Eugenio BARBA: premio Sonning, Copenaghen 2000
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Eugenio BARBA: premio Sonning, Copenaghen 2000
19 APRILE 2000
Eugenio Barba”…C’era una volta un gruppo di saltimbanchi che abitava nello Jutland occidentale. Viaggiavano per paesini e metropoli, si arrampicavano sull’edificio più alto e attaccavano una fune sul tetto. Gettavano l’altro capo della fune nell’aria e vi camminavano sopra, uno dopo l’altro, concentrandosi per evitare il minimo passo falso che avrebbe compromesso l’equilibrio e la marcia del singolo e dell’intero gruppo. Il loro spettacolo era accolto come una grande impresa artistica. Applausi e riconoscimenti, era veramente avanguardia estrema, sperimentalismo ardito…”
Nell’aprile del 2000 l’Università Copenaghen conferisce il prestigioso premio Sonning ad Eugenio Barba.
Nelle stesse sue parole c’è la condivisone del premio con tutto l’Odin Teatret ed una breve, nostalgica, struggente storia di questo gruppo che ha segnato e segna la storia del teatro dei nostri giorni.
Ringraziamo Eugenio BARBA per il permesso alla pubblicazione
Buona Lettura
Eugenio BARBA: premio Sonning, Copenaghen 2000
19 APRILE 2000
Cari amici,
vorrei cominciare con un sogno. Vi è un uomo legato a un palo, sulla terrazza di un tempio. Tenta di liberarsi. Invano. Si ostina. Sfere di vetro cadono dai suoi occhi e si frantumano al suolo in mille schegge. Due giaguari ritti sulle zampe posteriori, si fanno avanti, danzano sulle schegge di cristallo, e i loro piedi – non zampe di giaguari, ma piedi umani – lasciano scie di sangue sulla terra. Ed ecco che uno dei giaguari conficca una selce acuminata nel cuore del prigioniero. Dal petto squarciato non zampilla sangue, ma un libro che arde, e poi ancora un secondo libro, e un terzo, e tanti altri, decine, centinaia di libri in fiamme che si accumulano in un rogo gigantesco davanti all’uomo legato.
La persona che sta sognando si chiama Kien ed è uno studioso, uno che ama i libri. Nel suo sonno agitato urla al prigioniero: “chiuditi il petto, chiuditi il petto”. La vittima lo sente e in uno sforzo sovrumano strappa i suoi legami, porta le mani alla ferita, la apre ancora di più, e una valanga di libri in fiamme rotolano fuori.
Il dormiente non riesce a sopportare questa vista, salta dentro il proprio sogno, dentro il rogo, per salvare i libri che stanno diventando cenere. Le fiamme lo accecano, centinaia di persone che urlano, che si dimenano e soffrono lo afferrano e gli impediscono di porre i libri in salvo. Si svincola dalle loro mani che lo avvinghiano, li insulta, fugge via dalle fiamme. Quando è al sicuro, vede gli uomini tramutarsi lentamente in libri che si consumano nel fuoco in silenzio, come eroi o martiri.
Kien, l’autore di questo sogno, è il protagonista di un romanzo di Elias Canetti, un ebreo nato in Bulgaria, che studiò in Germania e scrisse in Inghilterra i libri che gli valsero il premio Nobel. È lo stesso Canetti che verso la fine della sua vita affermava che non si abita un paese, ma una lingua. Che rimane, però, di un individuo che ha perso sia il suo paese che la sua lingua? Forse l’essenziale. E che cos’è l’essenziale per noi dell’Odin Teatret, che non possiamo essere identificati in una lingua o in un paese?
Per comodità o per convenzione, i premi vengono spesso conferiti a una persona, quindi legati a un nome. Ma dietro questo nome si cela un microcosmo che palpita, vive ed agisce. La persona e il nome sono la punta dell’iceberg, nascosta rimane la massa compatta, quell’intricata rete di relazioni, collaborazioni, affinità, scambi e tensioni che costituiscono un organismo vivente, che naviga le correnti del tempo, a volte seguendole, a volte rifiutandole, ma sempre in una posizione che lui stesso ha assunto.
