E. BARBA: università avana, cuba 2002

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Eugenio BARBA: Università Avana, Cuba 2002

“Dentro le viscere del mostro” – Discorso di ringraziamento di Eugenio Barba per il conferimento del dottorato honoris causa da parte dell’ISA, Instituto Superior de Artes dell’Avana il 6 febbraio 2002.

Eugenio Barba“Il teatro è un mostro che soffoca subdolamente la nostra necessità originaria con la consuetudine, la ripetitività, gli alibi e la grigia fatica. Il teatro diventa semplicemente un lavoro, una dimestichezza con un mestiere che ha perso la sua magia, il suo ethos, i suoi ideali. All’ora di cena ci sediamo a tavola. All’ora di andare a letto, sbadigliamo. Vediamo un albero, e raccogliamo la sua frutta. Il teatro sopravvive e ci fa sopravvivere avvolti in un sano fatalismo di indifferenza e tiepidezza. 

Solo la rivolta ci può proteggere, una rivolta contro noi stessi, contro le nostre tentazioni, i nostri piccoli cedimenti e compromessi, contro l’impulso naturale a scegliere le soluzioni conosciute e seguire il cammino meno arduo. Quel che trasforma il mostro in un’isola di libertà è la via del rifiuto, del lavoro anonimo e incorruttibile, ogni giorno, per anni, anni e anni.
Non dobbiamo nutrire aspirazioni ambiziose. Dobbiamo essere consapevoli che dentro le viscere del mostro siamo solo un granello di sabbia.”

E’ tra le braccia di questo “Mostro” che ci trascina Eugenio BARBA in questo Suo discorso per il conferimento del dottorato honoris causa da parte dell’ISA, Instituto Superior de Artes dell’Avana il 6 febbraio 2002.

Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione

Buona Lettura



Eugenio BARBA – Università Avana, Cuba 2002
 

DENTRO LE VISCERE DEL MOSTRO

Discorso di ringraziamento di Eugenio Barba per il conferimento del dottorato honoris causa da parte dell’ISA, Instituto Superior de Artes dell’Avana il 6 febbraio 2002.

Eugenio BarbaCari amici dell’ISA,
nel ringraziarvi con affetto, voi già sapete che questo riconoscimento non è concesso solo a me, ma all’intero Odin Teatret, ai suoi attori e collaboratori di 38 anni di lavoro, e a tutti i componenti della cultura di teatro di gruppo, dovunque nel mondo – questo Terzo Teatro di cui l’Odin si sente orgoglioso di appartenere.

Confesso di essere un po’ emozionato e molto soddisfatto. Qui culmina un legame con la vostra isola. Cominciò nel 1946 a Buenos Aires, nel caffè Rex dove lo scrittore polacco Witold Gombrowicz soleva riunirsi con i suoi amici e tradurre con loro Ferdydurke, un romanzo che tanto ha significato nella mia vita. Nelle sue memorie Gombrowicz ricorda soprattutto due di questi amici, la loro fantasia ed empatia creativa nel riportare allo spagnolo le eccentricità e i paradossi linguistici del suo libro. Erano cubani e si chiamavano Virgilio Piñera e Humberto Rodriguez Torneu. Così Cuba entrò nella mia vita, attraverso la solidarietà di artisti in esilio.

Fu nel 1963 che incontrai il mio primo cubano. Lo ascoltai, in un congresso a Varsavia, esprimere la sua emozione per uno spettacolo, Akropolis di Grotowski, a quel tempo ostracizzato dal regime socialista. Ricordo ancora lo scompiglio che il trascinante intervento di Eduardo Manet, giovanissimo direttore del Teatro Nazionale di una Cuba socialista, tropicale e spavalda, creò nell’ambiente ortodosso del partito e del teatro polacco. Il suo discorso contribuì a legittimare il lavoro di Grotowski permettendogli di estendersi anche fuori dalla Polonia in una provocazione e uno stimolo incessanti per noi tutti.

