GROTOWSKI: Progetto speciale ’74 – ’75

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1100 iscritti / anno II,  n ° 05 / giugno 2003


Grotowski: progetto speciale 74-75GROTOWSKI: Progetto speciale ’74 – ’75

di Leszek Kolankiewicz

II brano è tratto dal resoconto del primo Progetto speciale, svoltosi in Polonia nella stagione 1974-75. L’iniziativa parateatrale era divisa in due fasi: la prima, più lunga, fu realizzata sotto la guida di Ryszard Cieslak. Una delle attività consisteva nella disposizione dell’ ambiente e nella preparazione di uno schema strutturale per la seconda fase del progetto, quando questo gruppo ne avrebbe ospitato uno più numeroso in arrivo, per un periodo di circa due giorni.


GROTOWSKI: Progetto speciale ’74 – ’75

Da quando, nella stagione 1974-75, ha avuto inizio l’attività parateatrale, sono state comunque molte le relazioni pubblicate sul lavoro, sia in Polonia che all’ estero, caratterizzate da un’ eterogeneità di stili e di punti di vista. Pro­prio grazie a queste relazioni molti sono potuti venire a conoscenza di ele­menti ed aspetti concreti del lavoro. II brano di Leszek Kolankiewicz, che riproduciamo qui di seguito, è tratto dal suo resoconto del primo Progetto speciale, svolto si in Polonia nella stagione 1974-75. L’iniziativa parateatrale era divisa in due fasi: la prima, più lunga, fu realizzata da un piccolo gruppo di persone, sotto la guida di Ryszard Cieslak. Una delle attività consisteva nella disposizione dell’ ambiente e nella preparazione di uno schema strutturale per la seconda fase del progetto, quando questo gruppo ne avrebbe ospitato uno più numeroso in arrivo, per un periodo di circa due giorni.

«Per i primi giorni, facciamo lavori domestici. Non parliamo di quello che succede. Le abitudini contratte in città muoiono lentamente: l’atteggiamento di difesa (che lì è necessario), l’ottusità dei sensi, !’indifferenza […]. Diven­tiamo progressivamente sensibili l’uno verso l’altro, sentiamo la nostra pre­senza, costante, tangibile, calda. Ci trasformiamo in un unico corpo animato fatto di tante persone. Qui il lavoro è duro: scaviamo una fossa profonda, sradichiamo ceppi d’albero, trasportiamo carbone e pietre (…)

La nostra comunità è come un corpo collettivo che tocca il terreno in modo, per cosi dire, più forte e – essendo collettivo – vi aderisce più fermamente. Impariamo ad abitarlo. Costruiamo un ampio capannone che ci farà da casa. Portiamo dai boschi e prendiamo dal fiume i tronchi d’albero, assieme a brac­ciate di rami. Il lavoro dura tutto il giorno e prosegue durante la notte (…), L’altro giorno ci siamo persi nella foresta.

Sono di fronte a un albero. E forte, lo posso scalare, reggermi con delicatezza sui suoi rami. In cima alla chioma, soffia un vento forte, che ci prende en­trambi, me e l’albero. Sento, con tutto il mio corpo, i movimenti dei rami, la circolazione dei fluidi, ascolto mormorii interni. Mi annido nell’al­bero […].

Certe notti andiamo nei boschi. Camminiamo al buio. Comunichiamo a sus­surri. Percepisco il respiro tranquillo degli alberi su tutta la mia pelle, in parti­colare sulla schiena. Ci riuniamo nella zona più fitta del bosco, che si apre per riceverci. La foresta immersa nell’ oscurità vive in modo diverso rispetto al giorno (…), Questa presenza costante della natura ha il suo significato. Aguzza i sensi, come se li facesse rinascere, conferma la corporalità del nostro essere (…),

Nella Tana (un piccolo locale dove ci si siede per terra, tra le candele) suo­niamo insieme (…), Il ritmo cresce e diminuisce con lentezza e regolarità; Dopo molte ore nella notte, mi abbandono del tutto alle onde del ritmo. Non sento il dolore delle dita, né la fatica nei muscoli. E nata una canzone, in un primo tempo senza parole, a cui poi si aggiunge il testo. Parla di ciò che è più semplice e più vicino: dell’albero, della terra, dell’acqua, del fuoco. Del cavallo bianco e del gabbiano, della nascita di un bambino. Parla di un uomo che è vicino. E’ la nostra Canzone – non verrà ripetuta in nessun altro posto (…).

