Yves LEBRETON: SORGENTI, nascita del teatro corporeo

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Yves LEBRETON: SORGENTI, Nascita del Teatro Corporeo

lebreton sorgentiTitivillus edizioni, collana “Altre Visioni”, pp 384, euro 23

Disponibile in libreria e on line tramite amazon.it , ibs.it, bol.it, unilibro.it , libreriauniversitaria.it

Il maestro Ives Lebreton ci prende per mano e ci porta a spasso nel teatro del ‘900 (e non solo nel teatro) . Come se, ascoltandolo narrare, strigessimo fiduciosi da un lato la Sua mano e con l’altra mano ci ritrovassimo, come per incanto, a stringere anche quella di Decroux, Grotowski e degli altri grandi, e tutti fossero lì intorno a noi, magari anche in pantofole e vestaglia.

In uno scritto, al contempo autobiografia e saggio, Yves Lebreton ci invita a cogliere le “sorgenti” ispiratrici della sua ricerca artistica. Traccia le tappe del suo impegno sulla via elitaria del Teatro Astratto il cui assolutismo lo spingerà ad intraprendere la propria “desacralizzazione” tramite la sovversione del comico e il teatro popolare. Distante dalle convenzioni storiche, ripensa l’insegnamento di Etienne Decroux nel contesto del teatro contemporaneo, provocando inattesi confronti tra Edward Gordon Craig, Adolphe Appia, Emile Jaques-Dalcroze, Jacques Copeau, Antonin Artaud e Jerzy Grotowski. Non senza spirito critico, analizza le basi dell’Antropologia Teatrale di Eugenio Barba. Sorprendentemente per un artista del silenzio, il suo studio della voce incentrato su i ritmi respiratori e il significato originario dei fonemi, lo conduce ai confini del linguaggio primario. Ma soprattutto, la sua inesauribile necessità di discernere al di là dell’attore “l’uomo nella sua essenza”, gli permette di svelare le “energie” viventi dell’espressione umana. Le sue tecniche del “Corpo Energetico” e del “Corpo Vocale” in simbiosi con i quattro Elementi, i regni della natura, il cromatismo dei colori e dei suoni, costituiscono l’ossatura di una metodologia totalmente inedita per l’attore dove non si tratta più di acquisire un sapere, ma di scoprire le potenzialità dell’Essere che sono le fondamenta di ogni individualità.

Ringraziamo il Maestro Ives Lebreton  per averci inviato il Suo libro.

Buona Lettura


VIDEO PRESENTAZIONE  https://youtu.be/iftNAfKTwR0



Yves LEBRETON: SORGENTI, Nascita del Teatro Corporeo 

Edizione italiana a cura di Donata Feroldi

Disponibile in libreria e on line tramite amazon.it , ibs.it, bol.it, unilibro.it , libreriauniversitaria.it

Ives LEBRETON: Incontro con Etienne Decroux

…Dopo aver spinto il portone dell’edificio ed essermi informato presso la portinaia, attraversai l’androne d’ingresso che dava accesso a un piccolo giardino interno dove, in fondo al vialetto principale, sorgeva una casetta di mattoni rossi, simile a quelle che René Magritte amava raffigurare nelle sue tele. Bussai alla porta. Mi aprì un uomo corpulento con indosso una vestaglia. Aveva lo sguardo penetrante, la fronte larga, il naso aquilino, i capelli lunghi. Mi salutò con voce calda, mi strinse la mano con fermezza, e mi fece entrare in una stanza, che altro non era se non la cucina. Il mobilio era di una semplicità estrema: un tavolo di formica, una credenza di legno massiccio, un lavello di ceramica, una cucina a gas e una stufa a carbone.
Ero stupefatto di essere accolto da Etienne Decroux in persona in un ambiente tanto anonimo.
Avendogli comunicato la mia intenzione di frequentare la sua scuola, chiamò sua moglie Suzanne che era incaricata di accogliere i nuovi allievi.
Mi iscrissi all’istante.
L’indomani, attraversai di nuovo il cortile interno del palazzo per bussare alla porta della casetta di mattoni rossi. Entrai in cucina, dove fui invitato a lasciare le scarpe insieme a quelle degli altri allievi intorno alla stufa a carbone. Salii nella mansarda che fungeva da spogliatoio. Mi infilai una calzamaglia nera e scesi nella cantina, adibita a studio, coi suoi 60 metri quadri di linoleum, la sua luce al neon, i suoi muri azzurri, la sua parete a specchio, la sua tenda di fondo bianca, il suo unico vasistas e il suo orologio a muro. Presi posto in un angolo cercando si seguire gli esercizi che una decina di allievi eseguivano nel più profondo silenzio. Scoprivo di avere al di sotto del cranio una spina dorsale estesa fino all’osso sacro, un torace in cui batteva il mio cuore e il mio respiro, una vita flessuosa, un bacino saldo, delle gambe erette, dei piedi appoggiati a terra, delle braccia sospese, delle mani ramificate e tutto un corpo completamente estraneo ai comandi della mia mente.
Questa distanza tra la mia volontà e i movimenti imprecisi del mio corpo mi fece capire immediatamente che il tempo necessario per accedere alle basi dell’espressione corporea non si doveva contare in mesi, come presumevo, ma in anni. Soltanto la perseveranza poteva permettermi di accedere un giorno alla conoscenza di quella materia espressiva favolosa che è il corpo umano.

