio e decadrà nel caos” (pag.23).

Le forme del comportamento convenzionale non sono rivelatrici di interiorità, ma fanno da maschera, da impedimento di visione alla verità spirituale e profonda di ogni individuo.

Paradossalmente, il massimo di finzione (la forma) è l’aspetto che più avvicina all’espressione della reale interiorità. La forma artificiale svela che cosa c’è dietro la maschera della convenzionalità: “Per noi un segno e non un gesto banale, costituisce l’essenza di un’espressione integrale” (pag. 24).L’espressione è quindi cercata attraverso un’opera “michelangiolesca” di sfrondamento (“distillazione” dei segni) e ricerca della “contraddizione” (tra gesto e voce, voce e parola, parola e pensiero, volontà e azione …).

Questo processo è, in sostanza, di natura empirica e personale (da parte del regista),in successiva al processo di formazione è lo spettacolo che porta alla consapevolezza della dinamica di creazione, ma non è esso stesso frutto della consapevolezza.

Due idee sono fondamentali nella costruzione del teatro grotowskiano: il teatro povero e “la rappresentazione come atto di trasgressione”.

Il teatro povero è quello libero da tutti gli orpelli del teatro ricco (cioè sostanzialmente il teatro borghese), eccetto gli aspetti del corpo dell’attore e del rapporto col pubblico.

Eliminata la separazione attori-pubblico, eliminato il palco, il rapporto con gli spettatori può assumere di volta in volta diversi aspetti, ma non è comunque mai prederminato.

E’ il corpo dell’attore che genera tutto ciò che è necessario al teatro, musica compresa, invenzione di oggetti, uso di vestiti direttamente cambiati in scena.

In uno sforzo di riflessione che precede addirittura le formulazioni riguardanti il teatro, Grotowski si chiede perché ci occupiamo d’arte e ne dà la seguente risposta:”…Per abbattere le nostre frontiere, trascendere i nostri limiti, riempire il nostro vuoto, realizzare noi stessi…un processo mediante il quale quello che è nelle tenebre in noi lentamente diventa luce…nello sforzo di liberarci dalla maschera…questa dissacrazione dei tabù, questa trasgressione causa lo shock che lacera la maschera, permettendoci di offrire il nostro essere nudo a qualcosa di indefinibile ma che contiene Eros e Charitas” (pag. 28).

In questo processo di conoscenza quasi immediato è l’incontro col mito, col mezzo di conoscenza più antico e che attinge le sue forme dalle dinamiche dell’inconscio (vedi Jung).

Grotowski si rende pienamente conto che il rapporto che aveva l’uomo antico col mito è morto e sepolto e non può essere riesumato nella società razionalistica attuale, ma è anche consapevole che non può mancare un confronto dell’uomo moderno con i miti e con le loro rappresentazioni simboliche, pena l’impoverimento spirituale e l’assunzione di una maschera perenne di inganno nei confronti della realtà fenomenica e anche della realtà “penetrata” nel corpo (per il corpo come archivio della storia dell’individuo e della società a cui appartiene vedi Reich).

Mentre l’uomo antico assumeva il mito nell’ambito di dinamiche percettivo-elaborative (cioè l’animazione della natura era un fatto e non soltanto una rappresentazione), l’uomo moderno può soltanto avvicinarsi ad un conoscere simile che è determinato da un’ascesi, fissata nel lavoro dell’attore, che consiste in un continuo dissacrare-sacralizzare il suo modo di percepire la realtà (teatrale) e rappresentarla sulla scena.

In questo, anche se Grotowski non lo ha mai affermato, sta la valenza terapeutica del teatro di ricerca (abbattere le barriere difensive, cioè la maschera, e allargare l’influenza libera del Sé).

