E. BARBA: Sette Risposte, L’Aquila 1996

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1400 iscritti / anno IV,  n ° 19 / febbraio 2005


Eugenio BarbaEugenio BARBA: Sette Risposte

Incontro con gli studenti dell’Aquila (9 novembre 1996)

Nel novembre 1996 Eugenio Barba e L’Odin Teatret incontrano gli studenti dell’Università dell’Aquila. Ne nasce un affascinante dialogo su…Perchè faccio Teatro?…Come finirà l’Odin Teatret?…Dove ha senso portare l’Odin, oggi?…La questione del tempo nel lavoro di drammaturgia…come mi comporto di fronte al blocco creativo di un attore…il teatro di strada…l’efficacia dell’attore.

Il leggerle, o rileggerle, ci sembrerà di essere li presenti, mentre rispondono lo stesso Barba, con Torgeir Wethal, Roberta Carreri, Iben Rasmussen.

Lo scritto è tratto da: “Eugenio Barba, Il prossimo spettacolo, a cura di Mirella Schino, L’Aquila, Textus, 1999”

Ringraziamo la professoressa Mirella Schino per il permesso alla pubblicazione dal sito  www.univaq.it/culturateatrale

Buona Lettura



Eugenio BARBA: Sette Risposte

Incontro con gli studenti dell’Aquila (9 novembre 1996)

I – Eugenio Barba: Ho letto le vostre domande, e siccome alcune erano per me, ma altre, in realtà, per i miei attori, sono venuto qui con alcuni di loro.

Risponderemo ad una domanda per volta.

Alla vostra prima domanda, quella sul “perché lo faccio”, avrei potuto dare, nel corso della mia vita, molte risposte differenti.  Quella di adesso è molto diversa da quella che avrei dato quando ho fondato l’Odin, trent’anni fa, e ancora diversa da quella che avrei dato vent’anni, o dieci anni fa.

Mi chiedete: perché lo faccio? Non lo so.

Perché lo faccio, Iben? Perché lo faccio, Torgeir? Mi viene in mente più di una risposta. La più semplice è: per pigrizia. E’ l’unica cosa che so fare, e continuo a farla.  Un’altra potrebbe essere: per rimanere un dingo, un cane selvatico. Qualcosa che fa parte del panorama, della fauna e della flora, ma con caratteristiche sue, che non si  ascia ammaestrare. Forse adesso lo faccio perché è diventata una sfida: per quanto tempo questo gruppo di persone che sono con me da trent’anni continuerà a far spettacoli, ad essere un teatro in vita, fonte di turbamento per gli spettatori? Ma forse ancora più vero sarebbe dire che quel che mi trattiene nel teatro, quel che mi affascina e voglio scoprire è una domanda: quale sarà l’ultima scena?

Come finirà l’Odin Teatret?

La curiosità verso quest’ultima incognita è diventata per me una delle spezie che insaporiscono l’idea del lavoro ancora da fare, e gli danno profumo.  Faccio teatro perché sono un piccolo borghese e la mia famiglia mi ha insegnato a pagare sempre i miei debiti. I miei debiti sono verso le persone che mi hanno insegnato qualcosa. Non posso essere debitore direttamente nei loro confronti, erano già morti quando ho preso quel che mi potevano dare. Allora devo saldare il mio debito con altri: coloro che sono stati compagni di tutta la mia vita, i miei attori, che sono stati leali con me, e di grande generosità.  E poi faccio teatro perché mi permette di incontrare le persone che mi sono necessarie.

Dove ha senso portare l’Odin, oggi?

Io credo che abbia senso portarlo in quei luoghi dove lavorano alcune persone che per me, per noi, per la nostra ecologia dello spirito, è essenziale reincontrare. Non si potrebbe farlo senza lavoro. Altrimenti sarebbe un incontro tra nostalgici, di quelli pieni solo di ricordi: ti ricordi di quel tempo, ti ricordi quel che facevamo allora…La nostalgia diventa, in questi casi, un segno d’età. Non dell’età come saggezza, ma solo come vecchiaia. Forse ci sono altri motivi ancora, che io stesso non conosco. Torgeir, lo chiedo a te: perché faccio ancora teatro, perché lo fai tu?