È a questo iceberg che è stato dato il premio Sonning. È all’intero Odin Teatret, a questo gruppo di uomini e donne che provengono da diverse nazioni, culture, religioni e lingue che l’Università di Copenaghen conferisce l’onorificenza e i soldi come riconoscimento per il suo operato.
Ma questo iceberg ha pendici più vaste del numero di coloro che hanno fatto o fanno parte dell’Odin Teatret. Comprende anche quei politici di Holstebro che ci accolsero quando eravamo così piccoli da poter passare per la cruna di un ago, quando eravamo giovani ed anonimi, in un periodo in cui esser giovane non era segno di vitalità e potenzialità creativa, ma solo di inesperienza. È all’intero Odin Teatret e ai responsabili della municipalità di Holstebro che lo hanno protetto per ben 35 anni che questo premio prestigioso oggi è assegnato.
L’essenziale affiora sempre attraverso una privazione. All’origine c’è una mancanza o un’esclusione. Per l’Odin Teatret l’esclusione fu doppia. Volevamo fare del teatro, entrare nell’ambiente e nella storia del mestiere teatrale, e non ci fu permesso. Fummo considerati incompetenti, incapaci, inabili a diventare attori o registi. A quel tempo, nel 1964, non esistevano gruppi di teatro o una cultura teatrale alternativa a cui ispirarci o in cui integrarci. Eravamo esclusi. Il teatro era una necessità nostra, nessuno aveva bussato alla nostra porta e ci aveva pregato di diventare artisti di teatro perché il mondo aveva bisogno di noi. Assumemmo le conseguenze di questa situazione: il teatro era necessario solo per noi, e per questo l’avremmo pagato di tasca nostra.
Questa è l’origine dell’Odin Teatret in Norvegia: un minuscolo teatro dilettante che sogna di diventare professionale, appena cinque persone che debbono apprendere, da soli, l’essenziale dell’artigianato teatrale, in solitudine, al di fuori della geografia del teatro allora riconosciuto e riconoscibile.
Appena due anni dopo, questo sparuto gruppetto di persone si trasferisce in Danimarca, accettando l’offerta straordinaria da parte del comune di Holstebro. Era la prima volta che degli “adulti”, addirittura dei politici, ci guardavano negli occhi, conferendo un valore a quello che facevamo. Per la prima volta diventammo consapevoli che avevamo un senso anche per altri.
Trasferendoci a Holstebro subimmo una mutilazione: parlavamo una lingua straniera. Perdemmo la parola, che a quel tempo era il canale di comunicazione essenziale nel teatro. In Norvegia eravamo un gruppo di teatro norvegese, costituito da attori norvegesi, con un autore norvegese, Jens Björneboe, che recitavano per spettatori norvegesi. Ad Holstebro, diventammo un gruppo scandinavo, con attori provenienti dalla Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca con grandi difficoltà a comunicare con i propri spettatori attraverso le parole.
È impossibile comprendere la storia dell’Odin Teatret se non si prendono in considerazione queste due esclusioni: il rifiuto dell’ambiente teatrale e l’amputazione della lingua. Questa situazione di inferiorità e questa mutilazione la trasformammo in onore e fonte di forza. Ancora una volta: dove avremmo potuto apprendere l’essenziale? I viventi non volevano, non potevano. A chi dovevamo rivolgerci?
Il teatro divenne il luogo dove i vivi incontravano i non-vivi. I non-vivi non sono soltanto i morti, ma anche quelli che non sono ancora nati. È a loro che ti devi rivolgere quando il presente non ti prende in considerazione. Allora puoi parlare sicuro con urla e silenzi ai fratelli maggiori che ti hanno preceduto e ai fratelli più giovani che ti seguiranno, a coloro che già esperirono e a coloro che incontreranno le situazioni nelle quali tu stesso ti trovi: derisi dallo spirito del tempo, soli di fronte all’indifferenza della società e al freddo del mestiere.
