STANISLAVSKIJ: IL MCHAT

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2250 iscritti / anno X,  n ° 55 / gennaio/febbraio 2011


Stanislavski MCHATStanislavskij, il MCHAT

e gli altri maestri della regia nel teatro Russo del novecento

di Giancarlo Chiariglione

Nella Russia del secolo passato, lʼattore e regista teatrale Konstantin Stanislavskij, ideando il primo Sistema dedicato alla recitazione, ha consentito ad altri artisti come Mejercholʼd e Vachtàngov e di riflesso a celebrate istituzioni come l’Actor’s Studio di New York, di mutare a fondo l’esperienza estetico-rappresentativa della cultura occidentale. Come a dire: la vera rivoluzione russa è passata dall’arte.

Ringraziamo Giancarlo Chiariglione per averci inviato il Suo saggio per la pubblicazione.

Buona lettura



 Konstantin Sergeevic STANISLAVSKIJSTANISLAVSKIJ, IL MCHAT

E GLI ALTRI MAESTRI DELLA REGIA NEL TEATRO RUSSO DEL NOVECENTO

1) Una rivoluzione scenico-drammatica nella Russia prerivoluzionaria: il Teatro d’Arte di Mosca

2) Mejercholʼd e il Teatro-Studio

3) Il Primo Studio, Suleržickij, Vachtàngov e il fatidico 1917

4) La genesi di nuovi linguaggi teatrali: il costruttivismo e la biomeccanica di Mejercholʼd, la recitazione emotiva di Vachtàngov

5) Linfa vitale della “fabbrica dei sogni”, nella morsa del “realismo socialista”

1) il Teatro d’Arte di Mosca 

Una rivoluzione scenico-drammatica nella Russia prerivoluzionaria

Forse non molti sono a conoscenza del fatto che le trasformazioni avvenute nel teatro contemporaneo, sono riconducibili soprattutto ad una data e ad un luogo ben precisi. Ci riferiamo cioè al 21 giugno del 1897 e al rinomato albergo moscovita Slavjanskij Bazar in cui l’attore, regista e teorico teatrale Stanislavskij Konstantin Sergeevič (K. S. Alekseev, 1863-1938) e lo scrittore e docente alla Scuola musicale e drammatica di Mosca Vladimir Ivanovič Nemirovič-Dančenko (1858-1943), dopo un colloquio durato circa diciotto ore, progettarono di realizzare un teatro rinnovato in toto rispetto alla prassi generale. Abolendo ciò che faceva dell’azione scenica rappresentata, una realtà ancora legata alla congerie delle cosiddette pratiche spettacolari “basse”, giullaresche. Conferendo all’arte del reggere le fila di un dramma e del recitare, basi così solide che si sarebbero conservate sino ai giorni nostri. È necessario rammentare che nel decisivo passaggio tra ottocento e novecento, il sistema teatrale russo dispiegava i suoi caratteri soprattutto a San Pietroburgo e a Mosca tramite i teatri imperiali (il cui monopolio venne abolito solo nel 1882), le imprese private, i teatri popolari, le scene di associazioni e circoli, i teatri di “miniature” e gli Studi. Con l’attività degli imperiali Aleksandrinskij Teatr (San Pietroburgo) e Malyj Teatr (Mosca), a trascinare tutta la produzione attraverso la perpetuazione del retaggio delle grandi dinastie attoriali romantiche e realistiche incentrate sulla “pura” indole drammatica del personaggio. Il pubblico, costituito in prevalenza da funzionari dell’amministrazione, jeunesse dorée e notabilato mercantile, accettava ciò che gli veniva proposto, pur essendo perfettamente consapevole del fatto che non glielo si offrisse in modo compiuto; che non tutte le potenzialità dell’arte teatrale venissero esplorate sino in fondo. E fu proprio in un contesto così insensibile alle innovazioni, che si crearono i presupposti per mettere a frutto una riforma del teatro capace di far rispondere le diverse parti di uno spettacolo (scenografia, recitazione, costumi, luci, musica…) a un principio unitario di coerenza scenica. Un teatro di regia sperimentato sino ad allora con successo quasi solo dalle associazioni culturali e dalle imprese private. Nel Moskovskij Chudožestvennyj Akademiceskij Teatr (MCHAT-Teatro Accademico d’Arte), come venne chiamata la nuova realtà culturale moscovita sorta nel 1898 al posto del fatiscente Ermitage, Nemirovič-Dančenko si sarebbe occupato dell’amministrazione e dell’adattamento dei testi, mentre Stanislavskij, forte anche delle esperienze maturate come attore e regista al Circolo Alekseev (teatro di dilettanti apprezzato dalla buona società di Mosca) e nella Società di Arte e Letteratura fondata insieme al regista Aleksandr F. Fedotov, della messa in scena.

Il Teatro d’Arte si presentò agli esordi con il duplice volto di “teatro naturalista”, che ispirandosi agli insegnamenti della compagnia dei Meininger del duca di Sassonia propugnava l’esatta riproduzione della vita sulla scena¹, e di “teatro d’atmosfera”, il quale trasponendo quella vis riproduttiva sul piano psicologico-ambientale del mondo di Anton Čechov, sviluppò col massimo rigore il principio della “quarta parete”². Tale dualità si materializzò sin dalla stagione d’esordio, rispettivamente con lo Zar Fëdor Ioannovič (Carʼ Fëdor Ioannovič) di Aleksej K. Tolstoj che battezzò l’attività del Teatro d’Arte il 14 ottobre 1898 e con Il Gabbiano (Čajka) di Čechov messo in scena il 17 dicembre 1898. Se difatti nel primo spettacolo, una recitazione priva di allusioni e la cura ossessiva dedicata alla riproduzione di ogni dettaglio si convertivano in una spettacolarità autoreferenziale (soprattutto nelle opere di carattere storico, il teatro naturalista riduceva la scena ad una vera e propria esposizione di personaggi ed oggetti d’epoca, negando allo spettatore la capacità di completare, tramite la fantasia, quanto rimasto inespresso), nel secondo, lo stesso procedimento trasposto dal passato al presente, consentiva un avvicendamento tra i rapporti in sostanza inerti che legavano i personaggi fra loro e una creazione in divenire, davanti agli occhi dello spettatore, di una identità capace di autorappresentarsi ignara del successivo snodo drammaturgico.