Ives LEBRETON: Le conferenze di Etienne Decroux 

…Le lezioni si svolgevano dal lunedì al sabato ed erano suddivise in due classi distinte: il corso regolare della sera in cui ‘les nouveaux et les anciens’ [i ‘nuovi’ e gli ‘anziani’], come li chiamava Decroux, stavano assieme e quello del mattino, riservato agli ‘anziani’. La lezione del venerdì sera, dedicata all’improvvisazione, era sempre preceduta da un’introduzione che noi chiamavamo “conferenza”. Essa doveva presentare il tema che avremmo trattato, ma spesso sconfinava dal suo soggetto trascinandoci in sfere poetico-filosofiche.
Quei momenti di riflessione divagante erano appassionanti. Nessuno poteva sottrarsi al fascino della personalità d’Etienne Decroux. Era il primo a improvvisare poiché affrontava quegli incontri senza note scritte e, presumo, senza neppure un canovaccio. Visibilmente adorava abbandonarsi ai discorsi non premeditati.
Lo rivedo, seduto di fronte ai suoi allievi, con le mani posate sull’immancabile consolle che accompagnava ognuna delle sue conferenze e la cui fattura era cosi delicata che temevo si spezzasse sotto la pressione della sua stretta. Amava toccarla, accarezzarla, stringerla per meglio afferare l’idea che cercava. Lo rivedo, gli occhi socchiusi, un velo di nebbia nello sguardo, la testa oscillante all’indietro, soffiare e inspirare con forza dalle narici dilatate come per eliminare qualche polvere cerebrale e annusare più liberamente l’odore del suo pensiero nascente. Poi, all’improvviso, uscendo dal torpore, si sporgeva in avanti, acchiappava le parole con gli occhi e iniziava a parlarci…
Le sue conferenze non erano mai circoscritte entro i limiti di un enunciato teorico o di una dimostrazione didattica. Erano ogni volta la testimonianza di un vissuto. Non c’era scissione tra la concezione e la pratica. L’idea della sua arte, la costruiva giorno per giorno, nel proprio corpo, attraverso lo sforzo del movimento. La scuola non era altro che l’anticamera del suo teatro a venire. Voleva costruire un nuovo attore per far sorgere un nuovo teatro. Un attore corporeo per un teatro del corpo: il Mimo Corporeo.

Ives LEBRETON: Il Mimo Astratto

L’ascolto dell’interiorità nella pratica del Mimo Corporeo era ancora più evidente quando Decroux ci proponeva di improvvisare sul tema del “pensiero”. Insieme al “duetto amoroso”, era uno dei suoi temi prediletti. Non si stancava di tornarci con un’insistenza che talvolta rasentava l’ossessione. Ne ero entusiasta perché, in tal modo, esplorava l’aspetto del Mimo Corporeo per il quale nutrivo il maggiore interesse. Quello che in un primo tempo aveva chiamato “Mimo Soggettivo” e più tardi “Mimo Astratto”.
Il Mimo Astratto faceva eco nel campo teatrale alla sensibilità che mi aveva spinto verso la musica e la pittura.
Sono sempre stato affascinato dalla trasparenza innata del linguaggio musicale. Non racconta niente. La potenza del suo flusso sonoro fa vibrare la nostra emozione senza passare per il filtro di una forma tangibile. È magicamente interiorizzata dall’ascoltatore nell’istante stesso del suo farsi.
Quanto alla pittura, mi aveva aperto le porte dell’astrazione. Grazie a Kandinskij, non era più al servizio di un soggetto, ma diventava soggetto. Punti, linee, superfici e colori erano gli unici materiali palpabili tramite cui doveva transitare la visione interiore. Il pretesto della raffigurazione era abolito.
Kandinskij esigeva la non-rappresentatività della forma. Decroux pretendeva la non-rappresentatività dell’azione. Eliminando il supporto narrativo del proprio atto, l’allievo era costretto a canalizzare il suo sentito attraverso la sola realtà muscolare del corpo, come il pittore astratto la imprime nella sola realtà della materia pittorica. Gli slanci, i trattenimenti, le tensioni, i rilassamenti, le aperture e le chiusure dei movimenti dovevano riflettere quelli del pensiero. Il corpo nello spazio rivelava lo spazio interiore del corpo.