Le biografie, le opere e i testi dei riformatori del teatro del XX secolo furono i libri ardenti che illuminarono il cammino. Furono le loro fiamme a guidarci verso quel sapere tecnico che è respiro individuale, qualcosa che appartiene solo a te. Così costruimmo i nostri spettacoli, con uno strato di luce e uno di buio, salvaguardando l’essenziale: i dettagli infimi, addirittura invisibili, dove si cela l’abbraccio dei contrari, l’intreccio delle tensioni che permettono alla vita di fluire. Forse i vivi, gli spettatori, non riusciranno a notare questi dettagli, ma i non-vivi, accettano la tua opera e la giudicano per la cura di questi dettagli, per la temperatura personale con la quale alterni gli strati di luce con quelli di buio.
Per raggiungere i non-vivi, quelli che non sono ancora nati, i tuoi spettacoli si devono trasmutare in libri che ardono. Devi scottare la sensibilità dei tuoi spettatori, ferire la loro immaginazione, illuminare le loro ferite intime, spingerli nel panorama muto della loro intimità, in quella parte che vive in esilio dentro di loro. Solo in questo modo l’Odin Teatret può diventare una leggenda che i suoi spettatori trasmetteranno a coloro che non sono ancora nati.
Furono i riformatori del teatro, questi eretici, nichilisti, rivoluzionari o mistici – da Stanislavskij a Grotowski, da Meyerhold a Julian Beck da Artaud a Judith Malina, da Brecht a Copeau, e poi i nostri colleghi latino-americani: Atahualpa del Cioppo, Vicente Revuelta, Augusto Boal, Santiago García, Osvaldo Dragún – furono loro ad indicare come dare il massimo del massimo allo spettatore che viene con un dono straordinario per te e i tuoi attori. Ti regalano due, tre ore della loro vita e si affidano fiduciosi nelle tue mani. Tu devi ricambiare la loro generosità con l’eccellenza, ma anche con un’esigenza: devi metterli al lavoro. Lo spettatore deve essere messo alla prova, deve scalare con tutti i suoi sensi e con tutta la sua esperienza una parete impervia di impulsi e reazioni, di allusioni e significati, deve risolvere in prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge pronto a divorarlo.
Lo spettatore deve essere cullato dai mille sotterfugi dell’intrattenimento, del piacere sensoriale, della qualità artistica, della raffinatezza estetica. Ma l’essenziale risiede nella trasfigurazione della durata effimera dello spettacolo in una scheggia di vita conficcata nel costato dello spettatore e che l’accompagnerà negli anni. Lo spettacolo, come un insetto, si installa nell’intimo dello spettatore, gli rosicchia il metabolismo psichico, mentale, affettivo, si muta in memoria. Le azioni dell’attore devono marcare in modo anonimo, ma reale lo spettatore. Questo marchio è il messaggio che tu trasmetti a coloro che non sono ancora nati. Devi aprire gli occhi dello spettatore con la stessa delicatezza di come quando chiudi gli occhi ad una persona appena morta.
Questo ci bisbigliarono i libri ardenti dei nostri fratelli maggiori, i riformatori del teatro. È essenziale sbarazzarsi delle illusioni, ma non perdere gli ideali, soprattutto quando i riconoscimenti minacciano di seppellirti vivo in un monumento. Non dimenticare che un buon spettacolo non migliora il mondo, e che un cattivo spettacolo lo rende più brutto.
Devi essere una pietra che non rotola con le correnti del tempo, ma resiste a loro. Devi affondare le radici e abbarbicarti. Le correnti cambieranno, a volte ti sommergeranno, sembreranno cancellarti. Ma tu rimani in vita, ben visibile anche per coloro che non avranno l’occasione di vederti in vita. Ma per arrivare a questo, devi far crescere delle radici, ti è necessaria una terra.
El hombre es tierra que anda, dice un proverbio Inca. “L’uomo è terra che cammina”. Questa terra errante è la nostra patria. È costituita dalle azioni di ben precisi uomini e donne. Sono loro la nostra stella polare, l’esempio da emulare, le frontiere da raggiungere. In questa terra fatta di azioni di singoli individui è racchiusa l’essenza muta da trasmettere. Questa terra di individui è sparsa su tutto il pianeta, in molti continenti, in epoche diverse.
