M. SCHINO: la nascita della regia teatrale

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1980 iscritti / anno IX,  n ° 54 / novembre/dicembre 2010


Mirella Schino: nascita regia teatraleMirella SCHINO: La nascita della regia teatrale

“La regia nacque come un rinnovamento estetico del teatro. Fu anche, per gli artisti di teatro, lo strumento d’un riscatto sociale e culturale, più tardi persino etico e spirituale. Comportò l’affermarsi di un responsabile unico, di un autore dello spettacolo, e quindi di un mestiere nuovo, quello del regista, senza il quale, in pochi anni, sembrò che la vita teatrale non potesse fare a meno…
….Pochi periodi, nella storia del teatro, sono stati simili agli anni fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Solo di rado in un tempo tanto limitato si trova una simile concentrazione di personalità, di libri, e di spettacoli d’eccezione. In una trentina d’anni e in una geografia limitata all’Europa e alla Russia si è manifestato un cambiamento che si è diffuso con sconcertante rapidità in tutto il mondo…”

Ringraziamo la Prof.ssa Mirella SCHINO per il permesso alla pubblicazione dell’introduzione al testo “La nascita della regia teatrale”, ed. Laterza, Roma 2003

Buona lettura



Teatre vieux colombierMirella SCHINO: La nascita della regia teatrale

Laterza, 2003

 introduzione

  La regia nacque come un rinnovamento estetico del teatro. Fu anche, per gli artisti di teatro, lo strumento d’un riscatto sociale e culturale, più tardi persino etico e spirituale. Comportò l’affermarsi di un responsabile unico, di un autore dello spettacolo, e quindi di un mestiere nuovo, quello del regista, senza il quale, in pochi anni, sembrò che la vita teatrale non potesse fare a meno.
Ma fu anche altro.
Fu creazione di spettacoli che ebbero la consistenza, la molteplicità, l’interna diversità della materia organica. Prima del Novecento, per quanto grandi fossero gli attori in scena, non era mai stato così. Dopo, quando si concluse il periodo della nascita, la regia come modo alternativo di vivere il creato, come invenzione di una nuova materia organica, come sogno materializzato d’una natura differente, di un’anti-natura, cessò, in linea di massima, d’esistere. Rimase la novità della regia come interpretazione critica e invenzione scenica “d’autore” .
Nei primi trent’anni del Novecento, nel periodo della nascita della regia, fare spettacolo significò, invece, prodigarsi per generare grandi nodi di materia vivente, tali da occupare l’intero spazio scenico. Cosa che comportava, tra l’altro, un lavoro lungo e specifico, diverso da quello necessario per una “semplice” creazione artistica.
Quando si parla di materia vivente non bisogna pensare né ai luoghi comuni sul teatro come arte la cui materia è fatta da esseri vivi, e quindi ogni volta diversi, né bisogna pensare agli stereotipi sul teatro specchio della realtà. Parliamo invece d’una vita organica appositamente creata ex-novo. Agli occhi d’un teologo d’altri tempi sarebbe potuta apparire come una forma di ribellione estrema contro l’ordine divino. I critici teatrali la videro spesso come un modo di negare l’ordine della letteratura e insieme come una ribellione all’indipendenza degli attori.
Adolphe Appia, uno dei primi registi, si limitò a parlare di questo nuovo modo di far teatro come della creazione di un’ “opera d’arte vivente”. Intitolò così, con questo non esplicito controsenso, uno dei libri più importanti del teatro del Novecento.
E’ da questo punto di vista, dal concetto d’una nuova organicità del teatro, del teatro come creazione di una anti-natura, che ho cercato di raccontare la nascita della regia. Ho cercato di renderne accessibile la novità anche per chi non conosce da vicino il teatro del Novecento, per chi ignora l’intrico delle problematiche, delle tendenze, delle teorie e dei progetti teatrali di quegli anni. Talvolta questo ha comportato soluzioni un po’ goffe: come il dar sempre conto dei nomi citati, anche quando si tratta di personalità molto note. Ha comportato anche ri-raccontare, sia pure in breve, avvenimenti la cui importanza è generalmente riconosciuta e che quindi sono stati più e più volte raccontati, dalla fondazione del Teatro d’Arte di Mosca alle gesta di Piscator.
Pochi periodi, nella storia del teatro, sono stati simili agli anni fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Solo di rado in un tempo tanto limitato si trova una simile concentrazione di personalità, di libri, e di spettacoli d’eccezione. In una trentina d’anni e in una geografia limitata all’Europa e alla Russia si è manifestato un cambiamento che si è diffuso con sconcertante rapidità in tutto il mondo. I protagonisti di questa stagione ci hanno regalato non solo un teatro nuovo, ma anche una nuova storia del teatro, un modo diverso di intenderne il passato, un diverso modo di porsi domande sui fondamenti della professione scenica. Domande incongrue e fondamentali: in che modo il teatro può collegarsi ai principi che regolano l’universo? Che cosa è, e in quanti modi può essere il corpo umano in scena? Che cosa nasconde la musica? Qual è la musica nascosta nel teatro, e il teatro che la musica nasconde? Erano domande difficili da capire. Lo sono tanto più ora, a distanza di un secolo.