La prima linea evolutiva confluì nella creazione di una epicità scenico-drammatica che grazie alle prove registiche di autori come Mejercholʼd, Popov e Tairov, avrebbe convertito in senso modernista e convenzionalista le sopraccitate premesse storiciste ed etnonaturaliste, mentre la seconda consentì nuove possibilità di ibridazione tra testo e scena che mutarono la percezione corrente dell’efficacia rappresentativa di personaggi in situazione entro tutta l’arte teatrale (e poi cinematografica) occidentale. Quest’ultimo processo fu senz’altro favorito dall’approfondito lavoro di analisi e di interpretazione prodotto da Stanislavskij sui personaggi čechoviani. Il trionfo de Il Gabbiano, inaugurò, infatti, l’inizio della proficua collaborazione tra il Teatro d’Arte e il grande scrittore russo3, il quale, pur avendo già pubblicato novelle, racconti di viaggio e romazi brevi, era al suo primo dramma teatrale. Tanto che Le tre sorelle (Tri sestry) del 1901, terzo allestimento dopo lo Zio Vanja (Djada Vanja, 1899) di questo ciclo di produzione integrata dello spettacolo drammatico, rimane tutt’ora un esempio ineguagliato di un livello espressivo autonomo del linguaggio teatrale, in cui i corpi degli attori, gli stimoli percettivi e gli oggetti di scena, si palesavano in una felice unitarietà organica. Pare, anzi, che proprio a partire da questo intenso, armonico ricamo di voci, pause, suoni, rumori, nonché dalla perfetta iterazione fra corpi umani e scenografia, Stanislavskij maturò l’idea di elaborare un «sistema» che permettesse, infine, all’attore di essere sempre e veramente con tutto sé stesso tutt’altro (ovvero il personaggio)4. Materializzare il sogno di poter davvero ideare secondo le modalità e i tempi di una rappresentazione teatrale, una vita dei corpi e delle forme sostanzialmente omogenea a quella dell’esistenza, così da poter influire negli strati profondi di questa attraverso il pubblico. Lo strano binomio Stanislavskij – Čechov5, si interruppe in qualche modo nel 1904, con la messa in scena de Il giardino dei ciliegi (Višnëvyj sad). Quest’opera, appena successiva alla morte del drammaturgo russo, sancì, infatti, la fine del primo ciclo vitale del Teatro d’Arte, il quale, se era stato capace di far rivivere le impalpabili atmosfere di Čechov attraverso un “realismo psicologico” privo di qualsiasi cristallizzazione o irrigidimento, sentì ad un certo punto l’insopprimibile esigenza di ancorare l’anima naturalista e quella d’atmosfera ad un medium stilistico in grado di essere applicato a produzioni più regolari e riconoscibili. Ed in effetti, questo processo che coinvolse le opere di autori come Shakespeare, Hauptmann, Gorʼkij e Ibsen, produsse spettacoli che ebbero un grande impatto su critica e pubblico. Bassifondi (Na dne) di Gorʼkij e Un nemico del popolo (En Folkefiende) di Ibsen, in cui Stanislavskij nei panni del protagonista Dottor Stockmann ottenne la sua massima consacrazione d’attore, in virtù della loro forte carica suggestiva, ebbero un ruolo non secondario nella formazione di quel sentimento rivoluzionario che proprio in quegli anni iniziava a diffondersi con sempre maggior forza nelle capitali.

2) Mejercholʼd e il Teatro-Studio 

Grande impulso all’evoluzione del Teatro d’Arte fu infine apportato dalla letteratura simbolista, la quale, secondo critici come Aleksandr Kugelʼ6, appariva in grado di sconfiggere la monotonia e la superficialità della galleria dei personaggi della scena naturalista, nonché la sterilità degli intrecci e delle soluzioni registiche presenti negli spettacoli negletti e refrattari a qualsiasi impegno intellettuale di quegli anni. Stanislavskij, grazie anche al consenso internazionale riscosso da autori simbolisti come Maurice Maeterlinck (1862-1918), Arthur Schnitzler (1862-1931), Frank Wedekind (1864-1918), Paul Claudel (1868-1955), Edmond Rostand (1868-1918) e Hugo von Hofmannsthal (1874-1929), decise di far nascere nel 1905 il Teatro-Studio, filiale e laboratorio del MCHAT, al quale sarebbe stato demandato il compito di elaborare nuovi stili di recitazione e inediti metodi di rappresentazione scenica. La direzione della nuova realtà culturale venne affidata a Vsevolod Emilʼevič Mejercholʼd (1874-1940), il quale, dopo varie esperienze dilettantistiche e dopo aver conseguito il diploma alla scuola d’arte drammatica della Società Filarmonica in cui insegnava Nemirovič-Dančenko, entrò a far parte del Teatro d’Arte nel 1898, uscendone quattro anni dopo sia a causa dei crescenti contrasti con Stanislavskij, sia per un progressivo calo di interesse nei confronti della messinscena naturalista.

Sin dalle prime sessioni di lavoro, Mejercholʼd seppe profittare dell’ampia libertà concessagli e di una buona disponibilità di fondi e materia prima (attori, scenografi e musicisti), per acquisire tecniche sperimentali in grado di conquistare all’arte scenica territori espressivi sino ad allora inesplorati: non solo furono abolite le prove a tavolino istituite al MCHAT come fase preliminare alla compenetrazione nel testo, ma pure i pittori Nikolaj Sapunov e Sergej Sudejkin, autorevoli esponenti del modern style russo incaricati di risolvere in modo scenografico La morte di Tintagiles di Maeterlinck, decisero di rimpiazzare con dei semplici bozzetti il noto modellino tridimensionale concepito per contrastare le approssimazioni della box scene ottocentesca. Pure il lavoro per la messa in scena del dramma Schluck e Jau di Hauptmann fu soggetto ad un processo di stilizzazione7, dato che, per esempio nel primo atto, il richiamo al “secolo della cipria” si concretizzava nella incredibile dilatazione delle misure della camera da letto, volta a creare in modo satirico l’idea di uno sfarzo senza misura. Stanislavskij, tuttavia, non rimase soddisfatto di questi procedimenti antiillusionistici, di questo convenzionalismo teatrale e come affermò il poeta Valerij Brjusov, addetto alla supervisione del lavoro letterario dello Studio, l’esperimento «sfiorì prima di essere sbocciato»8. Nel senso che, nonostante il discreto successo di La morte di Tintagiles, il Teatro-Studio venne sciolto.

Mejercholʼd dapprima portò avanti le sue ricerche in alcuni teatri di provincia e poi, nell’autunno del 1906, si vide affidare dalla grande attrice russa Vera Fëdorovna Komissarževskaja, la direzione del Dramatičesckij Teatr (Teatro Drammatico) di Pietroburgo, del quale proprio Brjusov era consulente letterario. Qui, il regista ribelle, riuscì a realizzare nel 1906 messinscene simboliste come Hedda Gabler di Ibsen e soprattutto il “dramma lirico” La baracca dei saltimbanchi (Balagančik) dello scrittore simbolista Aleksandr Blok, in cui combinò con abilità la satira corrosiva ed il patetismo struggente dell’opera grazie all’utilizzo di marionette tipiche del popolare spettacolo fieristico del balagan e di attori in carne ed ossa. E se ai critici sono ben noti gli elementi di innovazione9 presenti in fieri in quest’utimo spettacolo, fu il successivo dramma La vita dell’uomo (Žizn’ Čeloveka, 1907) di Leonid N. Andreev, un inquietante itinerario esistenziale denso di simboli e visioni, in modo emblematico messo in scena quasi in contemporanea da Mejercholʼd a Pietroburgo e da Stanislavskij a Mosca, a far capire come il virus convenzional-modernista si fosse ormai propagato nel corpo del teatro russo10. Probabilmente hanno ragione quei critici che sostengono che la colpa più grave del grande Vsevolod, fu soprattutto quella di avere apportato le sue incredibili novità in anticipo sui tempi. Di aver mostrato al mondo la portata rivoluzionaria di un proficuo utilizzo dell’artificialità dell᾿evento teatrale, troppo presto.

