GROTOWSKI: Cosa NON FARE in una improvvisazione

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grotowski azioni fisicheGROTOWSKI:  Cosa NON FARE in una improvvisazione

Thomas Richards ci racconta che “lavorando per due settimane con Grotowski in California, cominciai a capire cosa vuol dire improvvisazione all’interno di una struttura.” Conclude: “la nostra improvvisazione era servita da lezione perfetta per vedere cosa esattamente dovevamo non fare nel lavoro con lui.”

da Thomas Richiards – Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche pagg 30 – 31 – Ubulibri, che ringraziamo per il permesso alla pubblicazione



GROTOWSKI:  Cosa NON FARE in una improvvisazione

          da Thomas Richiards – Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche pagg 30 – 31 – Ubulibri

       Lavorando per due settimane con Grotowski in California, cominciai a capire cosa vuol dire improvvisazione all’interno di una struttura.

          Alla Yale University avevo eseguito molte improvvisazioni come musicista, avendo studiato sassofono e clarinetto per sette anni. Insieme a un professore di musica e a qualche altro musicista avevamo formato un ensemble di “free improvisational music”. Le nostre improvvisazioni non avevano struttura e non potevano mai essere ripetute: la competenza musicale e la capacità di ascoltare e di reagire con i suoni erano gli unici elementi strutturali. Invece Grotowski, a Irvine, pose fortemente l’accento sulla necessità di una struttura quando si improvvisa. Molte volte, parlando di improvvisazione portava l’esempio del primo jazz. Diceva che i primi jazzisti avevano capito che l’improvvisazione può esistere solo all’interno di una struttura definita: padroneggiavano pienamente i loro strumenti, e cominciavano da una melodia di base. Le loro improvvisazioni venivano intessute a partire da questa melodia base, che era la loro struttura, e con la quale restavano in relazione. Grotowski, quando faceva questo esempio, sottolineava sempre che stava parlando del primo jazz.

       improvvisazione a teatro  Il giorno prima dell’inizio del seminario, Grotowski venne a parlarci nel nostro dormitorio. Ricordo che disse che il giorno dopo avremmo dovuto presentare “qualcosa” a lui e al suo team di quattro assistenti. Dovevamo creare una presentazione basata su quello che pensavamo sarebbe stato il lavoro con lui. Qualcuno di noi magari aveva fatto dei sogni a occhi aperti a proposito del lavoro. Dovevamo creare “qualcosa” intorno a quello che avevamo immaginato o sognato del lavoro che avremmo fatto con lui. Grotowski ci lasciò lì a prepararci, ma non sapevamo da dove cominciare. Eravamo arrivati pensando che lui ci avrebbe detto cosa fare, pronti a essere passivi e ad andare dove ci spingeva il vento. Domandandoci di essere attivi ci sorprese. Decidemmo allora di fare un’ improvvisazione: ognuno di noi doveva pensare ad un frammento dell’ improvvisazione, in cui avrebbe condotto gli altri. Trovare le nostre proposte individuali ci prese solo pochi minuti, così passammo il resto della giornata sulla spiaggia.

          Il giorno dopo arrivammo allo spazio di lavoro di Grotowski e facemmo la nostra presentazione. Mentre improvvisavamo mi sembrò che fosse qualcosa di piuttosto intenso:  ci ammucchiammo in gruppo e inventammo un canto, creammo spontaneamente delle danze ritualistiche, uscimmo all’aperto (il luogo di Grotowski era sul limitare del deserto) e battemmo dei bastoni in segno di croce di fronte al sole, sempre cantando qualche mantra improvvisato. Sentendoci abbastanza primitivi, corremmo nel deserto a piedi nudi. Gli arbusti spinosi ci tagliuzzavano i piedi. Grotowski allora interruppe la nostra rappresentazione e domandò se di recente eravamo stati vaccinati contro il tetano. Il giorno dopo tre di noi che non lo erano furono spediti all’ospedale per farsi somministrare il vaccino.

          Dopo l’improvvisazione, malgrado il finale confuso, mi sentii svuotato e contento di me. Anche i miei piedi feriti non mi davano fastidio più di tanto: semplicemente rinforzavano la mia convinzione di avere “davvero fatto qualcosa”.

          Grotowski, nella sua analisi, stese a terra l’intero nostro gruppo ringraziandoci per avergli mostrato tutti i cliché del “parateatro” (o “teatro partecipativo”). Disse che nel “parateatro” inevitabilmente appaiono certi cliché, ed era meravigliato che si fossero presentati in ciò che avevamo fatto noi americani, che non avevamo mai partecipato a un lavoro di quel tipo: quei cliché, dunque, non li avevamo imparati da altri, così aveva avuto l’opportunità di vedere che si trattava di banalità umane universali, non limitate a gruppi di persone coinvolte in quel tipo di lavoro per lunghi periodi di tempo. Ne fece un elenco: trasportare qualcuno come se fosse morto, gettarsi al suolo in una pseudo-crisi, urlare, ammassarsi in branco e cantare dei canti improvvisati con sillabe come “Ah ah” o “La la”, eccetera. Disse che spesso, prima che possa cominciare un lavoro reale, un essere umano deve vomitar fuori tutte queste banalità. Dunque dovevamo fin dall’inizio fare una lista di queste banalità, ed evitarle assolutamente: la nostra improvvisazione era servita da lezione perfetta per vedere cosa esattamente dovevamo non fare nel lavoro con lui.

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