Più di vent’anni dopo, nella piccola cittadina di Holstebro, bussò alle porte dell’Odin Teatret un attore svedese di un gruppo di teatro politico. Accompagnava un giovane cubano, che aveva voluto visitarci. Era Helmo Hernandez, ancora oggi molto attivo nella vostra vita culturale. A quel tempo i venti del teatro politico soffiavano con vigore in Europa. L’Odin era sotto costante accusa per il suo modo di prendere posizione, per il suo “formalismo”, per la sua determinazione “elitaria” di limitare il numero degli spettatori. Anche a Cuba, quando il nome dell’Odin appariva nei dibattiti e nelle pubblicazioni, lo scetticismo e la diffidenza erano più che palesi. La visita di Helmo Hernandez mi fece ritrovare la curiosità intellettuale e il desiderio di dialogo professionale dei pochi cubani che avevo incontrato. Così lo invitai alla quarta sessione dell’ISTA, la International School of Theatre Anthropology, nel maggio del 1986 a Holstebro. Alcuni mesi dopo, andando in Uruguay per una tournée dell’Odin, decisi di atterrare all’Avana e visitarlo. Rimasi solo pochi giorni e nonostante la mia visita non fosse ufficiale, Helmo aveva organizzato incontri e conferenze. Qui nacquero amicizie profonde con artisti e studiosi: con Flora Lauten, Marianela Boán, Victor Varela, Magaly Muguercia, Rosa Ileana Boudet, Vivian Martinez Tabares. Helmo mi portó al Teatro Escambray, che conoscevo solo attraverso le letture e che ammiravo. Ci accompagnò Vicente Revuelta. Rimane incancellabile nella mia memoria il lago della Hanabanilla, la sua acqua cobalto e smeraldo, le montagne intorno coperte di palme, una piccola barca con Helmo ai remi, e Vicente Revuelta ed io che discutevamo, come due bambini creduli, di fantasmi e di sirene, di draghi, di orchi e di angeli, cioè di teatro e di politica.

L’accettazione dell’eretico Odin Teatret ebbe luogo nel 1989. Incoraggiata dal regista peruviano Miguel Rubio, fu Raquel Carrió il sagace cavallo di Troia che seppe introdurre ufficialmente l’Odin a Cuba, con Judith, lo spettacolo d’una sola attrice, Roberta Carreri; e con un mio corso qui, nel vostro ISA. Partecipammo anche alla prima sessione dell’EITALC, la scuola latinoamericana appena fondata a Machurrucutu. Qui ebbe origine il forte legame con Osvaldo Dragún, uno degli artisti più puri e impegnati che abbia conosciuto, uno degli abitanti da me più amati nella mia patria professionale.

Poi già non ricordo più quante volte l’Odin sia venuto a Cuba, a volte io solo, altre volte solo Julia Varley. La grande tournée di tutto l’Odin Teatret nel 1994, in pieno marasma economico del “periodo speciale”, fu merito di Lecsy Tejeda e Eberto Garcia Abreu.

Ed eccomi di nuovo qui, circondato dai miei compagni dell’Odin Teatret, tra alcune delle persone che danno senso e valore al mio agire teatrale, e la cui perseveranza e impegno sono per me uno stimolo a non desistere nei momenti di sconforto. Anche quest’ultima visita di sei settimane in diverse città di provincia ed all’Avana, ha la sua origine in quello che ai miei occhi è l’essenza della cubanità: prendere posizione spinti da una motivazione inderogabile. L’Odin è oggi a Cuba grazie alla motivazione di Omar Valiño secondato da Maité Hernández-Lorenzo e da un pugno di amici leali dell’Odin, e grazie agli interventi taumaturgici di Julian González Toledo. A voi va la gratitudine di tutti noi dell’Odin con la gioia di una certezza: che per anni e anni ci ritroveremo insieme resistendo allo spirito del tempo.

Eugenio BARBA: LA DANZA DEL GRANDE E DEL PICCOLO

 

Questa sequela di nomi e di fatti sono aneddoti privati, ma anche fatti storici. Cosa vedo quando penso alla storia? Vedo la danza tra il Grande e il Piccolo. Il suo ritmo grottesco, tenero, alla fine sempre crudele, impedisce al tempo di fluire in maniera uniforme, e invece lo scalfisce, lo sfaccetta riempendo le nostre vite di essenza e sostanza, di profumi e passioni.