3) Il Primo Studio, Suleržickij, Vachtàngov

e il fatidico 1917

Ancora deluso dall’esperienza del Teatro Studio, Stanislavskij ripensò ai reali motivi per cui egli era rimasto suggestionato dal mondo del teatro. E ricordando l’imprinting ricevuto grazie alla madre pianista, il magico e accogliente Bolʾšoj in cui l’intero clan degli Alekseev assisteva rapito ai numeri di giocoleria, alle piroette dei ballerini, agli spettacoli delle marionette tra l’intenso odore di acetilene delle lampade per l’illuminazione che si spandeva ovunque, iniziò a ripensare ai principi su cui aveva edificato la sua attività di regista. Soprattutto a come la vitalità dell’attore venisse troppo spesso posposta ai diktat di un regista che, comportandosi non di rado come un Chronegk, tendeva a pianificare qualsiasi cosa in anticipo. Deciso a rinnovare in modo radicale lo spettacolo teatrale, facendo per esempio metabolizzare al MCHAT le rivoluzionarie interpretazioni sceniche proposte dallo Studio allo scopo di sintetizzare un vero e proprio “terzo stile” da affiancare all’anima naturalista e a quella d’atmosfera, il regista moscovita decise di affidarsi al talento dell’amico Leopol’d Antonovič Suleržickij (1872-1916). Noto quasi solo per essere amico di Tolstoj e Gordon Craig, per aver guidato un gruppo di duchobory (la confraternita religiosa perseguitata per la sua opposizione alle armi) sino al Canada, dove fondò con loro una comunità e per aver pagato con l’internamento in manicomio e la deportazione la renitenza al servizio, il poliedrico artista di umili origini, ovunque lavorò, portò sempre una notevole carica di idealismo e di limpidezza spirituale. Stanislavskij dapprima lo utilizzò allo scopo di allacciare accordi artistico-produttivi con celebri poeti e drammaturghi europei, facendo cofirmare allo stesso regista di Zhytomyr la messa in scena dell’ultima opera citata, de L’uccellino azzurro (L’oiseau bleu, 1908) di Maeterlinck e dell’Amleto (Hamlet, 1911) di Gordon Craig e poi, in virtù delle doti sopraccitate, decise di affidargli la mansione di factotum nel Primo Studio del MCHAT. Ricavato da alcuni locali posti sopra un vecchio cineteatro sito nella periferia moscovita, a partire dal 1912 lo Studio, sotto l’illuminata direzione di Stanislavskij e soprattutto animato11 dal genio organizzativo di Suler, intraprese un personale percorso, in cui dopo aver posto in secondo piano le esigenze della messa in scena, ideò su basi rigidamente morali e con l’ausilio di una ferrea disciplina (l’attrice Serafina Birman definì tale realtà culturale «un’assemblea di credenti nella religione di Stanislavskij»), una serie di esercizi sperimentali psicofisici propedeutici all’acquisizione di un idoneo livello di estrinsecazione e controllo delle proprie tecniche espressive. Dal corpus di questi esercizi, di continuo riformulati nel corso degli anni, prese forma quella prassi pedagogico-attoriale di applicazione e valenza universali nota come “Sistema”12.

Fra i giovani che sperimentavano gli innovativi principi che Suleržickij proponeva allo Studio, privilegiando la passione e il lavoro all᾿innato talento artistico, lo spirito collaborativo e la solidarietà umana a qualsiasi estro individuale, troviamo Evgènij Bogratiònovic Vachtàngov (1883-1922). Costui, inizialmente convinto dal suo amato mentore (quando Suler morì nel 1916, Vachtàngov gli si rivolse chiamandolo «maestro incomparabile e generoso») che il teatro poteva rappresentare una sorta di terapia universale per i mali psico-fisici che affliggevano l’uomo del tempo (tale visione fu poi denominata “sulerismo”13), fu infine iniziato ai segreti del “Sistema” che Stanislavskij stava mettendo a punto in quegli anni. Questa duplice influenza si può riscontrare nelle interpretazioni cui Vachtàngov da vita in opere come Festino di pace del 1913, tratta da una pièce del drammaturgo Gerhart J. Hauptmann, Il grillo del focolare del 1914, tratto da un racconto di Dickens, Il diluvio (Potòp) di Henning Berger, allestito nel 1915: drammi che disinteressandosi della forma e dello stile della rappresentazione, proponevano una recitazione emotiva ed originale volta a creare sentimenti autentici e catartici. Vachtàngov, grazie anche alla notevole vocazione pedagogica dimostrata sin dal 1913 (il nostro, pur con una certa intransigenza, aveva guidato con successo un gruppo di studenti profondendosi in mille consigli), venne individuato da Stanislavskij come suo erede naturale e promosso alla direzione del Primo Studio. Queste novità, che pian piano stavano scardinando un sistema caratterizzato da un atavico immobilismo e che attraversarono la Russia delle scene, della letteratura e dei salotti con l’intensità di una perturbazione inarrestabile, sembrarono anticipare o assecondare la vera Rivoluzione. Tanto che ad un certo punto, fu palese che l’instabile terreno socio-politico su cui erano germogliati i più svariati dibattiti e proponimenti artistici, i fulgidi successi e le varie incomprensioni professionali14, stava letteralmente franando: proprio Mejerchol’d che dopo essere stato licenziato nel 1907 dalla Komissarževskaja accettò la direzione dei teatri imperiali pietroburghesi, fu testimone la sera del 25 febbraio 1917 all’Aleksandrinskij Teatr che ospitava la prima della sua opera Un ballo in maschera (Mascharad) dei frenetici movimenti di truppe, staffette ed insorti che stavano dando l’avvio alla seconda, definitiva, rivoluzione russa.

4) La genesi di nuovi linguaggi teatrali:

  • il costruttivismo e la biomeccanica di Mejercholʼd

  • la recitazione emotiva di Vachtàngov

Paradossalmente, in questo immenso, contraddittorio paese che ancora oggi funge da cerniera tra l’Occidente e l’Asia, gli anni della guerra civile produssero una forsennata espansione delle attività culturali, artistiche e teatrali15, in prevalenza sotto il controllo dei Soviet. Soprattutto l’arte scenico-drammatica russa, tra il 1917 e il 1921, assistette ad un ampliamento della sua offerta in virtù delle politiche di alfabetizzazione promosse da questi ultimi; di una riorganizzazione dei grandi teatri del paese16 e della nascita di curiosi fenomeni quali le agitki (copioni di agit-prop), i leggendari “atti di massa” (massovye dejstva), i teatri dell’Armata Rossa e quelli autogestiti (grazie al movimento del samodejatel’nyj teatr). Realtà, queste ultime, in qualche modo tutte legate all’organizzazione del Proletkul’t17.