Ives LEBRETON: L’Esaltazione Corporea

Frequentavo ancora la scuola di Etienne Decroux, quando il centro culturale della città di Bourget, alla periferia sud di Parigi, mi propose di tenere un laboratorio di Mimo. Naturalmente, insegnavo la tecnica della Statuaria Mobile, ma volevo anche valermi di quell’opportunità pedagogica per portare avanti delle ricerche personali.
Avevo potuto verificare che il comune denominatore di tutta la tecnica decrousiana era la concentrazione mentale. Focalizzandosi sull’evento corporeo, essa gettava un ponte tra attività cerebrale e attività fisica. Ogni articolazione, ogni muscolo, ogni nervo doveva essere controllato dalla nostra consapevolezza di agire nello spazio e nel tempo. L’essere fisico si trovava in tal modo dominato dall’essere mentale e la tecnica del Mimo Corporeo mi sembrava più una disciplina dello spirito che una disciplina del corpo.
Per controbilanciare l’ascendente del mentale, sentii il bisogno di sperimentare un percorso inverso, che partisse dal corpo per andare verso la mente, facendo appello non più al controllo ma alla spontaneità.
In un angolo della sala erano accatastati alcuni tappeti da judo. Dopo averli sistemati in modo che coprissero l’intero pavimento, chiesi a ogni studente di lasciarsi andare a una vera e propria esplosione fisica. Le regole dell’esercizio erano semplici. Non appena l’allievo metteva piede sui tatami, doveva scatenare tutte le risorse nervose del proprio corpo lanciandosi in una dinamica ininterrotta di salti, cadute e rotolamenti. La rapidità dell’esercizio era tale che la premeditazione dei movimenti risultava impossibile. Ciascuno era costretto ad affidarsi ai propri riflessi. Il corpo era in tal modo guidato solo dall’intelligenza dell’istinto. Chiamai quello studio “Esaltazione Corporea”.
Il risultato fu sorprendente.
Decroux mi aveva insegnato l’articolazione sintattica del corpo, ora scoprivo il grido corporeo.
Immediatamente l’analogia con l’animalità si impose e rammentai quell’assioma: “L’uomo è un animale pensante”. Mi attraversò la mente con la folgorazione di un’evidenza. L’istinto è primordiale! Garantisce la nostra sopravvivenza biologica e la vivacità dei nostri sensi, senza i quali nessun pensiero potrebbe nascere.
Il celebre cogito cartesiano – “Penso dunque sono” – era reversibile: sono dunque penso.
La reciprocità di quell’assioma poteva essere sintetizzata nei seguenti termini: sono dunque penso, dunque sono. L’essenza genera il pensiero che crea la coscienza. La realtà sensoriale e intuitiva della nostra animalità è la radice del nostro Io pensante.
Lungi dall’opporsi alla tecnica di Etienne Decroux, l’Esaltazione Corporea la completava. Anzi, la giustificava. Il controllo è legittimo unicamente se interviene su uno stato che sfugge ad ogni controllo. Suppone, a monte, l’incontrollabile.
Il risveglio dell’animale dormiente in ciascuno di noi si rivelava condizione indispensabile alla sua doma.
Si addomestica solo ciò che è selvaggio e il selvaggio è la bellezza del domare.

