IBSEN Henrik

Henrik IBSENHenrik Ibsen

(Skien, Norvegia 1828 – Oslo 1906)

Henrik IBSEN è autore del Peer Gynt, Spettri, Casa di Bambola, Brand 

IN QUESTA PAGINA: Nota Biografica  –  Bibliografia  –  Casa di Bambola: una recensione di Antonio Gramsci  –  Peer Gynt


IBSEN: NOTA BIOGRAFICA
Henrik IbsenIbsen nasce a  Skien [Norvegia] nel 1828,

figlio di un commerciante benestante, si trovò di colpo coinvolto nel fallimento paterno e a 16 anni lasciò gli studi per lavorare in una farmacia a Grimstad.

Ibsen Cominciò a scrivere per il teatro e nel 1851 divenne direttore del teatro nazionale di Bergen, acquistando una preziosa familiarità con il palcoscenico.

Nel 1864, dopo il fallimento del teatro di Bergen, Ibsen visitò l’Italia. Fu un periodo di cupo isolamento che servì a maturarlo. L’insuccesso del “Peer Gynt” (1867) lo portò a una nuova grave crisi: in una lettera scrisse di voler diventare fotografo. Si trasferisce nel 1868 a Dresda. Esplode la sua fama di autore teatrale. Nel 1895 fece ritorno a Cristiania. Morì a Oslo nel 1906.

Opere giovanili

A vent’anni scrisse il suo primo dramma, Catilina (1848), di impronta schilleriana e ricco di spunti metafisici e immoralistici. Nel 1850, con lo pseudonimo di Bryniolf Byarne, riuscì a far rappresentare Il tumulo del guerriero, che dà inizio alla serie di testi riguardanti il passato mitico e storico della Scandinavia. Dal 1851 direttore del teatro nazionale di Bergen, rappresentò una serie di drammi: Donna Inger di Olstraat (1855), Una festa a Solhang (1856), Olaf Liljekrans (1857), I condottieri a Helgeland(1858).

Verso la maturazione

Il romanticismo iniziale di Ibsen cedette il posto a una sempre maggiore precisione psicologica e storica: La commedia dell’amore (1862), I pretendenti al trono (1863) sono le tappe della sua maturazione. Cominciava a caratterizzarsi il “personaggio ibseniano”, che si dibatte nella rete delle proprie contraddizioni, poiché i peggiori nemici della propria grandezza risiedono dentro di lui. L’esperienza del teatro di Bergen si chiuse nel 1864 con il fallimento di quel teatro. Si aprì una nuova stagione per Ibsen.

Nella basilica di San Pietro a Roma concepì il dramma Brand (1866), opera dialogata in versi: il protagonista è un sacerdote che conduce alla rovina la sua famiglia per un eccesso di rigore morale. Ibsen evidenzia qui in forma tragica quel «cercatore dell’assoluto» che, con molte varianti, proporrà poi in tutta la sua opera. In Cesare e Galileo (1864-1873) tenta il grandioso affresco della civiltà classica, nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo.

Nel 1867 pubblica Peer Gynt, dramma in cinque atti. E’ fantasia su temi popolari norvegesi, da cui Ibsen sperava il riconoscimento come poeta nazionale, ma che gli procurò l’ostilità e l’irrisione dei compatrioti, che rifiutarono di identificarsi con il carattere immaturo del protagonista pigro e fannullone. Peer Gynt è un giovanotto spaccone che passa da una avventura all’altra. Peer non si cura delle virtù quotidiane e dei semplici doni della vita, segue solo l’imperativo «sii te stesso». Questa ambigua aspirazione lo porta a vivere in un mondo dove la fantasia e la realtà finiscono per confondersi: Peer per molti anni sembra solo illudere sé stesso e gli altri. Solo la madre Aase, figura dominante della sua vita, riesce a seguirlo nel suo mondo fantasioso. Gli episodi principali del dramma tracciano un quadro simbolico dell’esistenza di Peer: Peer che, adulto, gioca con la ma dre come un bambino; Peer che rapisce Ingrid alla vigilia delle nozze e l’abbandona subito; Peer che fugge dal villaggio natìo e si imbatte nella figlia del Vecchio di Dovre, il re dei troll (o trold) cioè gli spiriti delle foreste. La principessa vuole sposare Peer e lo porta nel mondo dei troll dove Peer, allettato dal potere dagli onori e dalle ricchezze, sta per accettare di diventare un troll. Ma ci ripensa, riesce a fuggire. La madre muore tra le sue braccia, e Peer inizia a vagabondare per tutta la terra, rifiutando anche l’amore sincero che gli offre la dolce Solvejg. I suoi viaggi lo portano nei paesi più lontani, affronta le più diverse esperienze, incontra personaggi misteriosi e dal significato simbolico, come «il fonditore di bottoni» (cioè il moralista che lo condanna). Alla fine Peer ritorna in patria, giunto all’ultima parte della sua vita. Il Vecchio di Dovre gli dice che ha vissuto da troll, non da essere umano. Peer ha un rifugio: Solvejg ormai vecchia, lo ama ancora e lo ha sempre atteso, fedele. Accanto a lei, che lo culla teneramente e gli canta una dolcissima nenia, Peer muore sereno.