Eppure, siamo i figli di quel periodo. Ancora oggi tutto il nostro teatro discende da ciò che fu la regia in stato nascente. La figura del regista, quella novità stravagante d’inizio secolo, sembra oggi un fatto naturale. In quei pochi casi in cui sul manifesto d’uno spettacolo ci capita di non trovare il nome del regista restiamo meravigliati, come se non trovassimo il nome dell’autore sul frontespizio d’un romanzo. E gli spettacoli, nella difformità senza paragone dei teatri, si nutrono ancora oggi dei pochi principi chiari che si sono definiti con la regia in stato nascente. E, soprattutto, siamo figli di quel che della regia non abbiamo capito. I protagonisti della seconda generazione, quella iniziata con gli anni Quaranta del Novecento, ne erano consapevoli. Ma persino i più giovani rappresentanti della prima ondata – Ejzenstejn o Jacques Copeau – lo sapevano: c’era qualcosa che non era stato trasmesso, che era stato sepolto e bisognava scoprire.
E’ la consapevolezza che anima – lo vedremo tra poco – le domande dei giovani registi italiani del secondo dopoguerra; i dubbi che Jacques Copeau si affannava a mettere sulla carta dopo aver incontrato i “maestri”; le perplessità di Ejzenstejn nei confronti del suo adorato maestro, Mejerchol’d.
Forse è proprio per contrasto, che Appia, Craig, Stanislavskij e Mejerchol’d sono stati tanto spesso chiamati i “padri” o i “padri fondatori” della regia: perché non sono stati padri. Neppure Stanislavskij, che a un padre si sforzò tanto d’assomigliare. In eredità hanno lasciato solo domande, e un pugno di affermazioni perentorie, pugnaci, polemiche, che l’incomprensione ha spesso trasformato in astratte utopie, alle quali si accompagna la confusa percezione dell’esistenza d’un segreto.
La nascita della regia è stato un periodo unico nella storia del teatro anche perché, saltando i figli, ha suscitato imprevedibili nipoti nella seconda metà del Novecento, a partire dagli anni Sessanta e Settanta: il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, l’Odin Teatret di Eugenio Barba, i teatri di Ariane Mnouchkine, di Jurij Ljubimov, di Eimuntas Nekrosius ed anche quelli solo apparentemente più distanti di Peter Brook, di Bob Wilson, di Tadeusz Kantor. Sono solo alcuni dei nomi più noti. Anche loro non sono stati e non sono padri. In qualche caso, si tratta di veri e potenti anti-padri.
Quella degli anni Sessanta e Settanta del Novecento fu un’altra stagione straordinaria, e gli spettacoli dei più grandi fra i suoi registi possono essere letti anche come autonome “riscoperte” di alcuni dei principi che erano stati al fondamento della regia in stato nascente. Però, nel loro caso, viene spontaneo pensare ai recinti alternativi del teatro, e si parla d’ “avanguardia”, di “laboratorio”, di “ricerca” o di “enclave”, mentre la prima stagione della regia non fu “alternativa”, anche se fu, certamente, eccezione. Era il corpo centrale del teatro chiamato a cambiare, nel lavoro dei fondatori della regia, non le sue frange di frontiera. E, a differenza di quel che accadde nella stagione della seconda metà del Novecento, furono i luoghi del corpo centrale quelli che i primi registi occuparono con i loro spettacoli: gli spazi grandissimi, alti, profondi dei palcoscenici “normali”, del teatro all’italiana.
Siamo ora talmente abituati a vedere questi spazi arredati da belle scenografie capaci di incorniciare dignitosamente le figure degli attori, che ci riesce difficile capire davvero quel che fecero i primi registi quando occuparono tutto lo spazio, quando saturarono l’enorme vuoto del teatro all’italiana fino all’orlo, con luci, musiche, suoni, movimenti continui, scenografie paradossali al servizio del corpo trasformato dei nuovi attori. Trasformarono un luogo usuale, rigidamente connotato, in un organismo pulsante.
Quanto detto fin qui può condensarsi in un’avvertenza di due righe: la nascita della regia non coincide del tutto con l’origine di ciò che noi oggi riconosciamo come “regia”. Contiene al suo interno un nocciolo dalla natura sfuggente.
I trenta-quarant’anni del periodo della nascita della regia possono essere raccontati come se si trattasse di un episodio unico, dentro il quale è possibile spostarsi da un atto all’altro, da uno spettacolo a un libro, senza lasciarsi troppo condizionare da esigenze di cronologia. Infatti, la regia nacque da incroci e scambi, da anticipazioni, ritardi ed incontri non sempre coincidenti (da un punto di vista temporale) con quel che gli spettatori vedevano o leggevano. E’ stato un fenomeno variegato, ma paradossalmente unitario.
Il mio punto di partenza sono stati gli studi italiani sul fenomeno. Bisogna prendere sempre in considerazione in primo luogo le proprie radici ed i propri condizionamenti. In Italia, l’esistenza di un filone molto particolare e agguerrito di studiosi interessati alle problematiche generali della regia (1) ha portato ad uno sviluppo degli studi generali sul fenomeno che non conosce né precedenti né rivali in altri paesi, dove ci si è occupati soprattutto (con competenza e abilità talvolta grandissime) delle
singole personalità dei primi registi.(2)