Torgeir Wethal: Probabilmente è l’unico modo che conosci per continuare a combattere contro tutto ciò che non accetti nel mondo. Quanto a me, io sono una di quelle persone fortunate che hanno casualmente capito molto presto nella vita cosa era “naturale” per loro. Faccio l’attore da quando avevo otto o nove anni, non ho mai fatto altro. Sono attore. Di questo non si parla spesso, ma è sicuramente una causa importante, agli inizi, nel determinare una scelta. Un bisogno elementare, il primo. Oggi…oggi lo faccio perché se non lo facessi non potrei rimanere giovane. Ho cinquant’ anni. Giovane nel senso di avere ancora vita di fronte a me, la possibilità di avere un’opinione, di poter dire: voglio che il mondo sia in questo modo, ed in quest’altro.

Iben Nagel Rasmussen: Spero che tu non lo faccia per pigrizia, e spero che tu non lo faccia perché vuoi vedere come sarà l’ultima scena, quando tutto sarà finito.  In realtà spero che tu lo faccia per lo stesso motivo per cui lo faccio io: per scoprire che esiste ancora un senso, e ancora qualcosa da scoprire dentro di noi, non solamente fuori. Non solo per gli altri, non solo per gli amici, perché se così fosse non sarebbe importante far proprio teatro. Questi sono i motivi per cui si organizza un partito politico.  Io faccio teatro perché ho paura della pigrizia, di continuare per inerzia. E anche perché continuo a pensare che possono esserci ancora altri cammini, più giusti, e forse potremo scoprirli insieme.

Roberta Carreri: La prima cosa che mi è venuta in mente di fronte a questa domanda è stata: fai teatro perché non puoi farne a meno. E per mia esperienza molto spesso il primo pensiero è quello più giusto.  Quello di cui tu hai parlato, invece, mi sembra piuttosto essere la tua giustificazione davanti a te stesso: la responsabilità che senti nei confronti delle persone che ti hanno seguito per tanti anni. E sicuramente anche questo è vero ed importante. Ma più importante è il fatto che non puoi farne a meno, che fare teatro ti fa sentire in vita. In ogni persona c’è il bisogno di scoprire cosa sia quello che tiene svegli, che dà un senso all’esistenza. Mi chiedi perché lo faccio io. E la risposta è: perché non posso farne a meno. Non avevo mai fatto teatro prima di incontrare l’Odin, ero seduta esattamente sullo stesso tipo di sedie su cui state seduti voi, in una stanza molto simile a quest’aula. Avevo vent’anni -no, ne avevo diciannove- quando ho visto l’Odin per la prima volta. Ventitré anni fa. Ho deciso che queste persone erano la mia gente e li ho seguiti. E adesso penso che sia stato un istinto di sopravvivenza quello che mi ha fatto scegliere proprio questa gente e questa vita. Credo di essermi resa conto di essere “un’attrice” solo quando erano ormai dieci anni che ero all’Odin. L’essere attrice è diventato il mio modo di esprimermi. Di trovare ogni giorno una sfida per andare avanti, per aver voglia di svegliarmi la mattina e di lottare ancora.