L’attività teatrale russa di quel periodo assunse poi progressivamente la fisionomia di una battaglia senza tregua tra “accademici” e “sinistristi”. Produzioni come Salomé, messa in scena da Aleksandr Tairov (pseudonimo di Aleksandr Kornblit [1885-1950]) nel 1917 capace di fare della protagonista un simbolo dell’anticonformismo anarchico, Mistero Buffo (Misterija-Buff) che nel 1918 inaugurò il sodalizio tra il famoso poeta futurista Vladimir Majakovskij18 e Mejercholʼd, Il miracolo di Sant᾽Antonio di Vachtàngov (1918), nonchè il monumentale Fuenteovejuna allestito da Mardžanov a Kiev il 1º maggio 1919, furono possibili perché alcune realtà già presenti nel panorama culturale russo, vennero elevate in modo definitivo al rango di istituzioni “accademiche”. Leader dei cosiddetti “sinistristi” era invece proprio Mejercholʼd, il quale, conscio di vivere in un momento storico irripetibile, a partire dal 1913 iniziò a pubblicare saggi come Sul teatro (O teatre) e a costruire un suo personalissimo studio/laboratorio a Pietroburgo. L’adesione al Partito bolscevico nel 1918, gli permise, inoltre, di accedere al ruolo di direttore del Dipartimento Teatrale del Narkompros (Commissariato del Popolo per l’educazione); di aprire il suo Primo Teatro della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (Teatr RSFSR – I); di arrivare a dirigere il mitico Teatro della Rivoluzione (Teatr Revoljucii) e l’eponimo Teatr im. Mejercholʼda e, infine, di partecipare in modo attivo alla gestione delle Officine registiche superiori di Stato (GVYRM) dove, è bene ricordarlo, cominciò il suo percorso formativo il giovane Ejzenštejn.

Quest’intensa attività artistica permise a Mejercholʼd una sperimentazione in pratica ininterrotta che spaziava dai principi del costruttivismo19 («La scena non si orna, si costruisce» ripeteva spesso il nostro), ad una cura maniacale delle modalità della presenza scenica dell’attore atta a scongiurarne l’assimilazione nella veste inerte dello spettacolo, che lo avvicinò sempre più a delle metodologie tecnico-espressive mutuate da ambiti quali quelli della danza, dell’arte circense e della fisiologia. Il naturale approdo di questo avvincente percorso di ricerca fu la creazione della prassi didattico-attoriale della biomeccanica20. In aperta opposizione ai principi del Sistema stanislavskijano, Mejercholʼd esaltava difatti quegli attori come la Bernhardt, la Duse, Grasso, Šaljapin e Coquelin, i quali, approcciando la parte dall’esterno verso l’interno, consentivano un’evoluzione professionale dell’attore, nonché un passaggio da un teatro abbastanza prevedibile ad uno fatto di fantasia e movimento. Vachtàngov, che ammirava in modo sincero Mejercholʼd21, aderì inizialmente ai suoi presupposti programmatici. E per dimostrare la sua avversione verso ogni forma di teatro “non  teatrale”, allestì nel 1918 in modo clandestino (Stanislavskij gli aveva proibito questo genere di sperimentazioni) Le nozze (Svadʼba) di Čechov, in cui nuovi metodi di recitazione e di messinscena si miscelavano in modo armonioso con quella grazia intimista già riscontrata nel coevo, primo Miracle de Saint-Antoine di Maeterlinck.

Proprio a partire dall’opera čechoviana (presentata infine a livello ufficiale nel 1920  al Terzo Studio22), che declinava i diversi nuclei tematici in una chiave grottesca e che si segnalava per l’aspetto esteriore dei personaggi e per la loro recitazione sopra le righe, Vachtàngov si convinse che l’unica strada creativa percorribile conduceva lontano tanto dall’antiteatralità di Stanislavskij, che in nome della realtà psicologica dei personaggi aveva portato il teatro su sentieri impervi, quanto dalla biomeccanica di Mejercholʼd, propugnata spesso da quest’ultimo con i crismi di una fredda, infallibile scienza del corpo. Tendente, in sostanza, a svuotare il lavoro dell’attore di qualsiasi contenuto umano. Dopo aver, infine, posto sotto il proprio controllo anche il Primo Studio, Vachtàngov dimostrò con il dramma di Strindberg Erik XIV (1921), di aver raggiunto un equilibrio tra intransigenti assunti umanistico-idealistici, tecnicismi e virtuosismi e creatività personale: opponendo la recitazione “umana” dei vivi al movimento meccanico, “marionettistico” dei morti, con una scenografia formata da cubi e scale ammassati su una piattaforma tramite dislivelli e scansioni, il geniale regista aveva fatto della rappresentazione una funerea allegoria (dal chiaro vigore espressionistico23), della guerra civile che stava lacerando la Mosca rivoluzionaria. Il folle protagonista, letteralmente assediato da cortigiani untuosi, avidi e necrotizzati era Michail Cechov (1891-1955). Nipote del grande Anton e amico del regista (i due si conobbero durante le prove de Il Gabbiano), Michail, che proprio come Enrico XIV ebbe la sua consacrazione di attore, dopo essere partito dal Primo Studio, divenne uno dei più grandi attori russi24, finchè, nel 1928, quando dirigeva il Secondo Teatro d’Arte moscovita, fu costretto a trasferirsi dapprima in Europa e poi negli USA per sfuggire alle persecuzioni perpetrate da Stalin contro artisti ed intellettuali.

Negli ultimi mesi della sua vita, sofferente per un cancro allo stomaco che sapeva gli avrebbe concesso poco tempo per affermare la sua estetica teatrale, per perfezionare il suo modello recitativo dalla forte valenza emotiva, Vachtàngov diede vita ad opere come Il miracolo di S. Antonio, riedizione della sua precedente versione del 1918, in cui sostituì una confortante mansuaetudine psicologica con una rabbiosa denuncia dei valori borghesi incarnati da personaggi squallidi, arroganti e grotteschi che ostacolavano l’operato del protagonista. A metà tra la lotta politica e la crudeltà artaudiana, il regista, con tale messinscena, ha tracciato un percorso creativo che lo ha condotto a realizzare altre due opere tra il 1921 e il 1922: Dibbuk, in cui il nostro raccontò per il teatro stabile ebraico Habimah25, una storia di possessioni diaboliche, di conversioni ed esorcismi servendosi di attori che in base alla “teoria dei contrasti” già sperimentata in Erik XIV, mostravano specificità caratteriali contrapposte che si esplicitavano visivamente tramite il movimento e la Turandot di Carlo Gozzi, in cui Vachtàngov impiegando diversi stili attorici e scenici (passando cioè con disinvoltura dalla recitazione passionale alle clownerie più scherzose, dall’improvvisazione alla memoria emotiva), ideò uno spettacolo di finzione pura ispirato a quell’utopia della teatralità festante che sarebbe diventata una componente essenziale dell’arte scenica novecentesca.