Ives LEBRETON: La conferenza di Jerzy Grotowski 

Nel 1966, nella cornice del Festival del Théâtre des Nations, il pubblico parigino fece la scoperta del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski. Lo spettacolo “Il Principe Costante” venne unanimemente salutato dalla critica come una vera e propria rivelazione. Non essendo riuscito a vederlo, perché le repliche fecero il tutto esaurito, assistei alla conferenza di Grotowski al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica.
Il luogo non era stato evidentemente scelto a caso. Non si trattava dell’ennesima conferenza stampa nel foyer di un teatro, ma di un incontro all’interno di un tempio della ricerca. Grotowski voleva sottolineare senza ambiguità il carattere scientifico del Teatro Laboratorio.
C’era il fior fiore dell’intellighenzia parigina: critici, registi, attori e docenti universitari… tra cui si aggirava qualche smarrito spettatore.
Ho un ricordo visivo molto nitido dell’evento, tanto ne rimasi impressionato.
Nella penombra, vidi arrivare un personaggio austero, vestito con un completo nero. Era pingue, imberbe, con la carnagione cerea, i capelli corti, grassi, incollati alle tempie, e gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali da sole dalla spessa montatura nera. Circondato da alcuni dignitari del C.N.R.S., si sedette a un grande tavolo scuro, dove stavano ad attenderlo una caraffa d’acqua, un bicchiere e un posacenere. Fumava una sigaretta dopo l’altra e parlava nervosamente con voce nasale venata di accento polacco, senza che l’ombra di un sorriso venisse a illuminargli il volto. La sua esposizione era densa, precisa, implacabile, in un silenzio di piombo. Ci parlò delle sue ricerche al Teatr Laboratorium di Wroclaw, della sua concezione del “Teatro Povero”, della “catarsi”, dell’“attore santo”, della “via negativa”. Aveva la potenza di un grande inquisitore e l’ascetismo di un San Francesco. L’uditorio era sotto ipnosi.
Alla fine della conferenza, gli furono rivolte diverse domande, in particolare a proposito di Antonin Artaud, dei cui scritti dichiarava di essere venuto a conoscenza solo di recente.
È pur vero che una stessa pulsazione sanguigna sembrava unire il suo pensiero al “Teatro della Crudeltà” di Artaud.
Da parte mia, ero colpito soprattutto dal parallelismo tra la sua ricerca e quella di Etienne Decroux.
Ravvisavo nell’articolo “La mia definizione del teatro”, che Decroux aveva scritto nel 1931, una prefigurazione delle tesi di Grotowski. Trent’anni prima, Decroux aveva identificato nell’arte dell’attore l’essenza del teatro. Aveva letteralmente anticipato il concetto di “Teatro povero”, subordinando la ricchezza di un’arte alla povertà dei suoi mezzi espressivi: “Credo che un’arte sia tanto più ricca quanto più è povera di mezzi”.
Come Grotowski, aveva privilegiato la nozione di spettatore su quella di pubblico, presentando il proprio lavoro a un uditorio ancora più ristretto di quello del Teatr Laboratorium di Wroclaw. Jean-Louis Barrault ne dà testimonianza in questi termini: “Egli [Decroux] ha finito per non volersi più esibire se non davanti a due o tre persone. Oltre, diceva, la gente perde il proprio libero arbitrio”
Neppure la catarsi grotowskiana era estranea al pensiero di Decroux: “Se il teatro emoziona, è come emoziona un crimine, quando lo vediamo dalla nostra finestra”. Quest’immagine ricorda la condizione voyeuristica che Grotowski cercava di indurre negli spettatori, per renderli testimoni attivi dell’azione e non consumatori passivi dello spettacolo.
Ma di tutti i valori comuni a Decroux e Grotowski, l’intransigenza artistica mi sembrava essere ciò che li univa più profondamente. Entrambi propugnavano un’etica di lavoro basata sul dono di sé, sulla ricerca degli estremi e sul senso dell’assoluto. Entrambi consideravano l’arte teatrale una scelta di vita che coinvolgeva la totalità di chi la compiva.
Ricordo l’entusiasmo di Decroux alla lettura di un articolo su Grotowski uscito sul “Nouvel Observateur” che aveva per titolo “Un regista che doma l’attore”. Mentre stavo per uscire dalla scuola, Decroux mi interpellò brandendo il settimanale con aria trionfante: “Avete letto? Un regista che doma l’attore!”
Nonostante ciò, Grotowski e Decroux sono fondamentalmente diversi sul piano della personalità e del metodo. Il razionalismo decrousiano, impregnato di chiarezza discorsiva, è in totale contrasto coi chiaroscuri mistici di Grotowski. Decroux esalta il dominio dell’istinto da parte della mente, Grotowski cerca, sotto la maschera del quotidiano, il risveglio della “memoria del corpo” nella sua relazione con l’inconscio. L’articolazione geometrica del Mimo Corporeo si oppone radicalmente al linguaggio impulsivo degli attori grotowskiani.