La prospettiva sulla regia che questo libro propone si distingue, anche se non in maniera dissonante, da quella di questo filone di studi, che resta un punto di partenza obbligato, all’interno del quale l’essenza della regia è stata vista di volta in volta in un principio estetico unitario; nella ricerca di un uomo nuovo; nella ricerca di un nuovo valore nel teatro; in una estrema utopia; in una rivolta completa e forse andata a male. Ma oltre che con la ricerca di un’unità di tipo estetico, bisogna fare i conti anche con l’esistenza di una pulsione verso un tipo d’unità tutto diversa, che si potrebbe definire quella propria al vivente, organica. Non è in contraddizione con la prima, ma va indagata con logiche non sempre coincidenti. Dal punto di vista della comprensione del risultato, dello spettacolo, questo punto di vista può fornire diverse utili precisazioni. Ma per quanto riguarda la comprensione dei processi di lavoro – scelte tecniche, sistemi d’orientamento, proporzione fra i tempi dedicati al lavoro degli attori su di sé e i tempi dedicati alla composizione degli spettacoli – è invece decisiva, altrimenti si rischia di considerare bizzarrie eroiche o misteriose quelle che sono invece precise scelte tecniche.

  Questo nuovo punto di vista va indagato partendo in primo luogo dal disagio che la nascita della regia ha prodotto negli artisti immediatamente successivi alla prima stagione. Bisogna partire ancora una volta dalla situazione italiana: ma per voltarle subito le spalle e volgersi all’Europa. L’Italia, infatti, è stata sempre un luogo speciale, per quel che riguarda la regia, proprio per il suo “ritardo”. La prima analisi complessiva del fenomeno è stata fatta proprio in Italia, al Convegno Volta, nell’ottobre del 1934, voluto, anche se non diretto, da Silvio d’Amico (3). Più tardi, si sono sviluppate le fondamentali riflessioni dai primi registi italiani: una categoria molto speciale di artisti-studiosi quali Gerardo Guerrieri o Luigi Squarzina. La particolare competenza italiana deriva però da un paradosso: dal fatto che in Italia il fenomeno della regia si è manifestato tardi, quando in altri paesi il tempo della regia in stato nascente si era ormai concluso. La prospettiva italiana è quindi caratterizzato, in primo luogo, come nostalgia per un’età d’oro mai vissuta, che i giovani registi italiani degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento osservavano con un misto di timorosa distanza e di storica curiosità (4).

A quel crocevia di trionfi e delusioni, di pazzie e di realizzazioni tenaci, di truffe e di sacrifici che è la storia della regia teatrale moderna, indicano la strada a volte più le rinunce che le esperienze insistite, più le pagine del teorico che non l’attivismo del professionista del successo.

  E’ Luigi Squarzina che parla, uno dei giovani registi italiani degli anni Quaranta, uno degli orfani del periodo della regia in stato nascente, formatosi all’Accademia d’Arte Drammatica fondata a Roma da Silvio d’Amico, forse il primo caso d’una scuola di teatro in cui gli allievi venivano selezionati fin dall’inizio in maniera differenziata: gli aspiranti attori da una parte, gli aspiranti registi dall’altra. Luigi Squarzina, nel brano citato, sta introducendo, per l’Italia, l’opera del regista e teorico Harley Granville-Barker (5).

  E’ un bell’inizio: sono le fondamenta di un mito, di una leggenda, di un voluto fraintendimento, di una speranza. Sono parole piene d’enfasi e di qualcosa che si potrebbe chiamare disperazione.

  Bisogna leggerle avendo in mente un uomo di teatro che lotta per cambiare regole e modi di fare che gli stanno stretti, e che percepisce comunque come insopportabilmente vecchi, in un panorama europeo radicalmente trasformato, ormai da quarant’anni. Ma chi scrive è anche un uomo che deve anche lottare contro interpretazioni forse troppo moderate, ordinatrici, della storia e della consistenza professionale della regia, e che vedevano la regia come accurata, critica, intellettuale, intelligente, artistica messinscena di un testo. Squarzina lotta contro due contrapposti fantasmi: un assetto teatrale sopravissuto, e un nuovo assetto forse troppo ordinato, la regia come semplice messinscena colta. Lotta anche contro i fantasmi di quei “maestri” o “fondatori” della regia che gli stanno sul collo, eppure non hanno perso il tempo necessario per farsi capire. Contro Craig e contro Appia, contro Mejerchol’d, tutti registi che hanno voltato le spalle al naturalismo storico dei Meininger ma non si sono sprecati a far capire quale fosse la sostanziale differenza tra i Meininger e Stanislavskij. A volte hanno parlato troppo, e a volte troppo poco.

  Spersi nel buio: questa è la situazione dei figli, degli orfani della regia. Impossibilitati dai loro stessi complessi e dal parziale silenzio dei loro non-padri a farsi le domande più profonde e più crudeli.
“Figli” della regia non furono del resto soltanto i registi venuti alla ribalta dopo la fine degli anni Trenta. Accanto all’esempio particolare di Squarzina possiamo porre quello di Jacques Copeau, che in realtà appartiene in pieno al periodo della nascita della regia, che ha fondato il suo teatro nel 1913, eppure sembra muoversi tra i primi registi un po’ come un estraneo.