In questa danza, vi sono momenti in cui siamo trascinati, e momenti in cui siamo noi a influire sul corso del tempo. Allora sembra che il nostro destino sia guidato dalle nostre mani. Molti pensano che questa possibilità di modellare il proprio destino sia una pura illusione. In realtà, ci illudiamo di illuderci

Esiste La Grande Storia che ci trascina e ci sommerge, sulla quale spesso sentiamo di non poter intervenire. Non la possiamo neppure conoscere, non possiamo capire in che direzioni si muova, mentre si sta muovendo, e noi con lei. Solo osservandola a ritroso, dopo che il tempo è passato, le sue svolte e i suoi capovolgimenti ci appaiono chiari. La Grande Storia non ci concede libertà alcuna. Procede inesorabilmente e va non sappiamo dove, o perché. Spesso ci raccontiamo favole di Speranza o di Disperazione. Tutte ugualmente insensate, anche se a volte la loro insensatezza accende una fievole luce nel buio che ci circonda.

Eppure nella Grande Storia è possibile ritagliare piccole isole, minuscoli giardini dove la nostra mano può essere efficace e dove possiamo vivere la nostra Piccola Storia.

La Piccola Storia, intessuta di rifiuti e “superstizioni”, è quella della nostra vita, della nostra casa, della nostra famiglia, dei malintesi, degli incontri e delle coincidenze che ci hanno guidato al mestiere e all’ambiente ai quali abbiamo deciso di appartenere.

È evidente che la Grande Storia e le Piccole Storie non sono indipendenti. Ma le Piccole Storie non sono delle semplici porzioni della Grande.

I bambini che costruiscono una piccola diga ai margini della corrente di un grande fiume, che ricavano una minuscola piscina in cui bagnarsi e sguazzare, non giocano nella corrente impetuosa, ma non sono neppure in un’acqua separata da quella che scorre al centro del fiume. Creano, lungo i suoi margini, delle cavità e degli habitat imprevisti, trasmettendo al futuro le tracce della loro differenza.

Tutto questo l’ha descritto Voltaire nel suo Candide. Sotto un diluvio di ironia e d’avventure, crolla l’illusione che il mondo in cui viviamo sia vivibile o sia il “migliore dei mondi possibili”. Dopo aver a lungo partecipato al gioco meccanico della lotta tra pessimismo e ottimismo, il protagonista di Voltaire approda, nell’ultima pagina, alla coscienza che bisogna lavorare senza pensare al destino del proprio lavoro, impegnandosi a “coltivare il proprio giardino”. Questo atteggiamento non significa arrendersi, cedere, non è un richiamo all’egoismo o a una visione ristretta ed egocentrica della vita. È l’affermazione della necessità di contraddire la Grande Storia con una Piccola Storia che possa appartenerci. E provare a farle danzare.

Il teatro è il tentativo di stare nell’acqua del fiume senza lasciarsi trascinare dalla corrente.

Questa è la storia del teatro: piccoli giardini, pozze d’acqua riparate, a volte spazzate via, dall’impeto della corrente.

Eugenio BARBAL’ALTRA FACCIA DELLA CONTINUITÀ

Soffermiamoci un momento sull’espressione “storia del teatro”. Perché qualcosa abbia una storia occorre che vi sia una certa continuità fra il suo passato e il suo presente. In che cosa consiste la continuità del teatro?

Vi è una categoria di teatri che sono come case che sopravvivono ai loro abitanti e mantengono una propria identità passando di mano in mano. Vi è poi un’altra categoria di teatri che non sono fatti di pietre e mattoni, la cui sola consistenza è il gruppo vulnerabile di persone che lo compongono. Spariscono e spariranno con quelle persone. Non possono essere né ereditati né riempiti di nuovi contenuti.

La vita del teatro è una danza tra continuità e discontinuità. Le storie dei teatri “vulnerabili” spesso interferiscono con le storie delle case del teatro, ma si muovono in base a disegni indipendenti. La loro forma, il loro modo di organizzarsi e di entrare in contatto con gli spettatori e con la realtà sociale circostante, non si adegua ai modelli dei teatri duraturi. Deriva da necessità personali e dal grado della loro estraneità ai valori delle pratiche riconosciute e consolidate.