Le cose più importanti avvengono nella Tana, nella rimessa, nel mulino, nel fiume, in una fossa piena di fango, sui prati, accanto al fuoco, al falò, nel capannone, nei boschi. La Tana è una stanza grande priva di finestre, dal pavi­mento liscio, con un focolare. Qui si trovano degli enormi barili d’acqua, che viene scaldata sulle pietre del focolare. C’è molto grano, raccolto in sacchi, un cumulo di foglie e rami di conifere. Sul canale abbiamo sospeso una grande rete da pescatore (…) Scaviamo nella terra come i cinghiali, ci gettiamo su di essa, tutti insieme. Saliamo su un albero enorme, oscilliamo appesi a una corda. Camminiamo in fila, uno dietro l’altro, a occhi chiusi. Cantiamo. Ci offriamo a vicenda delle mele stando sul muschio, affondiamo in un mucchio di foglie, ci laviamo col grano. Corriamo, tutti insieme, al fiume, cadiamo nella rete immergendoci nell’ acqua, saltiamo di testa nella fossa fangosa, dan­ziamo nei barili d’acqua bollente. Ci strofiniamo con gli aghi delle conifere. Arrostiamo la carne, vegliamo presso i fuochi, balliamo freneticamente sulla terra ardente, voliamo sopra i falò. Immobili nella radura della foresta, ci congediamo dal sole che se ne va; e al mattino lo accogliamo mormorando, in piedi, stretti in circolo.» [316/21-25]< /p>

A completamento di questo racconto, diamo, basandoci sui resoconti dei Pro­getti speciali svoltisi a Brzezinka nella primavera e nell’estate del 1975, una sintetica ricapitolazione dell’ ambiente, degli oggetti e degli eventi.

Ogni partecipante selezionato riceveva precise istruzioni sugli oggetti da por­ tare con sé: diversi cambi di vestiti (nella fattispecie abiti che si potessero sporcare, bagnare e persino distruggere); un buon paio di scarpe da passeggio o stivali di gomma al ginocchio; una somma di denaro per il cibo; lo strumento musicale prediletto; se si voleva, tabacco o sigarette sufficienti per due o tre giorni; effetti personali, secondo le necessità. Quando i partecipanti si riuni­rono a Wroclaw, il denaro fu raccolto per comprare il necessario all’alimenta­zione di tutti e il gruppo venne condotto in campagna, a Brzezinka. All’ arrivo il bagaglio fu sottoposto a controllo, per assicurarsi che tutti avessero l’essen­ziale: gli oggetti superflui (in particolare gli orologi) furono temporaneamente requisiti. Fu brevemente illustrata la disposizione logistica degli edifici e della campagna circostante, senza che tuttavia venissero fornite informazioni non necessarie sul progetto imminente. L’edificio in cui si svolgevano le attività al chiuso era un granaio ristrutturato, con diverse stanze, che venivano utilizzate per il lavoro e indicate con nomignoli affettuosi (come, ad esempio, Matec­znik, la Tana). Il lavoro all’aperto si teneva invece, sia di giorno che di notte, nella zona rurale attigua, disabitata e poco frequentata. C’erano campi, aree densamente boschive, un lago e dei torrenti. I nuovi arrivati furono impegnati in qualche lavoro di fatica.