In tutto il periodo della nascita della regia c’è una costante: la forza d’una potente calamita che agisce indipendente dalle distanze geografiche, d’ambiente o di formazione. Si incontrano o si cercano Craig e Stanislavskij, Stanislavskij e Copeau, Copeau e Craig, Copeau e Appia, Appia e Craig, Mejerchol’d e Stanislavskij, Mejerchol’d e Craig, Piscator e Mejerchol’d, Granovskij e Reinhardt… Leggono gli uni gli scritti degli altri, subiscono la reciproca influenza, si cercano, discutono, spesso rendono pubblici i loro dialoghi. Gli incontri sono il modo in cui i primi registi si presentano al mondo come un ambiguo fronte unico, paradossalmente unitario, dotato di un immediato senso di riconoscimento. Sembrano incontri tra monarchi, rituali di esibizione, di rispetto, di consanguineità.

  Altre volte, sono incontri difficili.

  Un buon esempio del primo caso è l’incontro, nel 1914, tra Appia e Craig, i due primi teorici di un modo nuovo di fare teatro. Un vero incontro ai vertici, a suo modo addirittura celebre. Appia ha cinquantadue anni, Craig dieci di meno.
Nel 1911, nel corso delle prove per la messinscena del suo Hamlet a Mosca, Craig è venuto a conoscere i disegni di Appia, attraverso il principe Volkonskij. Craig scrive sul suo diario “devo vedere Appia, perché il suo lavoro ed il mio sono uniti strettamente” (6). Lo conobbe due anni dopo. Appia era anche lui un artista del disegno e un progettista dell’architettura scenica, come Craig. A differenza di Craig non aveva esperienza d’attore. Era un musicologo. Progettava nuovissime scenografie, dedicate soprattutto alla messinscena di Wagner. Sono scenografie nude e grandiose, con ampi piani e rigorose scansioni orizzontali. Appia – al momento dell’incontro con Craig – aveva inoltre già scritto due libri di grande importanza sui fondamenti sull’arte della messinscena. Appia e Craig individuavano nella musica e nella danza due fonti segrete d’energia per la palingenesi del teatro.
Le affinità tra il lavoro di Appia e quello di Craig sono fortissime, benché probabilmente casuali: idee e bisogni che rimbalzavano da una persona all’altra. L’atteggiamento normale, in un caso come questo, sarebbe quello di stabilire le priorità, le gerarchie, sarebbe difendere la propria originalità. Ma c’è, in quegli anni, una
straordinaria capacità di riconoscere con grande immediatezza le reciproche affinità, quasi si trattasse di fenomeni oggettivi: c’è somiglianza, sembra dire l’atteggiamento di Craig, o di Appia, perché i punti cardinali del cambiamento devono necessariamente essere questi.
Non è un atteggiamento scontato. Émile Jaques-Dalcroze, per esempio, di cui ci occuperemo più avanti, e che collabora con Appia, non condivideva affatto un simile atteggiamento, o una simile capacità. Dopo aver visto l’Hamlet di Craig al Teatro d’Arte di Mosca si affretta a scrivere ad Appia: “Ho appena visto Hamlet nel teatro di Stanislavskij con i décors di Craig, l’inglese che pretende di rivoluzionare l’arte della scenografia teatrale. C’erano cose bellissime, tutte copiate da voi, al punto che ancora schiumo di rabbia” (7). La mentalità più tradizionalmente teatrale di Jaques-
Dalcroze (interessata a sottolineare chi ha copiato chi) mette in risalto l’immediatezza, e la non usualità, della comprensione che scatta tra i due grandi teorici.
Appia e Craig si incontrarono nel 1914, il 13 febbraio, a Zurigo. Rimasero poi in corrispondenza fino al 1924. Il loro rapporto fu stretto, certamente distante, eppure in un certo senso intimo, benché a quanto pare non avessero avuto neppure una lingua in comune: Craig, infatti, per quanto possa sembrare strano, non parlava francese, e nelle sue diverse collaborazioni con Stanislavskij o con la Duse ebbe sempre bisogno di traduttori.
L’incontro tra Craig e Appia mostra un livello di affinità che, nonostante le difficoltà pratiche, va molto al di là di teorie o gusti in comune. Appia e Craig vedevano qualcosa l’uno nel teatro e nell’arte dell’altro, che intorno a loro non veniva percepito con altrettanta chiarezza. E’, in primo luogo, una questione di occhi.
Molto diverso fu invece il viaggio di Jacques Copeau verso i propri maestri. Quel che manca a Copeau sembra essere stato proprio il senso di una immediata sintonia, di una comprensione profonda. Eppure, anche Copeau è un regista, appartiene alla stessa generazione di Craig o di Appia, condivide il loro universo culturale, ma parte col proposito di incontrare le sue stesse origini, i “padri” della sua arte. E proprio come succede a noi ora, che guardiamo da tanta distanza il periodo della nascita della regia, anche per lui la ricerca dei “padri” porta solo al vuoto.