È la storia sotterranea di teatri senza fama e senza nome. È un terreno fecondo e turbolento dove sorgono e scompaiono valori imprevisti ed esperienze imprevedibili. Qui il teatro si rinnova e si trascende. È una trascendenza tangibile che consiste nel superamento dei limiti che tradizionalmente distinguono ciò che è teatro da ciò che non lo è, che infrange le frontiere tra il lavoro sul personaggio e il lavoro dell’individuo su se stesso, tra la pratica artistica e l’intervento politico e sociale.

L’energia della vita teatrale all’inizio del nuovo millennio scaturisce dalla tensione fra le luci fisse del firmamento teatrale e la turbolenza dei teatri “vulnerabili” fra le case dei teatri e i teatri che esplorano i deserti, fra la stabilità e l’irrequietezza.

Questa tensione è qualcosa di nuovo.

Per secoli, a partire dal Cinquecento, la fonte di energia per il teatro europeo fu la tensione tra tradizione e sperimentalismo. Nel ventesimo secolo, sede dello sperimentalismo furono i teatri amateurs e, a volte, i teatri di professione, quando si trattò di inventare nuove formule per salvaguardare la propria esistenza e la propria dignità. Focolai di sperimentalismo furono gli ambienti dei futuristi, dadaisti e surrealisti fino alle correnti più recenti delle avanguardie artistiche che hanno inciso nella cultura contemporanea. Furono nicchie dello sperimentalismo teatrale i “Teatri Liberi” e i “Teatri d’Arte” a cominciare da Antoine e da Stanislavskij.

Anche nei teatri asiatici, la tensione che è fonte di energia fu a lungo quella tra la fedeltà alle forme della tradizione e la pulsione all’innovazione. Per ragioni culturali e politiche, questa tensione si intrecciò a quella fra influsso straniero e rispetto delle forme autoctone. Da un lato era un impulso ad appropriarsi delle forme nuove approdate in Asia dai paesi più potenti e colonialisti. Dall’altro era una reazione a rifiutare gli stili stranieri e a riscoprire il valore del proprio sapere teatrale. È una dialettica di fagocitazione e rifiuto che in numerose varianti caratterizza la creatività di molti artisti dei teatri africani e sudamericani.

Anche nel teatro di matrice europea la tensione fra tradizione e sperimentalismo ha avuto un colore politico. Sperimentalismo ed avanguardia furono spesso l’espressione del rifiuto nei confronti dell’arretratezza conservatrice, o della ribellione contro le istituzioni dei ceti privilegiati e dominanti della cultura e dei loro raffinati strumenti di potere.

Oggi, all’inizio del nuovo millennio, il panorama è ancora cambiato. La ribellione del teatro è soprattutto creazione di una condizione di insularità, di esilio interno, una forma materiale, spesso non detta, di dissidenza. L’intera orbita del teatro è marginale rispetto ai centri in cui pulsa la vita e la cultura del nostro tempo. Il teatro sembra un relitto archeologico di epoche trascorse. Eppure si rinnova incessantemente. Continua a portare il segno di una diversità che può avere la debolezza di un limite o la forza e la dignità di chi si riconosce minoranza.

Il teatro può aiutarci a far rispettare la nostra differenza. Allora si converte nella pratica di una dissidenza.

Eugenio BARBA: UN MODO PARTICOLARE DI MUOVERSI

Gli anni mi hanno insegnato quanto sia importante ridefinire a me stesso i termini abituali del mestiere per distillare nuove immagini, sapori e fragranze. È come se il mestiere teatrale mi soffocasse. L’unico modo per respirare un poco di ossigeno è spiegare in continuazione a me stesso cosa sia il teatro; perché continuo a farlo; come raggiungere una conoscenza che contiene il suo opposto, cioè come sfuggire all’accumularsi dell’esperienza che cristallizza un’identità e si muta involontariamente in un limite; dove far deflagrare, con i miei compagni dell’Odin, questi decenni di prestigio, di solitudine e di fierezza. In quale prigione, castello, ghetto o isola lontana operare ancora un baratto, un momento effimero ed illusorio di reciprocità e parità.