Nell’intervista “Il NuovoTestamento del teatro”, raccolta e così intitolata da Barba (1964), Grotowski dà una prima definizione di teatro laboratorio, agendo inizialmente in negativo, cioè smontando le tradizionali idee di teatro che possono trovare giustificazione nella mente di uno spettatore comune, di uno scenografo, di un regista, di un critico letterario passato alla regia e di altre figure che ruotano intorno agli eventi teatrali.

La domanda centrale ha come risposta ciò che il teatro non è, eliminando tutti quegli aspetti (musica, scenografia, luci, testo) che sono stati caratteristiche acquisite storicamente dell’evento teatrale.

In un’operazione di sottrazione dal “marmo” teatrale, rimane l’attore come elemento univoco, necessario ed estremamente sufficiente per la scena.

Scena che, nata da un laboratorio, ha più a che fare con la bottega di un artigiano “che cerca il punto preciso della scarpa per piantare un chiodo” (pag. 35) che con una ricerca puramente intellettuale e di coscienza falsamente politica. Continuando ad analizzare e definire l’essenza del teatro, Grotowski si avventura sul terreno della negazione, ragionando su ciò che il teatro non è: non è scena (il testo e il dramma reso plasticamente), non è testo (l’ultimo a comparire nel contesto delle arti drammatiche), non è musica, non è luce. Rimangono soltanto due rette fondamentali (che si propagano all’infinito del teatro): l’attore e il pubblico, per paradosso un attore e, aritmeticamente, uno solo e così uno spettatore.

L’attore grotowskiano è quanto mai lontano dall’idea di attore classico-borghese, non è un professionista (il denaro gli è alieno, almeno nella accezione di cachet), non rappresenta narcisisticamente se stesso, ma lavora duramente, con un regista, in un processo di ascesi laica che ne fa l’ “attore santo”.Una santità senza Dio, volta a imprimere nel corpo dell’attore i segni della caduta della maschera e della assunzione di un rapporto di integralità e totalità percettiva con se stesso e con la natura (e con la natura della scena teatrale, che, di solito è molto sobria, o anche del tutto spoglia). Se l’attore fa ciò con se stesso, anche lo spettatore ne sarà “contaminato”.

Il training di un attore così fatto è molto personale, consiste non in una somma deduttiva di mestiere scenico, ma in processo deduttivo e molto personale, simile a quello attraverso cui un poeta forma una propria poetica e un lessico artistico personale (si potrebbe dire uno stile).

L’attore fa tutto questo attraverso il suo corpo e la sua voce, attraverso un sistema di esercizi che renda poi meccanica e non riflessiva la capacità, attraverso i “riflessi sonori”, di rendere una gamma vasta di emozioni (e soprattutto il dolore).

Qui ci sono alcune somiglianze con l’attore grotowskiano e l’attore biomeccanico di Mejerchol’d.

Grotowski si pone il problema della conciliazione fra spontaneità corporea e artificialità della forma.

Conclude che la forma va costruita come un “freno alla forma”, cioè con la costituzione di movimenti, da parte dell’attore, che vanno a scrivere una sorta di “ideogrammi”, inseriti in un percorso psicologico.

E’ attraverso questo processo che l’attore penetra la realtà, e comunica questo allo spettatore, che non è un fruitore passivo di uno spettacolo di divertimento, ma una persona che, attraverso lo stimolo dell’attore, desidera autoanalizzarsi e che subisce “un processo evolutivo senza fine, la cui inquietudine non è generica, ma indirizzata verso la ricerca della verità su se stesso e sulla sua missione nella vita” (pag.42).

Si tratta certamente di uno spettatore elitario, ma nel senso di un pellegrino di un’ascesi e non di un ostentatore di una scelta da snob.

E così il teatro, che per sua natura non può competere con cinema e televisione, non può che essere povero e valorizzare la sua autenticità, che è la fisicità del suo contatto con lo spettatore.

La funzione del teatro consiste nello smitizzare le menzogne collettive che sono alla base della nostra vita sociale, per far emergere un modo di essere profanatore e sacralizzante al tempo stesso, che immagina e intuisce una nuova realtà di vita interiore e spirituale.