II -Eugenio Barba: La questione del tempo è una questione cardine nel lavoro di drammaturgia o nella tecnica compositiva di uno spettacolo. Come lavorare col tempo, che tipo di tempo deve apparire, alla fine, deve essere vissuto e sperimentato dallo spettatore?  Esistono, in realtà, molti “tempi” differenti con cui bisogna fare i conti.  C’è il tempo reale dello spettacolo, il tempo e la durata di una azione, che può essere di pochi minuti o di un’ora. C’è il tempo convenzionale della storia raccontata, quello che nelle tragedie classiche è l’unità di tempo. C’è poi il tempo della preparazione di uno spettacolo, che può durare una settimana, pochi giorni, molti mesi. Ma c’è anche un altro “tempo”, a cui è più difficile dare un nome. Il modo con cui lo chiamo parlando a me stesso è: il tempo degli antenati.  Antenati senza nome, ma veri antenati, che mi hanno formato, dal cui sperma sono nato, senza i quali non sarei qui. Ho perso la capacità di vedere le loro fattezze, di sentire la loro voce, ma le loro esperienze sono una parte fondamentale della realtà in cui mi muovo. Tutti questi strati temporali devono trovare il loro respiro, il battito del loro cuore, nello spettacolo. E vi è pure il tempo su cui lavorano gli attori, quello creato dalla sottopartitura, il fiume nascosto che dà vita, fa palpitare le forme esteriori.  Il tempo è un fluire. Ma è un fluire visto alla luce delle teorie di Einstein: quanto dura l’attimo della morte, l’attimo dell’innamoramento?  Quanto dura un attimo per una persona che si dà fuoco? Un attore può far scoppiare il tempo. Può dare ad ogni frammento le qualità di una scheggia di diamante. Tempo intagliato, tempo scolpito, tempo incorporato. Incarnato in stimoli sensoriali, preparati e composti perché colpiscano a livello vocale, fisico, tattile.  Schegge di diamante per tagliare il vetro che separa e protegge noi che guardiamo da realtà che ci portiamo dentro, ma con cui stentiamo ad entrare in contatto.  Allora il tempo dello spettacolo diventa simile alla creazione di un buco nero nel quale è possibile infilare la mano, ed entrare in dialogo con la nostra propria tradizione. Il regista deve organizzare mille elementi in modo che lavorino inconcomitanza per conservare alle schegge intagliate di tempo la loro forza incisiva. Può lavorare sul tempo reale, può lavorare facendo sì che il ritmo di una canzone cambi prima che ci si assuefaccia ad essa, sulle colorazioni che le si possono dare attraverso associazioni con le azioni complementari, e così via. Può lavorare sulla labilità, sull’incertezza: come quando lo spettatore guarda, e non sa più, ma realmente non sa più, se sta guardando un uomo od una donna.  Ricordo di aver guardato una volta la danza di un gruppo di giovanissime danzatrici indiane. Ed io sapevo che in realtà erano ragazzini, quelli che danzavano, ma al tempo stesso non riuscivo ad eliminare il dubbio. Una parte di me proprio non riusciva a credere che non fossero bellissime bambine, ma ragazzi. Creavano in me un turbamento profondo.  Lavorare sul tempo è uno dei momenti più straordinari del lavoro di regia. Vuol dire creare ad uno spettacolo la sua ombra. Costruirlo come se fosse allo stesso tempo qualcosa di molto concreto e solo una illusione. Un velo di Maya che copre appena, o indica, un buco nero di energia, nel quale lo spettatore può affondare.  E se faccio teatro è anche per questo: per precisare ancora meglio questo buco nero, e riuscire, alla fine, a fare uno spettacolo che sia insieme semplice semplice e molto complesso.  Se sei fortunato, se gli dei ti vogliono bene, allora riuscirai a far sì che gli attori trovino il sasso giusto su cui poggiare il piede quando attraversano il ruscello, e a non bagnarsi. E allora diventano luminosi e sembrano leggeri, sottili, sembrano quasi gravitare sull’acqua, in uno spazio che non appartiene né ad una sponda né all’altra.

Ma tutto il lavoro per giungervi è estremamente tecnico. Un regista deve lavorare e pensare in categorie semplici e tecniche. In fondo l’abilità del regista è anche quella di saper procedere un passo per volta, una immagine per volta, senza fidarsi delle teorie, ma solo delle azioni che ti stanno di fronte. Il teatro non è letteratura, è successione e simultaneità di dettagli in vita che si abbracciano e si combattono, è tempo incarnato. Ma alla fine, quando il lavoro è terminato, si ha la sensazione di scoprire qualcosa in te che è molto più profondo del tempo. E allora non sai più se è stata la tua esperienza di regista a guidare, oppure se è stata la capacità e l’inconscienza dell’attore. Come se l’attore fosse un daimon che ti ha portato fino a questi territori.