Se oggi, cari amici cubani, mi domandaste: Cosa è il teatro? risponderei: È un modo particolare di muoversi. Questo “modo particolare” è un ethos, un comportamento che manifesta un sapere artigianale incorporato, e allo stesso tempo un nodo convulso di “superstizioni” e fantasmi personali, quel che chiamiamo valori, la nostra bussola della vita.

Muoversi, per un attore e un regista, significa sottomettersi con disciplina e coerenza , per anni, a una pratica mentale e somatica che ci sradica dai luoghi comuni e dai pregiudizi della nostra cultura di origine, e ci spinge verso i territori scabrosi dell’ alterità. Questa alterità ha due visi. È l’altro in noi stessi, quella parte di noi che vive in esilio nella profondità più profonda del nostro essere. Ed è l’altro essere umano, separato e distante da noi per geografia, cultura o sesso. Il teatro non può essere un incontro filantropico in cui si cerca di comprendere, spiegare o accettare il differente.

Il teatro é una lotta fiorita, è la nostra necessità di appropriarci dell’altro – gli autori, i colleghi di lavoro, gli spettatori, i morti – di fondersi con lui, di divorarlo, impegnando tutto il nostro metabolismo per assorbire l’essenziale ed espellere il superfluo. Il confronto con l’altro è un rito di passaggio che rinnova il riconoscimento di forze e qualità reciproche ed inspiegabili.

Il teatro ci muove dalla realtà inferiore alla realtà dell’esistenza profonda. Ci proietta dalla superficie nella corrente opaca delle energie che operano occulte. Basta ricordare Marx, Freud, Niels Bohr, e le fondamenta su cui ci muoviamo, l’universo subatomico che nega le evidenze della fisica di Newton e irride le relazioni di causa ed effetto, di tempo e spazio, di passato e futuro.

Il teatro muove il nostro universo interiore verso il mondo degli eventi tangibili e spinge la nostra Piccola Storia a ballare con la Grande Storia. La nostra rabbia, le nostre esaltazioni, i nostri smarrimenti e rifiuti si scontrano con la disciplina dell’artigianato teatrale. Emozioni, sensibilità ed impulsi sono sottomessi a un processo di finzione, si trasformano in azione percettibile, che accarezza o graffia i sensi e la memoria dello spettatore.

Il teatro ci alza o abbassa socialmente, ci fa essere accettati, riconosciuti e riconoscibili, oppure rifiutati, a volte perseguitati. Il teatro europeo è la storia di un mestiere discriminato, con innumerevoli esempi di attori che abbatterono le barriere sociali grazie a un consenso di ammirazione. Rachel, Adelaide Ristori, Jenny Lind, Eleonora Duse, Johanne Louise Heiberg, e molti altri modelli di eccellenza artistica provenivano da ambienti disprezzati e rifiutati, ebree, zingare, figlie naturali o figlie d’arte.

Il teatro ci muove, alla lettera, ci fa viaggiare, è la materializzazione di una geografia che attraversiamo per visitare fisicamente e mentalmente luoghi e ambienti lontani, per incontrare temperamenti e temperature che sorprendono. Il teatro è un viavai di relazioni, è un nomadismo radicato in un ethos, in un artigianato incorporato.

Affermo che il teatro sia un modo particolare di muoversi. Questa definizione vale dal punto di vista di chi pratica attivamente il mestiere. Muoversi, però, è un verbo riflessivo che si dirige al soggetto, un serpente che si morde la coda. Qualsiasi definizione del teatro deve partire dalla consapevolezza che lo spettacolo crea un fascio di relazioni con realtà diverse e si immette in uno spazio/tempo sociale.

Il teatro è un modo particolare di muovere lo spettatore.

Questo è in fondo l’obiettivo del lungo apprendistato e degli sforzi continui di ogni attore: muovere lo spettatore, creare una finzione, un’illusione che allucini lo spettatore e gli faccia esperire la trasparenza. Nel corso dello spettacolo, le caratteristiche personali e la perizia degli attori, i comportamenti e i destini dei personaggi, le tensioni e le peripezie del racconto devono perdere la loro consistenza per i sensi dello spettatore, devono trasformarsi in un vuoto, un ponte trasparente che avvicina ogni spettatore alle sue ferite nascoste, alle sue cicatrici interiori, alle tracce delle sue lotte e dei suoi compromessi. Questo dialogo con se stesso può avvenire solo se l’attore riesce a destare le energie sopite di ogni singolo spettatore provocando risonanze, sensazioni e memorie che permettono di riflettere in termini di intimità, di Piccola Storia.