5) Linfa vitale della “fabbrica dei sogni”, nella morsa del “realismo socialista”

Dopo quella del 1906, nel 1922-1924 il MCHAT intraprese una nuova trionfale tournée in Europa e negli Stati Uniti. La leggenda vuole che appena giunto a New York26, Stanislavskij si sia subito messo ad insegnare ad un manipolo di sbandati che si trovavano in una chiesa posta al centro della città. Tra questi losers, si narra si trovasse l’ebreo polacco Lee Strasberg (1901-1982), che dopo aver a lungo ascoltato il Maestro, trovò il coraggio di domandare «L’attore sul palco prova dei sentimenti reali o sta solo imitando?». Questa basilare interrogazione, oltre che ad innescare un lungo dialogo tra i due personaggi, pare divenne anche l’argilla tramite cui lo stesso Strasberg modellò alcuni tra i più osannati attori della storia del cinema.

In realtà, più prosaicamente, appena dopo la sopraccitata tournée, furono gli attori del Teatro d’Arte Richard Boleslawski e Marija Uspenskaja a porre le solide basi della Rivoluzione americana. Costoro, difatti, fondando l’American Laboratory Theatre, una scuola legata ai principi del “Sistema”, consentirono ai brillanti allievi Harold Clurman, Stella Hadler e appunto Strasberg, di dare vita al Group Theatre27, la prima autentica realtà teatrale d’oltreoceano che utilizzò in modo sistematico l’opera di Stanislavskij. Da tale esperienza nacque nel dopoguerra l’Actor’s Studio di Elia Kazan, che attuando una rielaborazione dei principi stanislavskijani chiamata poi “Metodo”, generò una “grammatica della recitazione” su cui si sarebbero formati attori di livello, nonchè future stelle del cinema d’autore hollywoodiano come Marlon Brando, James Dean, Paul Newman, Marilyn Monroe, Al Pacino e Robert De Niro. Negli anni sessanta, poi, alcuni gruppi d’avanguardia statunitensi come il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, durante le loro tournèe europee, “contaminarono” con alcune tecniche del “Metodo” la pratica delle compagnie della sperimentazione del Sessantotto, contribuendo con i vari Copeau, Artaud, Brecht, Piscator e il “teatro povero” di Jerzy Grotowski, a fornire nuove prospettive stilistico-narrative al teatro europeo.

Al suo rientro in patria, Stanislavskij, dopo aver terminato e dato alle stampe la sua autobiografia, nonché il suo libro più conosciuto La mia vita nell’arte (Moja žizn’v iskusstve), dovette constatare che la politicizzazione e la voglia di indipendenza dei suoi Studi, stavano disgregando quell’universo artistico che egli aveva costruito con tanta fatica28. Inizialmente, si pensò che un possibile argine alla decomposizione in atto, potesse venire dal Commissario del Popolo Lunačarskij, il quale, andando alla ricerca di un terreno di mediazione sul quale “accademici”, “sinistristi” e semplici sperimentatori potessero pianificare le loro opere, lanciò un filone drammaturgico che si ispirava allo slogan «indietro, ad Ostrovskij!». Quest’ultimo, definito da Turgenev lo «Shakespeare della classe mercantile russa», fornì a Mejercholʼd e a Stanislavskij, rispettivamente con le commedie La foresta (Les, 1870) allestita dal primo nel gennaio 1924 e Cuore ardente (Gorjačee serdce, 1868) messa in scena dal secondo nel gennaio 1926, una imagerie comica, del materiale realistico-grottesco capaci di far risaltare le trasformazioni politico-sociali di una Russia in cui dei guitti, cafoni e vagabondi stavano scalzando la vecchia classe nobiliare in declino. Il grande arsenale di caratterizzazioni, la stravaganza delle vesti sceniche, dei tipici oggetti presenti nelle case dei mercanti in ascesa sociale, consacrarono una linea di rinnovamento della commedia classica che intercettò subito il consenso del pubblico e della critica. Ma al di là dell’impegno profuso da personaggi come Lunačarskij, a partire dalla seconda metà degli anni venti, la politicizzazione della vita culturale russa si accentuò in modo brutale: l’aggressiva industrializzazione e la risoluta socializzazione delle terre che seguirono la morte di Lenin (1924), furono, infatti, solo il prologo della imposizione del “realismo socialista” (1934) e quindi di un’autoritaria politica di controllo sulle varie istituzioni, che si tradusse per il teatro nella creazione di una Direzione Centrale dei Teatri (1936) in grado di imbrigliare in maniera ancora più decisa le diverse realtà “accademiche” e di abbattere quasi definitivamente quelle di “avanguardia” e di “sperimentazione”. In questo senso, fu proprio Mejercholʼd che attraverso opere come La cimice (Klop) del 1929 e Il bagno (Banja) del 1930, tratte dalle omonime commedie di Majakovskij, iniziò una lotta senza quartiere contro la soffocante burocratizzazione della società e dell’arte sovietica («il teatro non è uno specchio riflettente, ma una lente d’ingrandimento» scrisse, infatti, il poeta futurista sui cartelloni della prima de Il bagno con la volontà di schernire il naturalismo del MCHAT divenuto un’icona dello stalinismo). Battaglia persa alla grande, dato che mentre tentava di portare a termine le regie incompiute (I lupi e le pecore di Ostrovskij, il Rigoletto e l’Edipo Re) del Maestro, antagonista e, in fondo, sincero amico Konstantin, il grande regista russo fu dapprima espropriato di ogni suo bene, poi messo agli arresti e infine, nel 1940, fucilato29.

Perfettamente consapevole che l’utopia della virtù si stava rovesciando in terrore30, che la “proletarizzazione forzata” delle masse stava azzerando qualsiasi forma di creatività, Stanislavskij, nei suoi ultimi anni di vita, probabilmente anche in virtù dell’infarto che lo aveva colto durante la messinscena del cechoviano Tre sorelle (opera concepita per festeggiare i trent’anni del MCHAT), si dedicò ad un numero sempre minore di spettacoli31, concentrandosi sull’attività di insegnante e di teorico dell’arte teatrale. Aiutato nelle ricerche dall’attrice Maria Petrovna Lilina che, sposata nel 1889, gli rimase fedele per tutta la vita, il regista moscovita continuò a liberare il teatro dagli antichi calchi, da orpelli e virtuosismi inutili, ponendo sempre più spesso al centro dei suoi insegnamenti l’etica («Per entrare in comunione con Shakespeare, Ibsen, Puškin, Gogol e Molière, bisogna strapparsi dall’anima ogni meschinità, invidie, egoismi e superficialità, altrimenti il teatro diventa una “sputacchiera”» amava ripetere). Operò in tal senso al teatro Bol᾽šoj, dove il nostro creò uno Studio atto ad insegnare ai cantanti come muoversi in scena e nel suo ultimo Studio, lo Studio operistico drammatico (Operno dramatičesckaja Studija), orientato alla formazione di registi di prosa e di opera lirica, e inaugurato nel 1936 per celebrare la nomina del medesimo regista moscovita ad artista del popolo dell’URSS.