III – Torgeir Wethal: E’ naturale che ci siano ruoli e funzioni differenti, tanti, per lo meno, quante sono le persone che fanno parte del gruppo. Ma ad un livello tecnico, di lavoro, credo che la differenza tra noi ed Eugenio, ciò che ci ha permesso di rimanere un gruppo dopo tanti anni, sia sorpattutto una: il fatto che Eugenio ha l’ultima parola in tutte le situazioni di crisi o di stallo a livello creativo. Può sembrare una divisione del lavoro ovvia, semplice da osservare, ma non lo è. E’ fondamentale. E’ simile a quello che una pallina deve provare per la sponda di un biliardo: un ostacolo, ma che ti garantisce di non andare fuori.  Dopo tutti questi anni, esiste anche un rapporto personale più ampio. Ma esiste soprattutto un grande rispetto, non solo nei confronti di Eugenio, ma tra noi tutti, che è quello che permette di accettare che ognuno di noi, nel lavoro, segua necessità molto diverse, molto individuali. Anni fa sapevamo sempre cosa fare, o credevamo di saperlo. Ogni volta potevamo dire: si fa così. Poi la professione ha cominciato a divenirci sempre più familiare. E allora abbiamo dovuto cominciare ad inventare come sorprenderci, come pensare, come muoverci, come reagire di fronte a tutto quello che ormai sappiamo. Il mio modo è stato: quando dicono che c’è qualcosa che non si fa, allora la faccio.

Iben Nagel Rasmussen: Litighiamo spesso e siamo spesso in disaccordo.Ma credo che comunque ci sia qualcosa che ci unisce, anche se è difficile spiegare esattamente di cosa si tratti. Un fluire, non è armonico ma neppure disarmonico. Una specie di vibrazione dell’anima, che è come riconoscere un fratello.

Roberta Carreri: Mi ha sorpreso la parola armonia, il fatto che voi ci chiedeste se c’è “armonia” tra noi. Credo che ci sia, tra noi, equilibrio. La parola armonia mi fa un po’ sorridere. Sono d’accordo con quello che ha detto Torgeir: esiste un grande rispetto. E’ rispetto per le persone che sono rimaste, perché se qualcuno è riuscito a resistere nel gruppo per anni, allora vuol dire che ha forza, e motivazione. A me piace pensare che esista una netta distinzione tra Eugenio e noi. Tra il lavoro di Eugenio e il mio. Mi permette di non essere in accordo con Eugenio, di oppormi, ma sempre rimanendo consapevole che deve esserci una motivazione profonda per lui nel fare questa o quella cosa con cui non sono d’accordo, e allora cerco di capire quale sia, questo motivo per me invisibile. E qualche volta ci riesco.

Eugenio Barba: Se dovessi fare uno spettacolo con attori che non conosco, con attori nuovi, sarebbe senza dubbio un’esperienza gratificante. Sapere che comunque le mie proposte sarebbero nuove, per loro. Osservare le loro reazioni rispetto a queste novità.  Però lavorare, per me, significa pormi di fronte a persone che conoscono tutti i sotterfugi da me usati nel corso di questi trentatré anni. Davanti a loro non posso ripetermi, sono costretto a sforzarmi, a tentare, almeno, di trovare altri cammini, diversi, ma che permettano di usare l’esperienza accumulata insieme. Altrimenti non rimarrebbero con me. Mi è diventato fondamentale lavorare con attori che conosco molto bene: per esser costretto a trovare continuamente nuovi stimoli per loro. E per poter vedere, allo stesso tempo, come loro li cercano per me.

Roberta Carreri: La verità è che non esiste una realtà statica, né nel conoscersi, né nelle persone. Quello con cui devi fare i conti è il loro cambiamento continuo. Il miracolo è vederle conservare sempre una motivazione profonda per continuare a stare insieme, all’interno del loro cambiare.  Quando ho visto l’Odin per la prima volta è stato come se mi fossi innamorata di sette persone insieme.  Quello che conta è riuscire a mantenere vivo questo filo d’eccesso, la relazione profonda che ci lega e allo stesso tempo permette ad ognuno di noi di crescere per i fatti suoi e di cambiare. Una volta l’orologio mi è caduto, si è aperto, e ho visto tutti gli ingranaggi, collegati, che giravano, ogni ruota che faceva anche muovere le altre. Pensai che così eravamo noi. Come se ognuno di noi fosse una di queste rotelle. Il tempo lo facciamo scandire insieme.  Eppure cambiamo sempre. Di quelle persone che ho conosciuto ventitré anni fa, di cui mi sono innamorata allora, di cui adesso potrei essere la madre, cosa è ancora uguale?  Per esempio ventitré anni fa non avrei mai creduto di vedere un giorno Eugenio rispondere alle vostre domande così, seduto. Perché allora Eugenio, quando parlava alla gente, non poteva farlo così tranquillamente, rilassato.