Solo se l’attore riesce a muoversi crea le premesse per muovere lo spettatore, per sedurlo e spiazzarlo provvisoriamente dalla trincea delle sue convinzioni.

Muovere lo spettatore, tecnicamente parlando, presuppone l’assimilazione di modi paradossali di pensare e comportarsi sulla scena. Il “se magico” di Stanislavskij, i procedimenti per straniare il comportamento del personaggio tanto apprezzati da Brecht, i principi pre-espressivi della presenza scenica evidenziati dall’Antropologia Teatrale, sono alcuni dei cammini che l’attore può seguire per essere convincente in ogni sua più piccola azione. L’attore genera una qualità di presenza diversa, provoca un’osmosi con le energie dello spettatore, realizza un atto sociale che si converte in un processo di meditazione individuale.

È il trionfo della presenza assoluta nell’istante che fugge, l’impegno totale dell’individuo-attore che compie le sue azioni hic et nunc, qui ed ora, di fronte agli spettatori, al centro stesso della sua epoca e della sua società. Ma l’attore crea la realtà della finzione per poter essere altrove. Il teatro è l’arte dell’ubiquità: prende posizione di fronte alle circostanze in cui il nostro destino personale e la Grande Storia ci hanno sbattuto, e nello stesso tempo ci trasporta nell’utopia, in una quotidianità ideale.
Il teatro permette di vivere dentro le viscere del mostro e allo steso tempo in un’isola di libertà.

Dov’è questo “altrove”? In quale luogo fisico, geografico, affettivo, mentale si trova?

Eugenio BARBA: DISSIDENZA E UTOPIA, UN TEMPO DENTRO UN ALTRO TEMPO

In un mattino sereno, in una villa di Roma, un uomo sessantenne corre e salta sui prati come un bambino. Ha passato gran parte della sua vita in prigione, in celle sotterranee, e isolate, torturato. Ora è finalmente libero. È nato nel 68, 1568, in Calabria, nell’estrema punta dell’Italia meridionale. Si chiama Tommaso Campanella, l’autore della Città del sole, un’opera su una società giusta e utopica. L’aveva scritta in carcere nel 1602, ispirandosi all’Utopia di Thomas More, l’intellettuale decapitato per aver rifiutato di firmare il documento che riconosceva Enrico VIII come capo della chiesa d’Inghilterra.

Campanella, di origini contadine, era un frate domenicano, teologo, filosofo, astrologo, aveva delle visioni e faceva profezie. I suoi nemici lo chiamavano mago e stregone. Scandalizzato dalla ristrettezza della mentalità ecclesiastica aveva abbandonato l’ordine monastico – un reato per quel tempo.

Campanella viene incarcerato. Tornato provvisoriamente libero, diventa uno dei capi di una congiura contro il governo spagnolo che dominava l’Italia del Sud. La congiura è scoperta e i 140 congiurati, tra cui 14 monaci, vengono incatenati e portati a Napoli. Alcuni dei prigionieri sono squartati sotto gli occhi della folla, trasformando la loro morte in spettacolo. Altri vengono impiccati agli alberi delle navi della flotta spagnola. I rimanenti vengono torturati affinché confessino i nomi dei complici della rivolta armata.

Campanella subisce la tortura del “puledro”, steso su una trave di legno e stretto con corde che schiacciano le sue carni sulle ossa. Viene sospeso alla fune con le braccia all’indietro e le spalle slogate. Alla fine è sottoposto alla tortura della “veglia”, l’invenzione recente del giudice Ippolito de Marsilis. Al prigioniero si dava cibo e vino in abbondanza. La difficile digestione favoriva il sonno, ma gli si impediva di dormire. Per 20, 30, 40 ore di seguito era costretto a sedere su uno sgabello alto che non permetteva di poggiare i piedi a terra, con le braccia legate dietro la schiena e tirate da una fune. Ogni volta che la testa si chinava nel sonno, i suoi guardiani lo battevano.