Anche nella sua suggestiva abitazione, dove allestì un teatrino in grado di ospitare una riduzione dell’Evgenij Onegin di Cajkovskij e dove fece in tempo a redigere il libro Il lavoro dell’attore su stesso (Il lavoro dell’attore sul personaggio, viceversa, non fu mai portato a termine), Stanislavskij accolse fino alla fine dei suoi giorni attori e registi dispensando consigli e ammonimenti. Si spense a Mosca il 7 agosto 1938 e nonostante i burocrati sovietici tentarono da subito di erigere un impenetrabile monumento in cui nascondere la sua arte mutevole ed irrequieta, il suo testamento, come quelli di Mejercholʼd, Vachtàngov, Suleržickij e di tutti gli altri grandi coevi, è sopravvissuto alle ideologie e ai fatti della storia per giungere intatto sino a noi. Testimonianza dell’insopprimibile volontà di far conoscere attraverso l’arte, l’essenza più profonda della condizione umana.

Giancarlo Chiariglione

Note:

¹ Seguendo il principio che sulla scena tutto doveva essere vero (i soffitti, gli stucchi, i caminetti, le carte da parati, gli sfiatatoi ecc…), vennero messe in scena opere come Gli autocrati di Pisemskij, I figli del sole di Gork’ij, I muri di Naidionov e Il vetturale Henschel di Hauptmann.
2 Nel teatro d’atmosfera gli eventi riproducono con verosimiglianza i microconflitti che segnano i rapporti interpersonali della società borghese. In tal senso, lo spazio scenico è lo spazio chiuso e autosufficiente del salotto borghese, nel quale il pubblico osserva la vita reale come attraverso una “quarta parete” a lui traparente, ma opaca per l’attore. Dove, cioè, per pochi istanti, la finzione diventa realtà.
3 Si narra che dopo il disastro del 1896 all’Aleksandrinskij Teatr («La commedia è caduta e ha fatto un fiasco solenne […] Gli attori recitavano in un modo abominevole e sciocco. Di qui la morale: non si devono scrivere commedie» scrisse successivamente l’autore al fratello Michaìl), un Čechov in preda all’isteria per le vie di San Pietroburgo, venne avvicinato da Stanislavskij che gli promise che avrebbe risuscitato il suo Gabbiano, facendolo volare nei cieli che gli erano dovuti. Dopo due anni di duro lavoro che permisero ad attori e sceneggiatori di entrare in modo compiuto nelle suggestive atmosfere čechoviane, il regista e attore russo, ottenne ciò che si era prefissato. Curzia Ferrari (e Gianni Canova), Konstantin Stanislavskij. Un uomo alle basi del teatro moderno.
4 Massimo Lenzi, Il Novecento russo: stili e sistemi in Alonge, GD. Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, Vol. III, Einaudi, Torino, 2001, p.102.
5 Mentre, infatti, il teatro del celebre tragediografo rimase costantemente un teatro di stasi, dato che è l’atmosfera che determina l’azione e il valore dei suoi personaggi (la moglie e attrice Olga Knipper Čechova, affermava che per amare Čechov, bisogna amare la creatura umana «con tutte le sue debolezze e i suoi difetti»), Stanislavskij, si segnalò sin dall’inizio della sua carriera per la sua esigenza di sovvertire schemi e tradizioni allo scopo di porre in evidenza il vero interiore. Sin dai tempi del ginnasio, fu la sperimentazione la vera scienza del grande attore e regista russo (nella sua Autobiografia egli scrive «[…] con uno dei miei fratelli, tornavo dalla scuola nella nostra villa per lo spettacolo. Tenevo sulle ginocchia una scatola di enormi proporzioni. […] Nella scatola vi erano le parrucche e gli arnesi per truccarsi. […] Mi inebriavo sin quasi alla nausea di questo odore di teatro, di attore, di quinte […]»), tanto che egli operò sempre come se si fosse trovato nella baluginante frenesia, nel soave caos della sua casa-studio o dei teatrini Alekseev, alle prese col falso pathos di quei testi concepiti da molte mani, sempre intento a far si che sulla scena i suoi personaggi vivessero «a nervi scoperti».
6 Aleksandr Rafailovič Kugel’ (1864-1928), forse il critico teatrale più noto in Russia all’inizio del novecento, dichiarò dalle pagine della rivista da lui fondata Teatro e arte (Teatr I Iskusstvo) che al teatro sarebbe potuto venire «non poco dalla letteratura simbolista». Tra gli intellettuali era, infatti, diffusa l’idea che tale letteratura potesse anticipare e guidare l’evoluzione teatrale. E se dal principio il “simbolismo teatrale” appariva solo come una possibilità per esprimere una concezione del mondo e dell’arte, in seguito, esso divenne addirittura il luogo per definizione della produzione del senso artistico. Della comprensione tramite l’arte della sostanza del reale. Capace di dare vita ad un’epoca finalmente armonica e non più bisognosa di ricreare un legame con ciò che è divino (come pensava il poeta e drammaturgo Vjačeslav Ivanov), oppure di ristabilire un vitale rapporto tra la realtà e il simbolo artistico (come invece andava affermando il poeta Andrej Belyj).
7 Mejercholʼd intendeva la stilizzazione non tanto come la precisa riproduzione di un avvenimento o dello stile di una data epoca come avviene con la fotografia, quanto piuttosto alla messa in luce, con qualsiasi mezzo espressivo, della sintesi, del simbolo di un dato periodo, allo scopo di rivelarne i tratti più nascosti.
8 Vesy (“La bilancia”), numero di gennaio 1906.
9 Mejercholʼd sperimentò ne La baracca dei saltimbanchi alcune innovazioni che si sarebbero diffuse nel teatro russo del novecento quali «l’assimilazione all’arte scenico-drammatica di tecniche e procedimenti della spettacolarità «bassa», popolare; l’articolazione dello spazio della rappresentazione oltre i limiti del palcoscenico; l’elaborazione di un nuovo alfabeto gestuale dell’attore, improntato ad una semantica comica e/o tragedica di movimenti anti-o a-naturali ispirati ai simulacri meccanici del corpo umano; l’interesse per la civiltà teatrale «esotica» della Commedia dell’Arte; la fondazione di un teatro satirico «di primo grado», ovvero basato non tanto sui contenuti letterari, quanto sulla carica corrosiva delle soluzioni sceniche», Massimo Lenzi, op. cit., p. 104.
10 Mentre, infatti, Mejercholʼd elaborò ancora innovative soluzioni quali la rimozione della scatola scenica di ribalta e soffitta, l’esaltazione di un personaggio narratore e l’utilizzo di riflettori fissi o mobili per mostrare nello spazio buio o in penombra le sezioni drammaturgicamente dinamiche della rappresentazione, Stanislavskij, ottenne proprio grazie al testo di Andreev, un primo, importante successo nell’assimilazione del “nuovo repertorio”.