Eugenio Barba: Adesso vi racconto un episodio realmente accaduto. Un giorno un mio carissimo amico è venuto da me. Piangendo. E mi ha detto: “Eugenio, anche i sentimenti cambiano e muoiono, ero così innamorato di mia moglie, e adesso non le voglio più bene!”

Roberta Carreri: Perché il tuo amico non era abbastanza professionale. E’ evidente che mancava di tecnica.

V – Eugenio Barba: Continuamente ci insegnano il rispetto. Ci insegnano che bisogna avere rispetto per gli anziani, per gli invalidi, per i negri. Rispetto. Una parola che presa da sola è piena di sputo e basta.  Avere rispetto per una persona significa trovare un modo di proteggerla. Questo è il “rispetto” reciproco all’interno dell’Odin di cui prima parlava Torgeir. Proteggerla anche se magari quel che sta facendo ci dà fastidio, ci irrita fino alla frenesia.  Mi chiedete come mi comporto di fronte al blocco creativo di un attore. Posso rispondervi solo: non ci sono norme. Adesso, la mia tendenza complessiva è lasciare cuocere il polpo. Quando ero un bambino portavano il polpo a mia nonna, perché lo cucinasse. I pescatori l’avevano sbattuto ben bene contro un sasso. E allora lei poteva metterlo in pentola e lasciarlo cuocere per ore ed ore. I miei attori, è come se fossero polpi ben sbattuti dagli anni di lavoro passato. Perciò, se uno di loro ha dei problemi, posso lasciare che si cucini a lungo in quei problemi, senzaintervenire. Questo non vale per i giovani attori, ma solo per i più vecchi, quelli che stanno con me da anni.  Se è stato sbattuto ben bene dagli anni di lavoro, un attore avrà ha la forza di passare anche attraverso l’esperienza della lenta cottura.  Tuttavia non ci sono norme generali, ma solo casi individuali, legati a circostanze specifiche. Ci sono attori che, in certi momenti del processo di lavoro, bisogna trattare dando sicurezza, rassicurazione, tempo, calma. Poi, quattro giorni dopo, con quegli stessi attori, bisogna essere duri. Dipende da mille circostanze: ogni volta il regista deve sbrigarsi a fare una diagnosi, e prendersene la responsabilità.  Mi torna in mente la vostra domanda precedente, quella sulla differenza dei ruoli tra di noi, sulle differenze tra il leader ed i suoi attori: un leader, rispetto agli altri componenti del gruppo, è semplicemente una persona che si assume l responsabilità nei confronti degli altri.  Il suo rischio è il potere. Portare l’attore, volente o nolente, in situazioni estreme può dare un grande senso di potere.  Il vero problema, in realtà, non è tanto quello dei blocchi creativi, quanto quello della tendenza a ricadere involontariamente in cammini già percorsi, una tendenza che diventa sempre più forte mano a mano che l’attore si fa più esperto. Per uscire da una strada già percorsa non c’è altro da fare che tornare indietro al punto di partenza, ma anche allora spesso non si riesce a trovare altra alternativa che rifare il cammino identico a prima, ritornare al punto preciso in cui ci si era fermati, e di nuovo tornare indietro per ricominciare daccapo. Ci sono lunghi periodi nei quali in realtà il regista non fa altro che aiutare l’attore a procedere così, avanti e indietro, lungo lo stesso percorso, contro lo stesso muro.  Tutto quello che può fare è cercare, giorno dopo giorno, di scoprire minuscoli dettagli che cambino l’irreparabilità di questo fluire, di trovare un piccolo buco che permetta di cominciare ad aprire nuovi varchi, nuove circostanze. Quando l’attore è vecchio, generoso, quando è stato ben sbattuto ed è stato a lungo sul fuoco, arriva il momento in cui qualcosa in lui, la voce per esempio, comincia a toccarmi, anche se da un punto di vista formale ancora non funziona. In realtà comincia a ricordarmi qualcosa, qualcosa di molto vecchio, di antico, di arcaico che mi sta dentro. Come se nel mio corpo ci fosse un tempo che si estende, e può giungere indietro fino al pesce che è dentro di me. Vi sembrerà strano, ma è così: c’è un momento in cui il pesce dentro di me riconosce la voce dell’attore. Se non sente niente, me lo fa capire. Ma l’attore, in quel momento, non può sapere, se sta parlando, e a chi. Se al pesce, o al passero, o alla lucertola.