Ives LEBRETON: Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana

Serge Ouaknine aveva appena terminato un corso di studi al Teatr Laboratorium di Wroclaw. Di ritorno a Parigi, voleva creare un gruppo teatrale per mettere in scena il “Prometeo incatenato” di Eschilo. Dopo aver riunito attorno a quel progetto vari allievi della scuola Jacques Lecoq, aveva sollecitato la partecipazione anche di quelli della scuola di Etienne Decroux. Accettai di unirmi al suo atelier di creazione con grande entusiasmo. Mi si offriva finalmente l’opportunità di sperimentare l’allenamento elaborato da Grotowski.
Il gruppo contava una quindicina di persone in tutto. Due o tre volte alla settimana, ci ritrovavamo di sera in una palestra alla periferia di Parigi. Serge ci introduceva alla pratica degli “esercizi fisici e plastici” messi a punto da Ryzsard Cieslak.
Il lavoro si suddivideva in tre fasi.
La prima era incentrata sull’apprendimento ginnico degli esercizi, la seconda sulla loro concatenazione all’interno di una sequenza che dovevamo liberamente definire e la terza sull’emersione delle nostre motivazioni personali.
Quella sovrapposizione di vincoli ginnici e motivazioni personali all’interno di una partitura gestuale prestabilita nel corso della terza fase del lavoro provocava in me un conflitto.
Se l’obiettivo dello studio era far emergere una potenzialità creativa nutrita da motivazioni personali, allora rivendicavo il diritto di creare la partitura al di fuori della concatenazione degli esercizi.
Se, al contrario, l’obiettivo era lo studio degli esercizi, allora preferivo ignorare la ricerca delle motivazioni per concentrarmi esclusivamente sull’apprendimento dei movimenti nella loro dimensione ginnica.
La tecnica e la creazione rispondono a esigenze troppo diverse per essere affrontate simultaneamente. La tecnica esige disciplina, al fine di acquisire la maestria degli esercizi. La creazione, al contrario, esige la libera esplorazione del proprio capitale immaginativo. Non è sottoposta alle regole oggettive della tecnica, ma alla sola interiorità soggettiva dell’attore di cui occorre esaltare le risorse.
Quando l’artista crea, deve dimenticare la tecnica per entrare completamente nel mondo del sentire che è la sorgente della sua ispirazione. Non ci si dà se non dimenticando se stessi.
“Il talento”, diceva Montesquieu, “è un dono che Dio ci ha fatto in segreto e che riveliamo senza saperlo”.
La presa di coscienza dei mezzi tecnici può intervenire a monte dell’atto creativo, o eventualmente a valle, mai durante il suo esplicarsi.
L’apprendimento di una lingua è sempre anteriore alla nostra capacità di esprimerci attraverso di essa. Non appena un idioma ci diventa familiare, non cerchiamo più le parole per comunicare il nostro pensiero, sono le parole a venirci incontro per esprimerlo.
Ho sempre tracciato una frontiera netta e precisa tra l’oggettività del lavoro tecnico e la soggettività del lavoro creativo.
Inoltre, ero disorientato dal fatto che l’insieme degli esercizi proposti da Serge fosse in effetti preso a prestito da varie discipline: acrobazia, Hatha-Yoga, Katakali, Ritmica… Jerzy Grotowski non ne fa mistero e molti suoi scritti fanno riferimento all’integrazione di tali pratiche nella sua sperimentazione teatrale.
Niente a che vedere con Decroux che aveva fatto tabula rasa di qualsiasi esperienza pregressa prima di costruire il proprio metodo. Come hanno fatto Delsarte, Stanislavski, Dalcroze, Laban, Graham e altri ancora nei campi di ricerca loro propri.
Anche se Grotowski adattava ai propri fini gli esercizi che prendeva a prestito, quell’adattamento non poteva in nessun caso essere considerato una tecnica originale. Era solo un innesto.
Gli esercizi che utilizzava erano stati concepiti per finalità completamente diverse dalle sue. Se le tecniche dell’acrobazia, del Katakali e della Ritmica appartengono ancora alla cerchia delle arti dello spettacolo, lo Hatha-Yoga – finalizzato alla ricerca di un’armonia interiore attraverso l’introspezione meditativa – si colloca a mille miglia di distanza dal conflitto esistenziale caratteristico dell’arte drammatica.
Contrariamente a quanto si può pensare, Grotowski non ha elaborato un nuovo metodo formativo per l’attore, trasmissibile di generazione in generazione. A meno che il suo metodo consista nel non averne e che gli esercizi da lui proposti non siano altro che pretesti privi di finalità propria.
Varie sue dichiarazioni lo fanno supporre: “Senza dubbio si può accrescere la quantità di dettagli plastici, si può, passo dopo passo, trovarne altri […] Si possono iniziare gli esercizi su un’altra base. Si può trovare tutt’altro programma di dettagli […] Non è il tipo di dettagli iniziali ad essere importante, ma lo spirito della cosa”.
“Tutti gli elementi dei nostri esercizi sono sostituibili… possiamo senza dubbio ritrovare la base con altri pretesti”.
In quest’ottica, gli “esercizi fisici e plastici” non sono altro che sequenze di movimenti assemblati insieme al solo scopo di costituire una base di lavoro per l’attore. Possono essere sostituiti da altre sequenze-pretesto perché l’importante non è “il dettaglio fisico” ma “la memoria del corpo” che ciascuno deve saper risvegliare attraverso il dialogo con se stesso.
L’essenziale è spingere l’attore ai suoi estremi affinché la “maschera” delle sue difese si rompa, i suoi blocchi “brucino” e l’attore si “riveli” attraverso l’azione nella sua “intimità” più profonda. Ciò non dipende dall’esercizio in sé ma da come l’esercizio viene realizzato e guidato. Il come non si impara e non è cirscoscritto in un metodo predeterminato e trasmissibile. Nasce da un intimo ascolto tra colui che guida e colui che agisce, dal semplice rapporto tra uomo e uomo che nessuna forma di trascrizione è in grado di fissare.
In mancanza di un metodo, Grotowski propone un’etica del lavoro che va ben al di là di un semplice processo tecnico.
Il Teatro Povero è frutto di un’esperienza umana, dell’incontro miracoloso in un luogo e in un tempo dati tra una personalità eccezionale e una costellazione di collaboratori altrettanto eccezionali.
Il Teatro Povero è unico e inviolabile poiché é Jerzy Grotowski, e lui soltanto, possiede la chiave della sua risurrezione.
Grotowski ha scritto: “La mia terminologia è sorta dalla mia esperienza e ricerca personnale. Tutti dobbiamo trovare un’espressione, una parola personale, un modo strettamente personale d’influire sui nostri intimi sentimenti”.
Parlava di terminologia, ma mi piace immaginare che in effetti parlasse del proprio teatro…
Perché allora ha pubblicato nel suo libro il descrittivo degli esercizi come in un manuale?
Manuale che tutti gli apprendisti grotowskiani si sono affrettati a seguire alla lettera come altrettante ricette che permettevano di raggiungere lo stato estatico dell’“attore santo”. Improvvisamente, ai quattro angoli del pianeta, sono nati gruppi che si richiamavano al Teatro Povero senza aver mai avuto la minima esperienza di lavoro diretta col Teatr Laboratorium di Wroclaw. Erano grotowskiani perché applicavano i precetti stilati dal Maestro.
Tale divulgazione ha provocato una serie di devianze dal pensiero di Grotowski. Molto in fretta, i suoi principi si sono trasformati in schemi e gli stereotipi del teatro convenzionale che Grotowski voleva abbattere sono stati sostituiti dalle copie stereotipate del suo teatro.
Su questo punto, Decroux ha avuto l’accortezza di non inserire nel suo libro la descrizione della propria tecnica ad uso dei praticanti. Ha preferito dichiarare: “Chi vorrà la luce non dovrà che studiare”.
La tecnica di un’arte è naturalmente legata alla sua pratica. Non può essere trascritta, letta e applicata. Esige una trasmissione da Maestro a allievo al fine di preservarne lo spirito, la sostanza che si dà e si accoglie nell’incontro del vivente col vivente. La famosa tradizione segreta del teatro Nô di Zeami non era tenuta segreta per il gusto del mistero, ma per rispetto verso la tradizione orale dell’insegnamento che garantiva la trasmissione del sapere attraverso il legame esclusivo dell’esperienza umana. Persino in cucina, una ricetta dettagliata non garantisce il migliore piatto.
Tra il sapere e il fare, c’è di mezzo la maniera, che non si apprende ma si sperimenta soltanto.
E noi tutti sappiamo che l’arte sta nella maniera.