Alcune zolle di questa terra sono in Danimarca, hanno nutrito le nostre radici, hanno aiutato l’Odin Teatret a realizzare il suo destino. Prima di tutti, Ole Sarvig e Peter Seeberg, questi eccezionali poeti e romanzieri, che ci incoraggiarono scrivendo delle opere teatrali per un gruppo di teatro sconosciuto. Poi Christian Ludvigsen e Hans Martin Berg che ci guidarono nella nostra ingenuità a portare alla luce quello che ci incalzava dentro. Infine Kaj K. Nielsen e Jens Johansen, il sindaco e il segretario comunale di Holstebro che convincendo un’intera giunta, accolsero l’Odin Teatret senza esigere che ci integrassimo nel piccolo giardino danese. Non domandarono di vedere immediatamente i frutti del nostro lavoro. Lasciarono che uno strano arbusto crescesse secondo il proprio ritmo, seguendo altre stagioni, con i suoi rami selvaggi. E così permisero che l’Odin diventasse una fertile parte di quella molteplicità, diversità ed estraneità che è la nostra cultura contemporanea.
La nostra origine è stata l’ombra, ed è nell’ombra che preferiamo vivere. È nell’anonimo lavoro quotidiano che incontriamo la sfida sempre uguale che mette alla prova l’intensità e la credibilità delle nostre motivazioni. Siamo venuti dal buio e augurateci che quando scompariremo nel buio il nostro ultimo sogno sia come il primo, quello che avevamo da giovani: essere come i nomadi San del deserto Kalahari che si muovono in direzione dei lampi, perché dove c’è tempesta, c’è acqua, vegetazione, vita.
Sono orgoglioso, insieme all’intero Odin Teatret, per questo prestigioso premio Sonning. Però ci è impossibile accettarne i soldi. Il denaro viaggerà altrove diviso in tre parti. La prima è destinata a Holstebro Folkegave, un’iniziativa di associazioni e singoli cittadini di Holstebro per costruire una casa per giovani a Tirana in Albania. La seconda parte attraversa il mare e va a Cuba, alla rivista di teatro “Conjunto” che per 35 anni ha testimoniato la lotta del teatro dell’intero continente latino americano contro la violenza e il sopruso. La terza parte va al nipote di Antigone, il pastore danese Leif Borch Hansen che ha seguito l’impulso della sua coscienza e nascosto dei profughi che la polizia danese doveva rinviare. Non rispettando così le leggi dello stato, esattamente come fecero alcuni danesi dopo il 9 aprile 1940, quando il governo danese chiese ai suoi cittadini di collaborare con gli occupanti tedeschi.
C’era una volta un gruppo di saltimbanchi che abitava nello Jutland occidentale. Viaggiavano per paesini e metropoli, si arrampicavano sull’edificio più alto e attaccavano una fune sul tetto. Gettavano l’altro capo della fune nell’aria e vi camminavano sopra, uno dopo l’altro, concentrandosi per evitare il minimo passo falso che avrebbe compromesso l’equilibrio e la marcia del singolo e dell’intero gruppo. Il loro spettacolo era accolto come una grande impresa artistica. Applausi e riconoscimenti, era veramente avanguardia estrema, sperimentalismo ardito.
Gli anni passarono e i saltimbanchi facevano sempre lo stesso. Non cambiavano, non si adattavano ai tempi, usavano una fune per avvicinarsi al cielo, ignorando le ultime novità tecnologiche: gli elicotteri, gli aerei a reazione, i missili. Non si rinnovavano. I saltimbanchi sembravano sordi a ogni commento e consiglio, si ostinavano a visitare gli stessi posti, a rincontrare i loro vecchi spettatori che col tempo diventavano sempre di meno, e a sorridere ai giovani che non avevano mai visto uno spettacolo del genere: attaccare una fune ad un tetto, gettarla verso il cielo e danzarci sopra. Un giorno scomparvero nel vuoto. La loro fune ondeggiava in un cielo greve di nuvole nere, lampi e tempesta. Le ceneri di un libro bruciato caddero giù, solo una pagina si era salvata. Vi era scritto: “Quello che devi fare, devi farlo, e non porre domande, non porre domande”.