VI – Eugenio Barba: Un teatro per la strada. Che cosa succede? Ci sono civiltà e culture nelle quali le persone vivono quasi sempre per strada, paesi caldi, in genere, nei quali è bello stare per strada, sedersi, parlare. Vi sono altri paesi, come la Danimarca, nei quali la gente usa la strada solo come luogo di rapido passaggio da un posto all’altro.  Il teatro di strada ha soltanto quell’attimo, per catturare i suoi spettatori. Deve fermarli: con la sorpresa, con il disorientamento. Creando in loro, in un momento, sensazioni che li leghino forte al loro posto, lì, per strada.  Nel teatro di strada capita spesso che il pubblico non segua. Lo spettatore non ha fatto la scelta di andare a vedere lo spettacolo. E guardate che è una forte motivazione, per uno spettatore, dover uscire di casa, organizzare il proprio tempo, crearsi aspettative: da queste scelte nasce l’ attenzione in sala. Per strada non c’è preparazione. La maggior parte del pubblico è composto da spettatori involontari, gente che sta camminando, si accorge che sta succedendo qualcosa, e allora va a vedere di che si tratta. Perciò tutte le modalità di costruzione dello spettacolo cambiano. In sala c’è, o dovrebbe esserci, silenzio. Ci sono almeno alcuni spettatori motivati, ed è per loro che posso costruire quel tempo scolpito di cui si parlava prima. Per noi sono persone speciali, a volte già ci conoscono, sentono un forte legame con quel che stiamo facendo. Ne hanno bisogno. Per strada c’è altro: c’è rumore e velocità. C’è una esigenza di vita pura, di fluire e di frammenti. Non c’è drammaturgia, ma un confluire maestoso e placido all’interno del quale scorre un vortice. La misura del tempo, per uno spettacolo di strada, è di pochi minuti: come se ogni immagine di cui è composto debba avere l’autonomia di uno spettacolo in sé concluso, brevissimo, ma capace di legare, di abbagliare e anche di far paura.  Uno storico delle religioni ha definito il mistero religioso come qualcosa che al tempo stesso ci attrae e ci spaventa. La paura è importante. Se il teatro arriva a suscitare una simile mescolanza di attrazione e timore, allora davvero è giunto ad un traguardo, ad un confine eccezionale nella vita di quello spettatore. Verrebbe da chiedersi: è mai possibile che in questo nostro tempo smaliziato, così ricco di vita a domicilio, per cui stando a casa, solo accendendo il televisore, possiamo vedere le immagini più incredibili e più crudeli, un uomo giustiziato con un colpo alla nuca, un bambino che muore di fame, è possibile che il teatro con la sua povertà quasi ridicola di mezzi, possa davvero destare, in chi guarda, sgomento?

VII – Iben Nagel Rasmussen: L’efficacia dell’attore…non è un termine giusto. Forse. C’è qualcosa che puoi avere o non avere dentro di te. Non è una questione che riguarda il solo teatro. Ma un attore non può essere certo di averlo se non dopo aver affinato tutta la sua tecnica, dopo anni ed anni di lavoro. E dopo anni di lavoro continuo può anche scoprire di non averla, questa cosa extra. Ma se non l’hai non sarai mai un buon attore.