Con La lega dei giovani (1869) mostra l’adesione allo scienti smo positivista, in un periodo in cui di dedica alla critica del la minuta realtà della vita quotidiana. E’ una fase di transizio ne che lo porterà a una nuova fase produttiva.

Il naturalismo

Preannunciato da I pilastri della società (1877), Ibsen esplose nel 1879 con i tre atti di

IBSEN: Casa di bambola.

Protagonista del dramma è Nora Helmer. Lei, in passato, per permettere al marito, l’avvocato Helmer, di compiere un costoso viaggio di cura in Ita lia, ha contratto segretamente un prestito con Krogstad, falsificando la firma del padre morto qualche giorno prima. Per anni ha lavorato per pagare il debito senza riuscire a liberarsene, e senza mai dire nulla al marito. Ogni cosa sembra potersi appiana re con la promozione del marito a direttore di banca. Ma nella stessa banca è impiegato Krogstad, che ricatta Nora per ottenere una promozione. Il marito, che vorrebbe licenziarlo per altri motivi, viene a sapere tutto. Il rigoroso e assennato Helmer si preoccupa solo del suo buon nome, e rimprovera aspramente la mo glie accusandola di aver intaccato la sua figura di uomo integer rimo con l’ombra di uno scandalo. Nora reagisce con indifferenza. Krogstad rinuncia al ricatto, ma questo non serve per riavvicina re i due. La meschinità del marito convince Nora a allontanarsi definitivamente, abbandonando anche i figli, dopo un duetto con il marito che divenne nel XX secolo una delle scene più celebri del teatro internazionale.

Questo dramma fece di lui, da uno scrittore appartenente a una letteratura periferica e noto solo a pochi specialisti, una figura centrale del teatro europeo. Con il personaggio di Nora siamo a un momento aurorale del femminismo: vivere secondo una nuova autonomia è la necessità che le si impone, dal momento in cui ha verificato di non essere per il marito, e per il mondo, che una futile e graziosa bambola.

Da questo momento Ibsen fornì al teatro una serie di opere importantissime. Spettri (1881) tre atti sul tema dell’ereditarietà. All’inaugurazione di un asilo fatto costruire da Elena Alving in onore del marito, intervengono il figlio Osvaldo reduce da Parigi, e il pastore Manders, amato da Elena. Le lodi di Osvaldo della vita Parigina scandalizzano il pastore, ma non la madre che ha sempre tenuto nascosto al figlio il proprio amore fallito e la dissolutezza del padre. Osvaldo è minato da una malattia trasmes sagli dal padre, e teme di diventare pazzo. Potrebbe salvarlo l’amore di Regina, ma la madre non può nascondere che Regina è sorella di Osvaldo. Regina abbandona la casa, mentre la madre che pure ha promesso di dare al figlio il veleno liberatore, inorridita e impotente assiste al manifestarsi della pazzia di Osvaldo.


IBSEN: L’anatra selvatica

(1884)

opera complessa e originale, sui falsi miraggi senza cui l’uomo comune è incapace di resistere al la pressione dell’ambiente e dei condizionamenti sociali. Protagonista di questo dramma in cinque atti è Hjalmar Ekdal, che vive poveramente in una soffitta con la moglie Gina, la figlia Edvige e il vecchio padre. Gregorio Werle figlio del vecchio amante di Gina, rivela a Hjalmar la vera causa degli aiuti di cui si giova, sperando così di costringerlo a vivere senza menzogne. Ma Hjalmar non ha la forza di reagire, neppure di fronte alla morte della figlia Edvige, feritasi mortalmente mentre sui tetti stava cer cando di uccidere un’anatra selvatica, per conquistare con un ge sto eloquente l’affetto del padre, che la crede figlia del vecchio Werle.


IBSEN: Casa Rosmer

(1886), dramma degli intellettuali progressisti che non riescono a conciliare la luce dell’intelligenza con le buie, sotterranee ragioni dell’istinto.