  Jacques Copeau, nato nel 1879, era un critico importante ed un autore drammatico. Diventò prima regista e poi attore, dopo aver fondato a Parigi, nel 1913, il suo teatro, il Vieux Colombier, che in breve tempo si impose come uno dei punti di riferimento per i nuovi movimenti teatrali. Copeau lo fondò come un tempio della poesia, della parola, e dell’arte dell’attore. Auspicò l’eliminazione dalla scena di tutto quanto fosse possibile considerare superfluo, in modo che gli artifici svanissero, e potesse finalmente apparire un nuovo teatro, tutto nudo. Al fianco del suo teatro, Copeau fondò una scuola: la sua attività pedagogica fu essenziale. In un certo senso fondò il Vieux Colombier a scopi dimostrativi, per mostrare un teatro diverso poteva esistere non solo sulla carta. Per mostrare come quelle teorie, che ormai da una ventina d’anni erano nell’aria, specie negli scritti di Craig o di Appia, potessero diventare spettacolo.
Nel settembre del 1915, la guerra mondiale si rivela più lunga del previsto, parte degli attori sono sotto le armi, Copeau decide di fare un viaggio di studi, e si reca a Firenze a visitare l’Arena Goldoni dove Craig pensava di fondare la propria scuola di teatro.
Prima di partire gli aveva scritto:

E’ l’insieme delle vostre ricerche che vorrei far conoscere al pubblico francese […] Voi sapete forse che ho fondato a Parigi, nell’ottobre del 1913, il Teatro del Vieux Colombier: l’accoglienza che gli è stata fatta mi permette di sperare che un movimento fecondo potrà compiersi in Francia, dove c’è tutto da fare. Non ignoro tutto ciò che avrò da guadagnare nella frequentazione delle vostre idee (8).

  Craig viveva in Italia ormai da qualche anno. Nel ’15 si stava occupando della minuziosa progettazione di una messinscena della Passione secondo Matteo di Bach che si sarebbe dovuta ripetere tutti gli anni, e non sarà mai finita. Nell’Arena Goldoni aveva costruito un model stage su cui sperimentare i suoi screens, la sua scena mobileavveniristica fondata sui principi della scenografia rinascimentale e barocca. Copeau è di soli sette anni più giovane. E’ un innovatore che ha ben chiaro il proprio programma. In un suo scritto sul mestiere del critico aveva detto che il critico è colui che indica agli uomini di teatro ciò che non hanno ancora raggiunto, quello che ancora è sfuggito (9). E’ una persona sicura delle proprie idee, e il suo teatro ha già ottima fama. Tuttavia, è ugualmente evidente che Copeau si è messo in viaggio con uno scopo preciso: scoprire fino in fondo quanto era implicito nel nascere della “regia”, quanto s’intravedeva negli spettacoli, ed era dato per scontato nei libri. Quel che i padri fondatori riconoscevano a prima vista gli uni negli altri, e che lui intravedeva solamente.

  Gli incontri di Copeau saranno un sostanziale fallimento.
Arriva a Firenze il 14 settembre.

Lavato e riposato, benché tra spaesamento e rumore non abbia potuto dormire, vado a pranzo da Craig. Dolorosa tensione dello spirito nel comunicare in una lingua non mia (Craig non dice una parola di francese), con un uomo che non conosco, e che non ha, lo sento, niente in comune con me eccetto un grande amore per il teatro. Ma anche su questo non siamo d’accordo. Alla fine di un’ora di conversazione mi dice: “Well. You have much of literary man. You are not of the theatre”. In effetti, io sono arrivato al teatro dalla letteratura (10).

Copeau resta a Firenze, nei pressi di Craig, per un intero mese. Trascrive, nel suo diario, le impressioni dell’incontro; le difficoltà; le sue perplessità di fronte alle esibizioni di gentilezza da parte di Craig; il suo (di Copeau) istintivo orrore per il progetto monumentale della Passione secondo Matteo a cui Craig sta lavorando; la fatica di parlare di argomenti fondamentali in una lingua non sua. Scrive anche delle sue visite alle prostitute locali (il suo arrivo intempestivo mentre le ragazze dormono, e la maîtresse che le chiama di stanza in stanza con alte grida, invocando la “Santa Madonna”). Mandato da Craig, va a vedere Petrolini (che lui chiama Petrolino), ammira, ma reagisce con perplessità all’entusiasmo di Craig per l’attore (“I consider him terrific”, gli aveva detto) (11). Annota con frasi titubanti il suo stupore per l’apparente eterna giovinezza del regista inglese. Craig gli comunica di non credere nell’attore, e poi gli parla ininterrottamente di Irving e di Salvini, di Ellen Terry, di Grasso, di Petrolini, della Duse… Gli mostra i due specchi da trucco di Salvini e di Irving, che i due grandi attori gli hanno regalato. Mostra inoltre al suo inquieto visitatore il risultato delle sue teorie, il prodotto della sua esperienza, quello su cui si sta concentrando il lavoro solitario di questi ultimi anni: il modellino di un teatro, su cui si muovono gli screens, giocattolo meraviglioso o seme per lo spettacolo futuro, certo segno di un teatro non realizzato:

Gordon Craig -scrive Copeau a Louis Jouvet- mi offre a titolo amichevole il beneficio del suo brevetto francese per i suoi “screens” o schermi o paraventi (E divento il rappresentante delle sue idee in Francia). Inoltre mi ha mostrato un sistema di illuminazione che dà risultati ammirevoli e sembra meravigliosamente semplice e pratico sul modellino. Resta da vedere se lo sarà altrettanto dal vero (12).