Roberta Carreri: Sì, anch’io penso che ci sia qualcosa che la tecnica può far fiorire, ma non creare. Se questo qualcosa non c’è, allora puoi essere tecnicamente perfetto, ma non arriverai a toccare le cose più profonde, a far vibrare, a commuovere lo spettatore. A commuovere te stesso. Tutto questo è ingiusto, molto ingiusto. Ma è così.

Torgeir Wethal: Io non ne sono più tanto sicuro.  Certo, questa forza o valore innato è qualcosa di talmente individuale…Puoi imparare ed insegnare la tecnica. Non il modo di mettere in moto il pubblico. Quello non c’è modo per insegnarlo. Eppure …può darsi che qualcuno possa anche indicare un’altra strada, una strada che noi non conosciamo. In genere questa forza la si trova da sé, dopo anni di lavoro. Dopo anni passati ad osservare il lavoro degli altri. Ma pure in tutto il processo c’è qualcosa di oscuro, che mi sfugge. Per anni abbiamo detto: “tutto questo non si può insegnare, o c’è o non c’è”. Ma non ne sono più tanto sicuro.

Eugenio Barba: La domanda giusta non è “perché la tecnica da sola non funziona?”. La domanda giusta è: “per chi funziona?”. Mi è capitato di andare a teatro a vedere un lavoro tecnicamente ben fatto, ma per niente efficace, per me. E intanto lo spettatore accanto a me si commoveva. Per lui era una grande esperienza. Per me: noia.  Quante volte ho sentito gli spettatori dividersi sul giudizio su uno spettacolo! E anche su spettacoli dell’Odin.  E’ come se ogni spettacolo si diriga verso ogni spettatore con una voce diversa. Molti degli spettacoli cosiddetti “tradizionali” a me sembrano estremamente monotoni, prevedibili: so già cosa farà l’attore, come si comporterà. Quando comincerà a gridare, quando a sussurrare. E intanto vedo altri spettatori, intorno a me, che si commuovono. Quanto all’altra vostra domanda, se l’attore possa acquisire una vera efficacia attraverso la tecnica: non so. Ho visto attori che per anni sembravano un albero morto. Poi all’improvviso cominciavano a far frutti. Io avrei messo una mano sul fuoco che quell’albero lì non sarebbe fiorito mai. La cosa più paradossale, più crudele, è che spesso mi è capitato di vedere un attore dare frutti una sola stagione, e poi mai più.  Ma tutto quello che riguarda l’attore fa parte dei grandi misteri dell’arte teatrale. Quando l’attore funziona, sorprende, riesce ad interrompere il flusso di pensieri, di previsioni in cui siamo immersi, allora tutto quello che avviene assume, per lo spettatore, un significato personale. Lo spettacolo diventa un dialogo con se stessi. Se dovessi dire a cosa serve uno spettacolo, penso che direi: è un modo per permettere ad ognuna delle persone che guardano di stabilire un dialogo con se stessi. Parlare con se stessi non significa farlo solo con quella parte del cervello che dirige i processi razionali e concettuali, ma anche mettere in moto quelle parti di noi che hanno a che fare con i passeri, le lucertole, e i pesci. Per questo mi sono afferrato a quel relitto che è il teatro. Ho sempre sentito la parola “relitto” come profondamente associata al teatro. Dove mi sta portando questo relitto? Questa volta mi ha portato qui all’Aquila, qui all’Università. E certo tre anni fa non lo avrei mai immaginato. Eppure se siamo qui è per via di una lunga rete di esperienze, di incontri con persone diverse che ci hanno segnato. Nel nostro tempo il teatro è realmente un relitto, un relitto di un’altra epoca nella quale aveva una funzione sociale ben diversa.  Adesso ci sono molte altre forme di spettacolo più consone al nostro tempo, alla nostra società. Il teatro è un rudere archeologico. Una forma vuota, dentro la quale ci si può mettere di tutto. Ci può essere un teatro come intrattenimento, per ammazzare il tempo. E ce ne può essere un altro che invece il tempo lo vuole dilatare. Trasformarlo nel suo doppio.

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