Campanella si rende conto che alla fine della tortura lo condanneranno. Sa anche che è proibito mettere a morte un peccatore, un delinquente o un eretico se costui è pazzo. Un demente non ha la coscienza per pentirsi dei suoi misfatti. E le condanne e i tormenti vengono inflitti per permettere al condannato di redimersi agli occhi di Dio. Occorre quindi che il torturato soffra e muoia in piena coscienza, in modo da accettare la condanna e pentirsi.

Campanella, allora, si finge pazzo. La finzione dura giorni, settimane, mesi, senza tregua, senza distrazioni. Negli intervalli fra una seduta di tortura e un’altra, Campanella fa smorfie, mormora frasi senza senso, è scosso da convulsioni, dà fuoco al pagliericcio della sua cella. Durante l’ultima tortura della veglia, alla quale dovrebbe seguire la condanna a morte, ad ogni domanda risponde sempre con le stesse ossessive parole: “dieci cavalli bianchi”.
– Sei cosciente che i tuoi peccati ti condanneranno all’inferno?
– Dieci cavalli bianchi.
– Hai mai fatto pratiche di magia?
– Dieci cavalli bianchi.
– Hai mai evocato Satana?
– Dieci cavalli bianchi.
– Non hai forse dichiarato che esistono altri mondi abitati, oltre alla nostra terra?
– Dieci cavalli bianchi.
– Sostieni che il papa sia un usurpatore?
– Dieci cavalli bianchi.
– Hai scritto tu l’infame opuscolo anonimo intitolato I tre impostori dove anche Cristo è
dichiarato impostore, accanto a Mosé e Maometto?
– Dieci cavalli bianchi.

Finalmente, la mattina del 6 giugno 1601, alla fine dell’ultima e lunghissima “veglia”, viene dichiarato legalmente pazzo e condannato al carcere a vita. Lui stesso firma il documento con una croce, come fanno quelli che non sanno né leggere né scrivere. Resta in carcere fino al 1626, compone La città del sole, la sua visione utopica di una società umana e giusta, scrive numerosi libri e poesie. È la sua altra libertà”. 27 anni di “altra libertà”, il suo “altrove”.

L’utopia è il salto in un “altrove”, quando questo mondo mostra il suo volto repellente. Thomas More e Tommaso Campanella sono tra i primi intellettuali a mostrare il legame tra utopia e dissidenza. O meglio indicano come la dissidenza sia la capacità di vivere in un tempo dentro un altro tempo, la pratica di un’ubiquità che permette di vivere simultaneamente nel tempo-prigione e in un’isola di libertà, la piscina che ci permette a volte di stare nell’acqua della Grande Storia senza lasciarci trascinare dalle sue correnti.

Eugenio BARBA: LA DIFFERENZA INQUIETANTE

È importante preservare la testimonianza che la dissidenza sia praticamente possibile. Come si può essere dissidenti in maniera efficace?

Secondo la storia e l’etimologia della parola, “dissidenza” viene dal latino dissidere, sedere (sedere) separatamente (dis). Fu usata per designare i protestanti polacchi nella Pax Dissidentium firmata a Varsavia nel 1573 quando il re Henry de Valois si impegnò a rispettare la libertà di culto e di opinione politica. Il dissidente, quindi, non è lo scismatico, uno che se ne va, che abbandona o che si separa. È uno che crea una distanza senza distaccarsi per evidenziare le sue “superstizioni” e la sua differenza.

La differenza, in sé, non è un valore, è una condizione. Può essere una condizione di inferiorità una fase che prelude all’integrazione, oppure una segregazione scelta o patita. Diventa feconda quando diventa inquietante. Normalmente i corpi estranei, coloro che qualifichiamo come “differenti”, generano indifferenza, vengono rimossi ai margini della nostra mente e della nostra società. Oppure vengono sentiti come minacciosi e generano ostilità. In seguito, quando non fanno più paura, quando sono non solo stranieri ed estranei, ma vinti, diventano museo e spettacolo ed acquistano il fascino dell’esotico.

Il teatro è fuori da questa logica. Può essere una differenza vezzeggiata, sovvenzionata o anche soltanto tollerata. Può essere una differenza che si accontenta di sé. Oppure può divenire la pratica di una dissidenza che riesce ad affascinare, a farsi rispettare, ed a mostrarsi irriducibile. È inquietante perché non si adegua alle regole della lotta. Lottare con essa sarebbe come lottare con un’ombra che più l’afferri più ti sfugge di mano.