Ives LEBRETON: L’acrobazia con Romano Colombaioni

Prendevano parte al seminario anche altri pedagoghi invitati da Eugenio Barba. In particolare il clown Romano Colombaioni, venuto direttamente da Roma per dirigere un laboratorio di acrobazia.
Non mancai di seguire le sue lezioni.
Con piacere ritrovavo nella dinamica dei movimenti acrobatici i principi dell’Esaltazione Corporea. Nessun salto senza “choc”. Nessun lancio senza “risonanza”. Nessuna tensione muscolare senza rilassamento.
Romano non spiegava niente. Il suo metodo pedagogico si riassumeva nella formula magica: “energia, energia, energia!”. La urlava con un riso feroce, sferzandoci come bestie. Pungolati dai suoi richiami, ci lanciavamo alla cieca nelle capriole più incredibili, affidando al nostro istinto il compito di salvarci in extremis da quella follia suicida. La nostra noncuranza era pari alla nostra temerarietà. Cercavamo disperatamente di infrangere le leggi della gravità schizzando in aria come petardi di luna park. Ma l’attrazione terrestre aveva sempre l’ultima parola e precipitavamo a terra maledicendo Isaac Newton. Quando finalmente, dopo lunga e tenace applicazione, riuscivamo a volteggiare ricadendo in equilibrio sui piedi, ci rituffavamo immediatamente nel movimento acrobatico per memorizzare fisicamente la catena degli impulsi. Vittoria! Gioia! Piacere di volare!
L’acrobazia è una fantastica preparazione ludica per l’arte dell’attore. Sviluppa la coordinazione del movimento fondendo i tre aspetti fisiologici fondamentali del nostro corpo: articolazione/flessibilità – muscolo/tonificazione – nervo/stimolo.
Ma, soprattutto, permette di liberare la nostra spontaneità mettendola a confronto con le basi elementari dell’azione: decisione, proiezione, impegno, rischio e precisione.
Queste qualità, tipiche del movimento acrobatico, sono altrettanto necessarie all’arte dell’attore.
Non c’è espressione viva senza la scintilla dell’impulso decisionale, senza proiezione verso l’altro, senza impegno totale della nostra identità, senza un’assunzione di rischio che forzi i nostri limiti e senza precisione che assicuri l’efficacia dei nostri atti.
Stimolando queste cinque qualità sul piano fisico, l’acrobazia ne prepara il passaggio sul piano psicologico. Fortifica la nostra volontà, rafforza la nostra apertura e rinsalda la fiducia nel nostro istinto senza il quale l’incontro con noi stessi e con gli altri sarebbe impossibile.