11 Felice Cappa, Piero Gelli e Marco Mattarozzi (a cura di), Dizionario dello spettacolo del ‘900, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p. 1109.
12 Il metodo di Stanislavskij fu il primo vero sistema che pose delle serie basi per la costruzione della professionalità dell’attore. Quest’ultimo, in quanto persona, per creare o affinare la sua arte, partiva da se stesso e dalla sua creatività. Lavorava per accumulare il più cospicuo numero di esperienze esteriori o interiori che durante la preparazione dello spettacolo, si sarebbero sedimentate lasciando un segno ben riconoscibile. L’attore, in pratica, si avvicinava al personaggio tramite lo studio dei sentimenti di quest’ultimo, cercando la verità mediante il recupero del proprio sentire. Egli dapprima trovava nella sua memoria emotiva i sentimenti in questione (sevendosi pure di azioni fisiche che in lui potevano suscitare tali stati emozionali) e poi, grazie al “magico sé”, un particolare esercizio che lo calava nella situazione voluta, cercava di immedesimarsi nell’altro. Per una disamina esauriente delle varie fasi di questo celebre percorso pedagogico-attoriale, si leggano Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij, a cura di C. Vicentini, Venezia, Marsilio, 1991 e Franco Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Editore Laterza, 2005.
13 Franco Mancini, L’evoluzione dello spazio scenico dal naturalismo al teatro epico, Dedalo, Bari, 1975, p. 149.
14 Dopo aver faticosamente condotto in porto Mozart e Salieri di Puškin, Stanislavskij, durante le riprese de Il villaggio di Stepančikovo e i suoi abitanti di Dostoevskij, approcciò la parte passando dalla fase della semplice riviviscenza a quella in cui era “il corpo vivente” ad indurre l’anima a credere (il regista e attore moscovita si calò nelle “circostanze date” del personaggio e solo a partire dalla risposta alla domanda su come avrebbe agito lui agli stimoli a cui era soggetto quest’ultimo, fece scaturire l’azione). A partire dal gennaio 1916, Stanislavskij lavorò in modo instancabile per la sua parte e per quella del collega Moskvin sino alla fatidica prova generale del 28 marzo 1917, momento in cui, visti gli scarsi risultati palesati, Nemirovič-Dančenko gli tolse la parte e l’affidò ad un altro attore. Questo dissidio non sancì solo la prematura fine della carriera d’attore di Stanislavskij, ma anche la definitiva rottura tra i due soci fondatori del MCHAT.
15 A tal proposito, in un editoriale di un celebre mensile specialistico si arrivò a dire che «durante la rivoluzione più insanguinata e crudele, tutta la Russia stava recitando», Vestink Teatra, n. 23 (1919), p. 3.
16 Alla nazionalizzazione dell’attività dei teatri privati, i Soviet fecero seguire la nascita di realtà quali Il Grande Teatro Drammatico (Bol’šoj Dramatičesckij Teatr) di Pietrogrado voluto da Blok, dal critico, drammaturgo e Primo Commissario del Popolo per l’Educazione del Governo Sovietico Anatolij Lunačarskij e dall’ex attrice del Teatro d’Arte e dirigente del partito bolscevico Marija Andreeva. Quest’istituzione si proponeva di interpretare in modo sobrio ed austero le poetiche di Schiller, Shakespeare, Molière e Lope de Vega.
17 Diretto dal filosofo idealista Bogdanov (espulso dal partito socialdemocratico bolscevico nel 1909 per le sue idee antimarxiste), dal drammaturgo Pletnëv e dal critico Keržencev autore del “manifesto” del movimento con il pamphlet Teatro creativo (Tvorčeskij Teatr) che patrocinava un’arte che fosse capace di unificare spettatori e attori (questi ultimi sganciati da troupes permanenti), per conservare il principio del dilettantismo «nella maggior pienezza possibile», il Proletkul’t, nato tra le rivoluzioni di Febbraio e d’Ottobre, propose negli anni della guerra civile, grazie alla diffusione capillare dei suoi circoli, un indirizzo alternativo alla politica culturale e teatrale del governo.
18 Il Futurismo in Russia si diffuse anche grazie a Majakovskij. I futuristi russi diedero, infatti, vita a due correnti tra di loro in aperta polemica: gli egofuturisti con Severjanin e i cubofuturisti di cui facevano parte Chlébnikov, Burljuk e Majakovskij stesso. Quest’ultimo, fu tra i principali autori del “manifesto” intitolato Schiaffo al gusto corrente (1912) e pur polemizzando a lungo con Marinetti, riconobbe sempre la matrice italiana del movimento. Giacomo Properzj, Breve storia del futurismo, Mursia, Milano, 2009, p. 44.
19 Sorto in Russia intorno al 1913 e sviluppatosi dopo la Rivoluzione del 1917, tale movimento artistico d’avanguardia interessò le arti figurative, la letteratura, la musica e appunto il teatro. I presupposti teorici del costruttivismo erano analoghi a quelli di altri movimenti coevi: in particolare, come il futurismo, anche il sopraccitato movimento rigettava l’arte borghese, inseguendo la possibilità di edificare una nuova arte che coinvolgesse in misura maggiore le masse popolari. In ambito teatrale il costruttivismo «rifiutava qualsiasi valenza illusionistico-descrittiva o decorativa dell’ambientazione scenica, e superava la nozione stessa di scenografia progettando sistemi, più o meno mobili di piani praticabili e strutture, interconnessi sia reciprocamente, che con le nude superfici della scatola scenica […] ne sortiva un aggregato di strette piazzuole, ripide scalette e camminatoi pensili, un’autentica macchina per la recitazione che obbligava di per sé l’attore ad una dinamica corporea totale ed incessante», Massimo Lenzi, op. cit., pp. 118-119.
20 In armonia con i principi generali del costruttivismo, tale prassi prevedeva che il corpo dell’attore dovesse essere dominato e utilizzato in quanto apparato biomeccanico. Ispirati alle teorie di Pavlov, gli esercizi legati alla biomeccanica, si proponevano di alimentare negli attori una “duttilità di riflessi” che li avrebbe portati a tradurre in atti fisici, in giuochi di abilità, i vari sentimenti del personaggio. Mejercholʼd, in tal senso, esaltava pure il Kabuki (teatro giapponese moderno), come un esempio a cui ispirarsi per la ricerca “biomeccanica”.