A tutto questo contribuisce l’attore “santo”, non tale in senso religioso, ma nel significato di un’ascesi laica, nella povertà di un teatro senza finalità commerciali, nell’acquisizione di ricchezza morale e non materiale, nell’accostamento di un pubblico non applaudente, ma immerso in un silenzio di partecipazione.

Il tutto sotto la “tirannia” di un regista.

Ma, alla fine, assicura Grotowski, la vita di questo attore sarà molto più piena, libera e normale rispetto ad una realtà piena di applausi, di fiori e di critiche esaltanti.

In questa ascesi, se la partecipazione dell’attore è totale, non vi sono pericoli di squilibrio per la salute mentale, derivante da un processo di vero smascheramento totale della finzione sociale e di abbandono della corazza protettiva. Il pericolo ci potrebbe essere se questo lavoro fosse fatto a metà e per fini puramente estetici non sostanziali, perché non si acquisterebbe la libertà, di comprensione e di azione, necessaria, sia all’attore sia allo spettatore, per arrivare nelle personali “aure” autentiche.Questo processo, sia per l’attore, che per lo spettatore al momento in cui assiste allo spettacolo, ha indubbie componenti di natura terapeutica.

E’ possibile che sorgano scuole di teatro alternative a quelle tradizionali, prendendo gli esempi storici esistenti (Grotowski cita Stanislavskij e Vactangov), scuole “povere”, all’interno delle quali la formazione degli attori incominci, come per tutte le arti complesse, da un’età giovanile (14 anni) e che contempli un quadriennio di formazione e un quadriennio di laboratorio.

Riguardo al testo e alla sua importanza nel teatro, Grotowski afferma che il testo non è teatro, ma letteratura drammatica, cioè una forma a parte, che ha rilevanza in sé e per sé, ma questo non riguarda direttamente il teatro, è solamente un incontro fra il regista e un testo letterario.Quest’ultimo può essere addirittura ignorato o stravolto in sede di realizzazione drammaturgia.

Grotowski questo lo afferma con molta determinazione:

“Per me, creatore di teatro, le parole non sono importanti; per me la sola cosa che conti è ciò che si può ricavare da queste parole, ciò che dà vita alle parole inanimate del testo, e le trasforma in <>”. Il teatro è un atto generato dalle reazioni e dagli impulsi umani, dal contatto che si stabilisce fra la gente” (pag. 68),

E, di seguito:

“Ciò che conta è l’esperienza che verifichiamo su noi stessi quando ci apriamo agli altri, quando stabiliamo un confronto con essi, per meglio comprenderci – in senso elementare ed umano e non con l’intento scientifico di operare una ricostruzione storica” (pag. 69).

Seguono tre capitoli che esaminano la messa in scena di Akropolis (da Wyspienski), Faust (da Marlowe) e Il Principe Costante (da Calderon de la Barca, con adattamento di Julius Slowachi).

I testi che riferiscono di questi spettacoli sono, rispettivamente, di Ludwik Flaszen ,consigliere letterario di Grotowski (Akropolis e Il Principe Costante), e di Eugenio Barba (Faust).

Le tre analisi sono già di per sé una riflessione su uno spettacolo, riteniamo che non sia possibile e nemmeno utile farne un riassunto, dal momento che l’interesse del lettore dovrebbe essere una loro lettura integrale, a questa rimandiamo.

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da Stanislavskij a Grotowski e all’ Odin Teatret di Eugenio Barba - seminario diretto da Sandro Conte

 

“Bisogna ammettere nell’attore l’esistenza di una sorta di muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti” (A. Artaud; Il teatro e il suo doppio, pag 242).

 

Dal momento che il gesto psicologico è composto dalla volontà, permeata di qualità, può facilmente comprendere ed esprimere la completa psicologia del personaggio.

 

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