Ives LEBRETON: L’azione di strada

Un giorno, mentre uscivo dalla sala prove ancora intriso del personaggio di Monsieur Ballon, mi sorpresi a guardare la hall del teatro come uno spazio inesplorato. Bastava un piccolo scatto mentale perché lo sguardo passasse dal riconoscere le cose all’oblio della loro verosimiglianza. Appena la mia mente scivolava nel vacuo, il luogo sfuggiva alla mia comprensione e ogni particolare dell’arredo risvegliava la mia curiosità, suscitava il mio stupore. Dentro e fuori dallo studio, il personaggio continuava a esistere di per sé, e ogni incidente nel suo percorso gli offriva nuove opportunità per trasfigurare gli eventi e rafforzare la propria presenza.
Quel contatto diretto con la realtà bruta mi sembrava un buon esercizio e l’idea di mettere Monsieur Ballon ‘in mezzo alla strada’ ha germogliato. Fu così che un pomeriggio, accompagnato dal mio ombrello, dalla valigia e dalla carrozzina, mi sono ritrovato sotto un cielo plumbeo all’imboccatura della strada pedonale di Holstebro. Nessun attore proveniente dall’austero Teatro Laboratorio di Eugenio Barba si era mai avventurato per le strade cittadine.
Immediatamente, i passanti mi identificarono come un’anomalia nella quiete del paesaggio urbano. Alcuni fingevano di non vedermi, altri mi guardavano interdetti, non sapendo se era il caso di chiamare la polizia o l’ospedale psichiatrico. Dei bambini sorridendo mi si avvicinarono divertiti. Solo un ubriacone mi venne incontro credendo di vedere in Monsieur Ballon un fratello di sangue. Tentò di dialogare con lui, ma i vapori della birra gli avevano a tal punto alterato i sensi che ogni possibile relazione era compromessa. Preferivo la mia solitudine alla sua compagnia, dialogare coi manichini nelle vetrine, le strane strisce bianche sull’asfalto e i lampioni spenti.
La diffidenza della gente non mi contrariava affatto. La loro distanza si sommava alla mia e amplificava il mio stupore nei loro confronti.
Malgrado i risultati poco gloriosi di quella prima incursione in territorio urbano, ero convinto che in futuro le azioni di strada avrebbero dovuto accompagnare le rappresentazioni in sala. Non bastava accogliere il pubblico in teatro, bisognava anche sollecitarlo nel suo habitat naturale. Non spostando lo spettacolo dal palcoscenico alla strada, né tracciando sull’asfalto il cerchio magico di uno spazio teatrale, ma facendo della strada stessa il vero spettacolo. In questo contesto, l’attore lavora senza rete. È un pescatore di correnti d’aria e deve saper cogliere al volo il fortuito laddove si presenta, trarre profitto da qualsiasi pretesto affinché una poetica scaturisca dal quotidiano. Non c’è miglior scuola dell’imprevedibile.
Scendendo dal palco per mescolarsi alla folla, l’attore comico si ricollega alla tradizione ancestrale della sua arte, popolata di giocolieri e saltimbanchi. Da sempre e in ogni civiltà, il comico è figlio del popolo. È cresciuto nelle piazze e non nei salotti. Ha sempre rappresentato la rivincita dei diseredati sui benestanti. Fare della strada il proprio teatro significava ritrovare le radici viventi dell’agitatore da cui l’attore proviene.

Ives LEBRETON: Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare.

Avevo sempre affrontato le rappresentazioni di Mimo Astratto col peso del mondo sulle spalle, nella sofferenza e nella lacerazione. Ora mi sorprendevo a non stare nella pelle dietro il sipario come un bambino eccitato alla vista di un nuovo giocattolo. Per la prima volta, il famoso “jeu” dell’attore (In francese la parola “jeu”, “gioco”, significa anche “recitazione”) diventava realtà. La rappresentazione non era più un rito sacrificale, ma “une partie de plaisir” [una partita di piacere]. Mi divertivo come un matto trascinando il pubblico nel mio delirio. Fioriva una nuova estasi, anch’essa impastata di sudore e di sforzi, di rigore e integrità, ma attraversata dalla cometa del riso che, di rimbalzo in rimbalzo, sprizzava da uno spettatore all’altro come un’onda travolgente.
L’ebbrezza della risata che unisce le disparità degli uomini in un unico slancio di libertà ritrovata. Il miracolo della risata che placa le nostre angosce, le nostre lamentele e i nostri rancori. Il furore della risata che smaschera i nostri tabù e la nostra alienazione. La bellezza della risata dai denti scintillanti come stelle di un cielo sognato.
Quel riso, non lo potevo ripudiare.
Portava e mi portava gioia. Penetrava nei cuori, abbatteva le barriere tra le generazioni, le classi sociali e le razze, restituendo al teatro la sua vocazione popolare.
Quel teatro, non lo potevo abbandonare.

Ives LEBRETON: La ricerca fondamentale

Tale cambiamento di rotta non modificava in nulla la mia ricerca fondamentale sull’arte dell’attore. Indipendentemente dal linguaggio adottato, la conoscenza dello strumento fisico-vocale restava una priorità assoluta.
Che l’attore opti per la tragedia o per la commedia, le basi sono sempre le stesse: un’energia, un corpo, una voce. La fusione di queste tre componenti é il fondamento comune a tutti gli orientamenti artistici. L’attore deve appartenersi prima di potersi dare.
Lo stesso vale per il musicista. Durante la sua formazione, non impara un genere musicale ma la padronanza del suo strumento che gli consentirà di suonare ogni tipo di musica a piacimento.
Malgrado l’irruzione del comico, restavo fedele al mio campo d’indagine sul Corpo Energetico e il Corpo Vocale.
La vera creazione non risiedeva nella finzione momentanea degli spettacoli che potevo elaborare, ma nella scoperta dell’arte dell’attore e più profondamente dei principi immanenti al dialogo dell’uomo con se stesso.
Questa ricerca fondamentale è tuttora il filo di Arianna del mio percorso artistico. Ignorata dal pubblico, è la costante che ha attraversato in segreto la varietà dei miei spettacoli destinati a consumarsi con l’aria del tempo.