IBSEN: La donna del mare

(1888), vittoriosa affermazione di una idea della coppia e della famiglia in pieno contrasto con tutte le convenzioni. Protagonista di questo dramma in tre atti è Ellida, seconda moglie del dottor Wangel, che vive con il marito che non ama e le di lui figlie, vicino al mare, dal quale si sente misteriosamente attratta. Anni prima si è legata a un tizio, il Forestiero, scomparso da tempo, e che ora aspetta senza darsi pace. Il Forestiero ricompare per portarla con sé. Il dottor Wangel prima si oppone, poi lascia Ellida libera di decidere. Essere in vestita della libertà di scelta muta l’atteggiamento di Ellida, che rifiuta di seguire l’uomo misterioso. Il Forestiero si allontana, portando via con sé l’irrequietezza della donna.


I tre atti di Hedda Gabler

(1890) sono la grottesca rappresentazione di una superdonna che mette in pratica nel modo più assurdamente borghese il messaggio nietzscheiano, e finisce nel suicidio. Hedda sposa Jörgen Tesman, un mediocre individuo di cui si stanca ben presto. La ricomparsa di un antico amore, lo scrit tore Eylert Lövborg, acuisce la sua insoddisfazione, tanto più che Eylert, sorretto dall’amore di Thea, è ora diverso dal personaggio debole e inconcludente che conosceva prima. Durante una cena, Eylert ubriaco perde il manoscritto di un’opera di cui Thea è la madrina spirituale. Hedda lo ritrova, ma non lo restituisce: lo brucia. A Eylert offre una pistola affinché, uccidendosi, ri pari all’offesa recata a Thea. Eylert muore, ma in casa di una prostituta. Un corteggiatore di Hedda, Brack, riconosciuta la pistola, ricatta Hedda. Per evitare lo scandalo e non subìre l’in sopportabile ricatto di Brack, Hedda si uccide.


IBSEN: Il costruttore Solness

(1892), opera densa di simboli, in cui le ultime tracce del naturalismo si vanno a perdere, mentre si avverte la consapevolezza del lavoro di grandi contemporanei come Cechov, Strindberg, Maeterlinck.


IBSEN: Il piccolo Eyolf

(1894) è una storia sommessa e disperata del lento passaggio dall’amore coniugale e materno a una missione umanitaria di riscatto, in un ambiente nebbioso, dove le figure si muovono come stordite tra gli echi della natura.


IBSEN: Ultime opere

Le ultime opere furono scritte da Ibsen a Cristiania. John Gabriel Borkmann (1896) è una rappresentazione della vecchiaia, e un presagio di morte. Quando noi morti ci destiamo (1899) sembra esprimere, agli albori del nuovo secolo, il definitivo tramonto del XIX secolo borghese.

Da http://www.girodivite.it/antenati/xixsec/_ibsen.htm   che ringraziamo per il permesso alla pubblicazione



 

Henrik Ibsen bibliografia 

– Catilina (1848)

– Il tumulo del guerriero (1850)

– Donna Inger di Olstraat (1855)

– Una festa a Solhang (1856)

– Olaf Liljekrans (1857)

– I condottieri a Helgeland (1858)

– La commedia dell’amore (1862)

– I pretendenti al trono (1863)

– Brand (1866)

– Cesare e Galileo (1864-1873)

– Peer Gynt (1867)

– La lega dei giovani (1869)

– I pilastri della società (1877)

– Casa di bambola (1879)

– Spettri (1881)

-L’anitra selvatica (1884)

– Casa Rosmer (1886)

– La donna del mare (1888)

– Hedda Gabler (1890)

– Il costruttore Solness (1892)

– Il piccolo Eyolf (1894)

– John Gabriel Borkmann (1896)

– Quando noi morti ci destiamo (1899)



 

Henrik Ibsen

Pubblichiamo una recensione di Antonio Gramsci che fa luce sulla condizione femminile dell’epoca Giolittiana

Antonio GRAMSCI: Casa di bambola  di Ibsen al Carignano

Emma Gramatica, per la sua serata d’onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola chiamata, più per l’interprete insigne che per la creatura superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri?

Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l’urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le motivazioni da quelle più elementari a quelle più squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l’arte, la forma artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è immorale l’umanità di Enrico Ibsen?

Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale più spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo, fascio di nervi e di muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro – costume, a un’altra tradizione, superiore, più spirituale, meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l’uomo non sono più soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è più solo

istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che ritrovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna, non è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente.

Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non comprende un mondo così fatto. L’unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa cocotte. La pochade è davvero l’unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell’epidermide sensibile.

Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è esaltata l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l’istituto riguarda la donna come persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca neppure superficialmente il costume. Questo non è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto è più stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi i detriti d’umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrifizio benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume.

Antonio Gramsci
(22 marzo 1917)

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