E. BARBA: lettera aperta ad Antonio di Muzio, 2004

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1300 iscritti / anno III,  n ° 17 / dicembre 2004


Eugenio BarbaE. BARBA: lettera aperta ad Antonio Di Muzio,

l’Aquila maggio 2004 – (, pubblicata su “Diapason”, giugno 2004)

Presentiamo questa recentissima lettera aperta di Eugenio Barba ad Antonio di Muzio in occasione delle giornate di studio e lavoro pratico a l’Aquila nel maggio 2004.

E’ un Eugenio Barba colloquiale e quasi familiare quello che ci parla dei suoi amici, dei collaboratori, degli studenti, dello spettacolo messo in scena per l’occasione, del rapporto con le città, e in queste poche righe sembra trasferirci tutta l’intensità emotiva e  la profondità artistica di quei giorni.

Ringraziamo la Prof.ssa Mirella Schino per il permesso alla pubblicazione della lettera dal sito www.univaq.it/culturateatrale

Buona Lettura



Eugenio BARBA

Dopo l’incontro all’Aquila su «I teatri e le loro città»

(lettera aperta ad Antonio Di Muzio, pubblicata su “Diapason”, giugno 2004)

Antonio di Muzio

Caro Antonio,

mi hai chiesto le mie reazioni dopo l’ultima visita all’Aquila, le impressioni sulla città. La tua domanda prendeva spunto dal tema delle tre giornate di studio e di lavoro pratico che l’Odin Teatret e il Teatro Tascabile di Bergamo hanno condotto il 18,19 e 20 maggio nell’ambito d’un progetto culturale europeo. Il tema infatti era: I teatri e le loro città. Ma non ti parlerò dell’Aquila in generale, dopo tante visite che vi ho fatto. L’Aquila per me sono le persone che vi incontro ogni volta che vengo con il mio teatro, dalle quali sono a volte raggiunto qua e là per l’Italia o in Danimarca. È Mirella Schino e gli studenti che sotto la sua guida hanno lavorato un anno e più per comporre un libro che m’impegnò moralmente a pubblicare le conferenze che avevo tenuto nella loro università, e che pensavo fossero discorsi confidenziali affidati al vento. L’Aquila, per me, è Giancarlo Gentilucci, con il quale ho lavorato in un corso su Beckett, competente, riservato, generoso. Sono i giovani della Casa del Teatro che ci hanno ospitato nel maggio scorso. E naturalmente è Nando Taviani, con il quale collaboro da trent’anni. Le città, per belle che possano sembrare, non hanno un’anima. Hanno persone, alcune indifferenti ed amorfe. Altre gonfie del loro ruolo. O perse nelle illusioni del campanilismo. Ed altre ancora con fame e sete spirituali. Per cercare ed incontrare queste ultime il teatro fa le sue irruzioni.

Alle idee ottimistiche sulle città non credo.

La luna osserva e scavalca le grandi città che ardono sotto di lei, metropoli europee a dell’Asia Minore, da Hiroshima a Halle, dalla Cina imperiale all’Alabama, da Sarajevo a Baghdad. La voce della luna è beffarda o attonita, indifferente o dolorosa, fredda o incandescente. La sua misericordia ignora melanconia e consolazione. Così, i miei attori ed io abbiamo costruito, nello spirito di Bertolt Brecht, lo spettacoloconcerto Le grandi città sotto la luna. L’abbiamo presentato all’Aquila, pensando che si adattasse bene al tema dei teatri e delle loro città.

Non credo che abbia senso porsi in termini generali il problema del rapporto con la città. Le città sono multiple. Sono fatte a strati. Incarnano l’urbanistica del potere o l’idolatria monumentale e solenne. Ma sono anche cunicoli sotterranei dai quali il popolo nascosto può affiorare per un attimo e subito scomparire. Oppure si presentano come un nodo di linee di confine fra territori diversi, linee d’incontri e conflitti. Ma soprattutto, una città si identifica con qualcosa di molto personale: alcuni volti conosciuti, dei quali ci si può fidare, con i quali è un privilegio incontrarsi.

L’incontro dell’Aquila era sotto l’egida della Comunità Europea, in collaborazione con l’Università, assieme all’Accademia delle Forme Sceniche di Bergamo. Radunava 16 artisti, 6 docenti di differenti università italiane, circa 150 studenti. Aveva un aspetto ufficiale e prestigioso. Si è svolto in locali umili, messi a nostra disposizione da La Casa del Teatro, che a sua volta è ospitata dall’Istituto Salesiano. Erano spazi scomodi, resi confortevoli dalla cura e dalla dedizione di un gruppo di volontari, che dimostravano coi fatti cosa voglia dire considerare il teatro come un valore. Stretti in quegli spazi rustici, abbiamo lavorato per 8 o 9 ore al giorno, per tre giorni intensi. Tre giorni di festa. Perché questa è la festa: imbandire il meglio.

Negli anni scorsi, venendo all’Aquila, siamo stati spesso ospitati in spazi più confortevoli, mai, però, con altrettanta dedizione e altrettanto calore. È questo il teatro che mi piace, quello che dipende tutto dalle mani di coloro che lo amano, e per il quale sacrificano quel che hanno di più caro: il proprio tempo. È il teatro privo di padroni o amministratori. Abbiamo la coscienza d’aver lavorato bene. Ciascuno di noi sa d’aver avuto la fortuna d’attraversare un crocevia importante, d’aver fatto esperienze difficili da dimenticare. E sa anche che al di là del recinto che ci proteggeva, di questa profusione di novità non si sa quasi nulla. L’Aquila è stata, per tre giorni, per noi, grande quanto una piccola tenda accampata in una sala a ridosso del cinematografo, con panche per gli spettatori e un pavimento freddo per gli attori. Uno spazio povero in cui nessuno di noi si sentiva isolato. Dove potevamo sentirci privilegiati.

Eugenio Barba

Holstebro, 25 maggio 2004

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