Ives LEBRETONIl Teatro Corporeo

Di fronte all’apparizione inopinata di Monsieur Ballon, il termine ‘Mimo Astratto’, che avevo utilizzato fino a quel momento per presentare il mio lavoro, non era più adeguato.
Peraltro, questo termine non mi aveva mai veramente convinto. La nozione di ‘astratto’ non poteva incidere più di tanto su quella di mimo, inevitabilmente legata all’imitazione e all’illusionismo gestuale. Avendo studiato con Etienne Decroux, maestro del più grande mimo planetario – Marcel Marceau – dovevo essere un mimo.
Ero dunque costretto a trovare una nuova terminologia in grado di delimitare meglio la specificità della mia ricerca. Al fine di evitare qualsiasi malinteso, doveva tassativamente escludere la parola “mimo” e integrare la parola “teatro”.
I termini di “Teatro gestuale” e “Teatro non verbale” che circolavano all’epoca non mi soddisfacevano perché il personaggio di Monsieur Ballon faceva uso della parola e, se i miei spettacoli di Mimo Astratto rimanevano silenziosi, il progetto del Teatro Astratto che avevo in mente doveva includere la voce.
L’unico concetto a cui aderivo pienamente era quello di Teatro Completo di Etienne Decroux. Quando affiancai mentalmente le espressioni “Teatro Completo” e “Mimo Corporeo”, mi parve possibile un connubio tra le due. Il Teatro Completo diventava il Teatro Corporeo. L’aggettivo “corporeo” giustificava l’assenza di riferimenti all’espressione vocale che il sostantivo “teatro” conteneva virtualmente. Inoltre, quella nuova denominazione non escludeva nessuna alternativa. Poteva comprendere sia il teatro tragico che quello comico, sia quello astratto che quello narrativo. Non si riferiva a uno stile ma alla necessità di strutturare la totalità del linguaggio teatrale a partire dalla realtà corporea dell’attore.
Nel 1973, il termine “Teatro Corporeo” era totalmente inusitato. Da quel momento, tutte le mie creazioni sarebbero state presentate all’interno di questa cornice. I riferimenti al mimo furono sistematicamente soppressi dai miei comunicati stampa e programmi di sala. Arrivai persino a stipulare una clausola contrattuale che costringeva gli organizzatori a promuovere i miei spettacoli con l’esclusiva dicitura di “Teatro Corporeo”. Potevo sperare così di imporre un nuovo concetto teatrale in armonia con le mie aspirazioni artistiche.
Non servì a nulla.
La critica continuava a parlare del mimo Lebreton. La mia impotenza era totale ed è rimasta tale fino ad oggi malgrado le mie dichiarazioni contro quest’arte mimica che mi si incolla alla pelle come la scabbia.
Col tempo mi sono rassegnato.
Avrei forse dovuto nascondere i miei anni di formazione con Etienne Decroux?
Per onestà morale e professionale, mi sono sempre rifiutato di farlo, esponendo senza ambiguità la mia filiazione al suo insegnamento.
Personalmente, non ho mai smesso di rivendicare la mia appartenenza all’arte dell’attore. Troppo spesso si dimentica che l’attore è “colui che agisce”, non “colui che parla”; che l’onnipotente Verbo della Bibbia a cui fanno riferimento i drammaturghi per imporre l’egemonia del parlato indica, sul piano grammaticale, il fatto e non l’idea del fatto, il fulcro dinamico del pensiero che solo l’azione fisica può tradurre. La stessa parola “teatro”, che noi assimiliamo alla declamazione di un testo d’autore, etimologicamente significa “luogo dove si contempla”.
Non abbiamo forse l’abitudine di dire che andiamo a sentire un concerto e a vedere uno spettacolo?
Se di fronte a una rappresentazione teatrale, dovessimo esigere dallo spettatore di scegliere tra ascolto e sguardo, senza dubbio privilegerebbe la vista rispetto all’udito.
La natura profonda del teatro risiede nell’azione che si offre alla vista degli spettatori. Rinunciare al linguaggio verbale non significa obbligatoriamente rivestire i panni stilistici del mimo. Al contrario, significa denudarsi di tutti gli apparati del teatro per tornare alla sua origine prima: l’atto. L’atto radicato nel corpo, proiettato nel movimento, stimolato dal pensiero, assertore di una presenza. L’atto come luogo di passaggio tra donare e ricevere. L’atto come unica possibile via d’uscita di fronte all’imperiosa necessità di esistere. L’essenziale è lì: che l’atto sia vivo e integri nell’istante della propria realizzazione la totalità di colui che agisce. Il resto è superfluo, analisi teoriche e valutazioni tecniche che non saranno mai in grado di rivelare l’inafferrabile: il vissuto nell’immaginario.

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