21 Il 26 marzo 1921, poco prima di morire, Vachtàngov scrisse dal sanatorio in cui si trovava che Mejercholʼd era, a suo giudizio, il più geniale regista di tutti i tempi «Ogni sua messinscena è un nuovo teatro. Ogni sua messinscena potrebbe dar vita ad una nuova corrente. […] Stanislavskij, come regista, è inferiore a Mejercholʼd […] io so che la storia porrà più in alto Mejercholʼd di Stanislavskij, poiché se Stanislavskij ha fatto teatro per due decenni per la società russa (e tra l’altro solo per la borghesia e per l’intelligencija), Mejercholʼd ha fornito le basi per il teatro del futuro. E il futuro gliene renderà merito», Luciano Lucignani, Gli attori si fabbricano, La Repubblica, 21 giugno 1993.
22 Lo Studio Indipendente vachtàngoviano chiamato pure Studio Drammatico Studentesco, venne annesso proprio quell’anno al MCHAT con tale denominazione.
23 Può risultare utile ricordare che la riduzione simbolica e antinaturalistica della scena, la concentrazione ideale e l’accelerazione dinamica ideati dallo scenografo Ignatij Nivinskij per l’Eric XIV, si ricollegano senza dubbio a quei principi espressionistici elaborati per esempio dal regista tedesco Jessner Leopold (1878-1945), nelle varie opere wedekindiane realizzate dallo stesso ad Amburgo (si pensi a Lo spirito della terra [1906], Risveglio di primavera [1907], Re Nicolò [1911] o La marchesa di Keith [1914]) o a messinscene come Kolumbus (1924) e Hamlet (1926) del regista ceko Karel H. Hilar (1885-1935).
24 Grande sperimentatore, Michail Cechov intensificò i classici procedimenti della caratterizzazione fino al limite iperstanislavskijano (teorizzato dallo stesso attore) di una reincarnazione del personaggio, il quale evolve da termine ultimo di una semplice immedesimazione, a prodotto di una evocazione amnestica. Cechov giunse in pratica a teorizzare una paradossale mimesi del corpo (invisibile) che, in qualche misura, si collocava nel solco delle celebri tradizioni metamorfiche tracciato da attori italiani come Adelaide Ristori (1822-1906), Tommaso Salvini (1829-1915) ed Ernesto Rossi (1827-1896). Con gli ultimi due che, in virtù delle loro tournée in terra russa, divennero dei veri e propri modelli per le riflessioni di Stanislavskij & co. sull’arte dell’attore.
25 Fondato proprio a Mosca nel 1917 da Nahum Zemach, il teatro Habimah (“Il Palcoscenico”) fu una delle prime compagnie professionali in ebraico della storia. Tra i suoi artisti più noti, si segnala Hanna Rovina (1892-1980) che divenne la “first lady” del teatro ebraico. Nel 1926, Habimah lasciò in modo definitivo l’Unione Sovietica per stabilirsi, dopo varie peregrinazioni, a Tel Aviv nel 1931. ISRAELE.net, notizie e stampa.
26 La tournée euro-americana del Teatro d’Arte partì il 4 settembre 1922 con meta Parigi, dove per l’occasione il noto attore e regista francese Jacques Copeau pronunciò un solenne discorso in onore degli artisti russi. L’arrivo a New York avvenne nel gennaio 1923. Stanislavskij e i suoi toccarono città americane come Chicago, Filadelfia, Boston e dopo un breve intermezzo europeo, la celebre compagnia tornò di nuovo a New York nel novembre del 1923. Infine, dopo aver incontrato il Presidente Coolidge il 20 marzo 1924, il MCHAT fece il suo rientro a Mosca l’8 agosto 1924.
27 In pieno clima New Deal, lo stato americano finanziò centinaia di compagnie teatrali, consentendo loro di realizzare attività che a differenza di Broadway, non erano per forza legate ad un ritorno economico. Tra queste, il Group Theatre, nato nel 1931 dalle ceneri di iniziative teatrali precedenti come il Theatre Guild (che nel 1929 aveva messo in scena la prima commedia sovietica) si segnalò quasi da subito per una certa originalità d’insegnamento. A fronte di un certo rigore testimoniato dall’utilizzo di un “libro dei protocolli” come quello di Stanislavskij, su cui venivano annotati ritardi, assenze ed infrazioni, Clurman, Hadler e Strasberg facevano compiere innovativi esercizi atti a stimolare l’improvvisazione (calando l’attore in situazioni analoghe a quelle in cui si trovava il personaggio) e la memoria affettiva (facendo rivivere al medesimo attore un avvenimento del proprio passato). Soprattutto, poi, costoro organizzarono la troupe come un vero e proprio collettivo, cercando pure di coinvolgere maggiormente gli autori delle commedie nella preparazione della messinscena teatrale.
28 Soprattutto al Teatro d’Arte-2 (già Primo Studio), dopo la morte di Vachtàngov, la troupe si era divisa in due fazioni totalmente incapaci di concepire programmi efficaci ed in linea con la produzione passata. I rispettivi leader Michail Cechov ed il giovane ed esuberante Aleksei Dikij (1889-1955), infatti, misero in mostra personalità artistiche che rifuggivano dall’esercizio pratico della gestione e della programmazione di realtà culturali così complesse.
29 In quel periodo che è stato indicato con i termini di Terrore, Grande Terrore (Бoлъшой Teppop, Bolʼšoj Terror), o in Russia con quello di Ežovščina (Eжoвщина, era di Ežov), dal nome del capo della NKVD (il Ministero dell’Interno sovietico) durante le Grandi purghe (1936 – 1938), furono molti gli artisti che ebbero in sorte la fine di Mejercholʼd. A cominciare dall’attrice Zinaida Raich, compagna di quest’ultimo, rinvenuta sgozzata nella cucina della loro abitazione. E se per il grande musicista Šostakovič venne “solamente” preparata una bolla che certificava la sua natura di “scompigliatore” della musica, per scrittori “scomodi” come Isaak Babelʾ, autore del noto L’armata a cavallo o per autori un tempo vicini al regime divenuti, forse, inaffidabili come Gorʼkij, si scelse la soluzione più radicale: il primo fu arrestato nel 1938 e giustiziato nel 1940, mentre il secondo morì in circostanze mai chiarite nel ’36.
30 Costanzo Preve, A ottanta anni dalla morte di Lenin (1924-2004) I parte, tratto da Rosso XXI, ottobre 2004.
31 Stanislavskij passò dal successo de I giorni dei Turbin (Dni Turbinych, 1926), del neo collaboratore del MCHAT Michail Bulgakov, alle prove meno convincenti de Le anime morte di Gogol’ del 1932 e di Molière del 1936.

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