A tarda notte, generalmente, ci si riuniva intorno al fuoco, dove si mangiava, si beveva e, in un secondo tempo, si improvvisavano musiche e danze. Il gruppo poteva allora spostarsi all’ esterno, in campagna. Le quarantotto ore successive erano impiegate in un’attività più o meno continua, che si svolgeva in parte all’interno, in una delle stanze, e in parte nei dintorni, dove i partecipanti erano esortati a correre, fino a sentirsi esausti; a nuotare nel lago o in un torrente; a scalare alberi o a compiere altre azioni meno impegnative, ma che richiedevano un livello di agilità che normalmente soltanto i bambini posseg­gono; a giocare e a improvvisare col fuoco, con la terra, con le pietre e con altri diversi elementi e materiali naturali. C’erano le attività che favorivano soprat­tutto un’esperienza comune e quelle in cui si sviluppava più spontaneamente un rapporto a due. Era inoltre previsto un momento (generalmente notturno) in cui il gruppo si disperdeva nella foresta, cosi che ogni membro potesse trascorrere qualche tempo da solo.

Le attività svolte all’interno erano ovviamente più limitate e più intense; com­prendevano spesso musiche, danze e ritmi improvvisati. Talvolta alcuni ele­menti erano introdotti dall’esterno: paglia, sabbia, terra, recipienti d’acqua. Esistevano, comunque, anche fasi di tranquillità, dedicate al riposo, all’ ali­mentazione, al sonno. Ai partecipanti non si comunicavano verbalmente delle regole, un codice di comportamento con cui affrontare il lavoro, né si davano informazioni anticipate su quanto li attendeva. A parte le informazioni prati­che, gli organizzatori ricorrevano alle parole soltanto in rare occasioni, usando brevi ingiunzioni di natura poetica e metaforica, come stimolo all’ azione. E, a quanto pare, la comunicazione verbale, volutamente rifiutata per principio dagli organizzatori, divenne presto un elemento superfluo anche per i parteci­panti. Burzyiiski: «Tuttora,non riesco a non meravigliarmi del fatto che, dopo un po’, smettes­simo di parlare… Poiché eravamo giunti a comunicare in modi più semplici e meno artificiali, perdemmo la fiducia nelle parole (…), Esistono, adesso lo so, altri mezzi per comunicare agli altri la propria personalità e le proprie emo­zioni, altri mezzi per gioire insieme.» [194/17]

Possiamo concludere questo sintetico resoconto di un Progetto speciale con un altro brano di Tadeusz Burzynski, scaturito dalla partecipazione a un’ espe­rienza parateatrale nell’aprile 1975:

«La nostra attività – che non costituiva un’esperienza ordinaria, quotidiana ­non era così fuori dal comune dal punto di vista delle singole azioni. Alcune di esse fanno parte, in modo più o meno intenso, della nostra esperienza di tutti i giorni. Sono presenti, a livello embrionale, nelle azioni, nelle avventure e nei giochi che ci sono soliti. Nel Progetto speciale queste situazioni erano semplice, mente concentrate nel tempo e messe in un certo ordine. Infatti, anche se la reazione spontanea conferisce loro un contenuto e un impatto umani, le situa­zioni comportano, comunque e in parte, una pianificazione, riguardo alla loro direzione e a certi punti che dovrebbero raggiungere. Non esisteva un per­corso prestabilito, la gamma delle scelte, dei percorsi e dei sentieri era pratica­mente illimitata. Noi, dunque, avevamo lo scheletro di un’ esperienza (per evitare confusione) che, nel corso delle varie attività, veniva rivestito di tessuti vivi: gli impulsi, le reazioni e le emozioni dei partecipanti, che erano oggetto di scambio e di ispirazione reciproca. Lo scheletro non era né inalterabile né imposto.» [194/16] )

La lunga citazione è tratta da “Jerzy Grotowski” di Jennifer Kumiega pagg 134, 135, 136-  Ed. La Casa Usher

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