La lotta prevede che vi sia un vincitore e un vinto, oppure – come terza precaria possibilità – una tregua. Ma alla fine, la lotta tende ad eliminare il problema e la contraddizione, punta al trionfo dell’omogeneità e dell’integrazione. Completamente diverso è il trasmettersi di un’ombra indelebile, la pratica di una “superstizione” che buca la compattezza dello spirito del tempo. In questo caso non si tratta di essere vinti o vincitori. Si tratta di preservare una presenza che non si adegua e che non finisce nelle sabbie mobili dell’indifferenza circostante. La differenza inquietante vince non quando riesce a prevalere, ma se riesce a resistere con la propria presenza e a salvaguardare la capacità di trasmettere
al futuro il segno della propria disappartenenza. Non è possibile non stare in questo mondo. Ma è possibile non appartenergli.

Il teatro è l’esperienza di una diaspora volontaria da quello che conosciamo, dalle certezze e dagli alibi della nostra cultura. A volte, alcune delle nostre opere sono accarezzate dalle nuvole, appaiono belle e vengono applaudite. Ma la loro incandescenza e durata nella memoria delle Piccole Storie e della Grande Storia, sono indissolubilmente legate all’azione anonima, rigorosa e quotidiana di uomini e donne che incarnano il paradossale mestiere dell’ubiquità: prendere posizione in dissidenza verso il mondo che ci circonda per vivere nell’utopia.

Eugenio BARBA: UN GRANELLO DI SABBIA

Il concetto di utopia è strettamente connesso a quello di isola. L’isola non è isolata, sta a sé nel mare, che è il mezzo di comunicazione per eccellenza. L’isola è connessa al mondo circostante, è distante, ma non distaccata.

Ricordiamo i grandi racconti che ci giungono dal passato, i miti dei Giardini. Ogni giardino sereno ha la sua insidia, c’è sempre il veleno di un serpente che si nasconde nell’erba del Paradiso.

Quale serpente si nasconde nell’isola di libertà del teatro?

Quando cominciamo, il nostro sogno più grande è di poter approdare alla terra del mestiere, coltivarne gli alberi della Conoscenza, incontrare in una lotta-abbraccio i suoi spiriti familiari e gli spiriti che la invadono dagli angoli remoti della terra.

Quando cominciamo, teniamo una fiamma tra le mani per illuminare una voce lontana: la nostra vocazione. Con gli anni, le nostre mani stringono cenere, e tutta la nostra energia e il nostro sapere sono tesi nello sforzo di mantenere in vita la poca brace che ancora arde.

Non siamo sbarcati sull’isola della libertà, siamo inghiottiti nelle viscere del mostro.

Il teatro è un mostro che soffoca subdolamente la nostra necessità originaria con la consuetudine, la ripetitività, gli alibi e la grigia fatica. Il teatro diventa semplicemente un lavoro, una dimestichezza con un mestiere che ha perso la sua magia, il suo ethos, i suoi ideali. All’ora di cena ci sediamo a tavola. All’ora di andare a letto, sbadigliamo. Vediamo un albero, e raccogliamo la sua frutta. Il teatro sopravvive e ci fa sopravvivere avvolti in un sano fatalismo di indifferenza e tiepidezza.

Solo la rivolta ci può proteggere, una rivolta contro noi stessi, contro le nostre tentazioni, i nostri piccoli cedimenti e compromessi, contro l’impulso naturale a scegliere le soluzioni conosciute e seguire il cammino meno arduo. Quel che trasforma il mostro in un’isola di libertà è la via del rifiuto, del lavoro anonimo e incorruttibile, ogni giorno, per anni, anni e anni.

Non dobbiamo nutrire aspirazioni ambiziose. Dobbiamo essere consapevoli che dentro le viscere del mostro siamo solo un granello di sabbia.

Dobbiamo essere sabbia, non olio, nella macchina del mondo.

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“Bisogna ammettere nell’attore l’esistenza di una sorta di muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti” (A. Artaud; Il teatro e il suo doppio, pag 242).

 

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