E’ un’offerta regale, o generosa, incurante dei diritti di proprietà artistica, ma Copeau è imbarazzato e non sa che farsene. “Sembra interessato solo ad un rinnovamento interno del teatro, tecnico, interamente realizzato da teatranti” (13) , nota. Nota ancora come Craig sia uno specialista della eliminazione, come abbia saputo indicare molto meglio quello che non andava nel teatro, piuttosto che le soluzioni (14). Poi, ripartito da Firenze, va ad incontrare Isadora Duncan e Jaques-Dalcroze, e soprattutto, tramite Dalcroze, va a trovare l’altra persona che in quegli anni veniva considerato un vero punto di riferimento teorico essenziale per la regia in stato nascente, Adolphe Appia. (15) Anche con Appia l’incontro funziona solo fino ad un certo punto, c’è maggiore consonanza da un punto di vista caratteriale, ma c’è di nuovo qualcosa di simile ad un’ incapacità, ad una difficoltà ad entrare veramente in contatto. L’incontro tra Craig e Appia del ’14 era stato caratterizzato da un’immediata sintonia, malgrado la mancanza di lingua comune – malgrado la vaga rivalità che si presupponeva tra loro- una sintonia che si era espressa in confidenze paradossalmente intime, in una comunicazione fatta di gesti e di disegni, intensissima. Copeau parla a lungo con Appia, ma sembra sempre leggermente tagliato fuori rispetto alla coppia Appia-Dalcroze. Sul battello che lo riporta indietro segna qualche appunto delle parole di Appia:

Ora come ora la questione è stabilire un materiale semplice, elementare, suscettibile di prestarsi alle infinite combinazioni di chi lavora, degli sperimentatori…Vedete, siamo in un periodo di transizione. E’ impossibile dire con esattezza dove stiamo andando. Ma quel che è certo è che al momento solo la musica può darci una direzione. Non lo dico perché sono musicista (16).

L’anno dopo, Copeau progetta di collaborare con Pitoëff (sono progetti che non si realizzeranno) (17) e poi torna da Appia, questa volta accompagnato solo da una lettera di presentazione di Jaques-Dalcroze.
Anche questa volta è un incontro bello e difficile. Copeau parla, racconta la sua vita, i suoi progetti. Appia lo ascolta, sdraiato sul letto. “A più riprese –nota Copeau nel suo diario- mi esprime la sua fiducia in me, nella mia energia, nella mia perseveranza. Crede che io sia colui che realizzerà. Ma anche lui, come Craig, sembra vedere in me un semplice realizzatore, che è lieto di ispirare, non un creatore, un inventore”.

  Già si comincia a percepire, per ora solo nell’introspettivo Copeau, il primo segno di quella spaccatura che poi sarà sentita tanto fortemente dai registi del secondo dopoguerra, dalla generazione di Squarzina. Copeau era affascinato da Appia, ma era anche deluso: “durante questi due giorni di conversazione, di scambio continui, non ho imparato assolutamente niente”

La cosa più importante che mi ha detto è il suo famoso “La Musica, oggi, è la nostra sola guida. Non abbandoniamo la musica”. Ma parla del momento della realizzazione. Quando spera di vedermi collaborare con Jaques-Dalcroze (di cui conosce alcuni dei difetti, ma non i più gravi) è in vista di una realizzazione. Invece io il legame con la musica lo vedo proprio al momento dell’educazione dell’attore, come interiorizzazione della musica negli strumenti, in tutte le facoltà dell’attore, perché pervenga alla precisione ed alla libertà (18)

Negli anni successivi Copeau parlerà spesso di una tradition de la naissance . Ne parlerà in particolare a proposito di Molière, per accostarsi ai suoi testi in maniera di nuovo viva: per capire, per conservare la tradizione di un artista che sentiamo alle nostre spalle, diceva Copeau, bisogna cercare la tradizione del suo percorso creativo.
Forse era proprio per questo, per inseguire ancora una volta la tradition de la naissance, per cercare gli impulsi di nascita di un nuovo teatro dietro gli screens, per riscoprire l’idea di “regia”, che si era recato da quelle persone estranee e vicinissime che erano per lui Gordon Craig o Adolphe Appia. Ma nelle parole che sceglie per riferire dei suoi incontri c’è delusione. Come se si chiedesse perché ad alcuni, ai primi, apparisse evidente quel che ad altri, a lui stesso, non si manifestava. Come se ci fosse stata una interruzione nel necessario passaggio di certe sicurezze.

Gli incontri di Copeau, specie se messi a confronto con quello tra Appia e Craig, sono un buon esempio. Ci mostrano una prima incrinatura rispetto al volto apparentemente semplice e unitario di quel fenomeno tanto particolare che è la regia in stato nascente. I primi registi rappresentano un gruppo unitario, rafforzato da una rete complessa di conoscenze ed influenze reciproche. Non costituiscono, tuttavia, quel che si potrebbe chiamare un “movimento”: sono piuttosto un gruppo che si muove a tentoni, quasi alla cieca, pieno di influenze e di incomprensioni, verso direzioni talvolta uguali, talvolta divergenti. Con qualcosa in comune che non sono le teorie (assai diverse) né lo stile del fare spettacoli, spesso addirittura opposto.

  Qualcosa accomuna Copeau a Craig, da lui diversissimo, o ad Appia. Ma lo stesso Copeau non sa definire cosa sia ad unirli, e contempla le distanze quanto le vicinanze. Qualcosa dividerà Squarzina da coloro che lui stesso considererà “padri”, eppure non sa di che cosa si tratti. Un segreto.

  Benché alcuni dei fondatori siano stati quasi ossessionati dall’esigenza pedagogica, nessuno sembra essersi preso la briga di fermarsi veramente a considerare e a trasmettere quale fosse il cuore, il primo seme – evidente a loro, oscuro per gli altri – di quel che veniva chiamato regia. Trasmisero – potremmo dire – tutto tranne il seme. O forse furono costretti a conservarlo sotto involucri difficili da dipanare.

  Lentamente cominciò dunque a consolidarsi l’immagine dei primi registi come persone a parte, uniche, strane, oltre che ribelli. Se anche era difficile da capire quale fosse il quid della regia, infatti, era però certo che i primi anni e i primi decenni del Novecento avevano portato un cambiamento irreversibile. Ed era altrettanto certo che le personalità che lo avevano causato erano tutte segnate da bizzarria ed estremismo, pugnacità, senso della rivolta, propensione a guardare il mondo, il teatro e l’uomo con occhi che andavano al di là della realtà esistente.
Che cosa avevano fatto? Certamente avevano:
– trasformato lo spettacolo in un’opera d’arte unitaria;
– proclamato la conseguente necessità di uno sguardo unitario, di un responsabile unico che fosse un uomo di teatro “completo”, padrone di tutte le tecniche, intellettuale ed artigiano;
– alterato il sistema di relazioni che governa lo spazio scenico;
– soppresso la centralità dell’essere umano –tanto nel senso dell’attore che in quello del personaggio – nello spettacolo;
– modificato il modo di muoversi degli attori;
– creato la possibilità che ci fossero più tipi di comportamento scenico possibiliper l’attore;
– trasformato gli edifici teatrali in case del teatro;
– creato spazi protetti per la ricerca teatrale pura;
– ingrandito e articolato il tempo delle prove;
– creato scuole di teatro, laboratori, gruppi riuniti insieme per lunghi periodi;
– determinato l’esistenza di un territorio di lavoro indipendente da quello necessario per l’allestimento dello spettacolo;
– scritto libri, come vedremo in seguito, che non erano né testi teatrali né memorie, né veri libri di teorie, né precettistica;
– inventato modi di lavorare non solo sulle apparenze esteriori dell’attore, ma anche sulla sua interiorità, che non è formata solo da ricordi e riflessi, ma anche dai suoi tempi di maturazione, dai tempi di assorbimento e di incorporazione delle nuovetecniche di comportamento.

  Non è poco. E si potrebbe continuare. Alla fin fine, avevano radicalmente trasformato la vita di teatro, persino nei suoi aspetti più quotidiani.

  Cosa dobbiamo fare dunque di queste scoperte scompagnate? Come possiamo metterle insieme, renderle logiche le une per le altre? La difficoltà è nostra. Per i primi registi, la reciproca diversità fu un dato di fatto, non un problema.



1 I nomi principali di questo che non è stato un gruppo ma un filone di studi particolarmente ricco sono quelli di Ferruccio Marotti, di Fabrizio Cruciani, di Franco Ruffini, di Ferdinando Taviani, di Nicola Savarese, di Marco De Marinis. All’interno di questo gruppo vi sono numerose differenze, ma per ora mi preme sottolineare l’esistenza di una corrente intera di studi che si è occupata della regia come fenomeno complessivo.
2 Per capire gli studi sulla regia, soprattutto sulla regia in stato nascente, bisogna pensare a due grandi filoni. Per il primo, come si è visto, la regia è un fenomeno tipicamente novecentesco, e rappresenta una innovazione ed una spaccatura essenziale rispetto al teatro del passato. Per il secondo filone, la regia è naturalmente un fenomeno tipicamente novecentesco, e rappresenta quindi un salto rispetto al passato, ma in quanto incarnazione di una istanza di direzione forte, buona orchestrazione unitaria, cura per la dimensione estetica, di fatto sempre esistite nella storia del teatro, prima sotto forma di eccezioni incarnate da personalità straordinarie (da Bernini a Sofocle o Goethe), poi, in seguito alle teorizzazioni dei primi registi, come pratica diffusa. Esempi del primo filone, almeno per l’Italia, sono gli studiosi che ho nominato nella prima nota, da Marotti a De Marinis (ma bisogna comunque aver presente anche gli studi di Denis Bablet su Appia e Craig). Un buon esempio del secondo filone, che presenta un punto di vista importante, e mette in risalto uno dei problemi principali dello studio della regia, e cioè il suo carattere ambiguo ed imprendibile, la difficoltà a delinearne la vera novità rispetto al passato, è rappresentato possono essere invece il saggio recente di Umberto Artioli (Le origini della regia teatrale, in Il grande teatro borghese. Sette e Ottocento, secondo volume della Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, pp.49-136). Un esempio classico è rappresentato dal volume di André Veinstein, La mise en scène théâtrale et sa condition esthétique, [1955], terza edizione rivista e aumentata Paris, Librairie théâtrale, 1992, ed un esempio estremo dalla Introduzione alla regia moderna che Silvio d’Amico premette al volume da lui curato La regia teatrale, Roma, Belardinetti , 1947. Cfr. a proposito di questo problema anche il cap. I, pp.xy.

3 La visione complessiva della regia come nuovo standard del teatro era l’altra faccia del discorso sull’esigenza dei finanziamenti da parte dello stato per la salvaguardia di un’arte che non poteva vivere in base all’economia del mercato degli spettacoli]
4 Forse anche una spinta casuale e importante ad approfondire questi studi è venuta dalla parola: “regia”. In ben poche lingue questo libro potrebbe conservare il suo titolo – non avrebbe, infatti, un senso immediatamente evidente parlare di nascita della “mise-enscène” o della “production”, perché “mise-en-scène” o “production” in sé sono fenomeni sempre esistiti, quello che cambia (radicalmente) è ciò per cui, nel Novecento, questi termini sono usati. Nelle altre lingue per indicare il vistoso fenomeno teatrale che segna i primi trent’anni del Novecento bisogna usare perifrasi: gli anni della rivolta, oppure gli anni dei grandi teorici, la grande riforma, oppure la nascita dell’arte teatrale moderna. In Italia, invece, venne coniata una parola nuova “regia”, per indicare la differenza tra la normale messinscena, la normale buona orchestrazione dello spettacolo e questo fenomeno così nuovo sorto nei primi decenni del secolo scorso. Il neologismo “regia” nacque in Italia quando il periodo della nascita della regia poteva dirsi ormai concluso in tutta Europa: nel 1931. Fu usato per la prima volta da Enrico Rocca in una recensione ad uno spettacolo di Tatiana Pavlova (“Lavoro fascista”, 31 dicembre 1931): Rocca riprendeva l’uso tedesco del termine francese régie (termine che non indica la “regia”, ma la direzione del palcoscenico). Nel febbraio del ’32, Bruno Migliorini discusse in un articolo per “Scenario” il senso e l’opportunità del nuovo termine usato da Rocca, e ne propose l’adozione definitiva (l’articolo sarà ampliato e ripubblicato con il titolo Artista e regista in Saggi sulla lingua italiana del Novecento, Firenze, Sansoni, 1941, pp. 200-211). Nel febbraio del ’33, una nota redazionale di “Scenario” (che, va ricordato, era diretta in quegli anni da Silvio d’Amico) ricordava il rapido successo del neologismo seguito all’intervento di Migliorini e notava come in un anno il vocabolo fosse divenuto a tutti gli effetti italiano. Cfr. anche la voce “regia” della Enciclopedia dello spettacolo (di Bruno Schacherl) e la Introduzione di Silvio d’Amico al volume da lui curato La regia teatrale, cit., pp. 9-11.
5 Harley Granville Barker, Introduzione all’Amleto [1937], Bari, Laterza, 1959. Ma cfr. anche altre indicazioni in questo senso presenti nelle opere di Luigi Squarzina, in particolare il suo bell’articolo Sessant’anni di regia, “Sipario”, giugno 1948, inquieto e combattivo.

6 Cfr. Appia, Oeuvres, Adolphe Appia, Oeuvres complètes, Lausanne, l’Age d’Homme, 1988, tomo III, pp. 243-244. Cfr. anche Ferruccio Marotti, Edward Gordon Craig, Bologna, Cappelli, 1961, p. 121. Craig aveva comunque sentito parlare di Appia già nel 1904.

7 Appia, Oeuvres, tomo III, cit., p. 243, Per tutto l’incontro Appia-Craig cfr questo volume, pp. 242-265. Vi è anche riportato un interessante articolo del 1915 in cui Carl Van Vechten suggerisce una superiorità, o almeno una decisa precedenza di Appia rispetto a Craig (pp.254-257).

8 Lettera del 5 agosto 1915, parzialmente pubblicata da Fabrizio Cruciani, Jaques Copeau o le aporie del teatro moderno , Roma, Bulzoni, 1971, p.103 e n.
9 Cfr. Fabrizio Cruciani, Jacques Copeau, cit., p.247.

10 Jacques Copeau, Journal, 1901-1915, a cura di Claude Sicard, Paris, Seghers, 1991, p. 716-717, tomo primo. La permanenza di Copeau a Firenze copre le pp. 716-751 del suo Journal. A meno che non sia altrimenti indicato, tramite la citazione di una pubblicazione in italiano di un volume, tutte le traduzioni sono mie.
11 Jacques Copeau, Journal, p. 728-730.
12 Lettera a Jouvet del 10 ottobre 1915 (citata da Cruciani, Copeau, cit., p.104n).
13 Jacques Copeau, Journal, p.719.
14 Jacques Copeau, Journal, p. 737.
15 L’incontro avviene il 28 ottobre, ma nel Journal non se ne parla (Copeau si limita ad annotare “lettre d’Appia, me conviant à une visite”. Per tutto l’incontro cfr. Adolphe Appia, Oeuvres, cit., tomo III, pp. 259 e ss. La curatrice, Marie Bablet-Hahn, riporta anche il lungo brano dei Registres in cui Copeau racconta diffusamente l’incontro.

16 Adolphe Appia, Oeuvres, tomo III, pp. 261-262.
17 Fabrizio Cruciani, Copeau, cit., p. 21.
18 Adolphe Appia, Oeuvres, cit., tomo III, pp. 263-264.

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