F. RUFFINI: Stanislavskij e il “teatro laboratorio”

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Konstantin Sergeevic STANISLAVSKIJFranco RUFFINI: Stanislavskij e il “teatro laboratorio”

Ultimo capitolo del volume “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”, del Prof . Franco Ruffini, Laterza editore, 2005

“Con nomi e protagonisti diversi, il teatro laboratorio ha traversato il teatro del Novecento, e vi è tuttora presente, come una delle realtà più significative. Anzi, come un’autentica realtà rivoluzionaria.

Si è chiamato “atelier”, “theatre workshop”, o più genericamente “scuola”. Più spesso, senza comparire in alcuna forma nel titolo, è stato presente nella tradizione implicita di tanti teatri. Il nome originario, però, è stato “studio”, e il primo è stato il Primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca, fondato da Stanislavskij nel 1912.”

Il testo che presentiamo è l’ultimo capitolo del volume “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”, del Prof . Franco Ruffini, Laterza editore, 2005.

Segnaliamo di aver già pubblicato l’introduzione di questo stesso volume nel numero 48 del novembre/dicembre 2009  CLICCA QUI

Ringraziamo il Prof. Franco RUFFINI per il permesso alla pubblicazione.

Buona Lettura



 

F. Ruffini – "Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé", Laterza 2005
F. Ruffini – “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”, Laterza 2005

 

Franco RUFFINI: Stanislavskij e il “teatro laboratorio”

[© F. Ruffini – Ultimo capitolo del libro “Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé”, Roma-Bari, Laterza 2005]

Questo saggio si occupa del “teatro laboratorio”. Un fenomeno che ha la sua origine in Stanislavskij, ma va che oltre Stanislavskij. Per tempi, protagonisti, e per l’incidenza sul teatro del Novecento: anche come luogo deputato della “cultura attiva”, che si fonda sul lavoro del corpo.

Riflettendo su Stanislavskij da molti anni, sono arrivato a chiedermi se non debba essere considerato un maestro del pensiero, oltre che un maestro del teatro. Col tempo è diventata una domanda seria. La gittata di questo studio oltre Stanislavskij sbilancia la prospettiva verso il maestro del pensiero. E però la centralità del “sistema” riporta inevitabilmente – quasi per un automatismo mentale – verso il maestro del teatro: con gli attori impegnati in noiosi esercizi quotidiani e ad ascoltare apologhi edificanti. L’altra prospettiva resta per lo più in sottofondo. Alle volte non ce la fa a restare sotto e sbuca fuori, può darsi addirittura con fastidio per il lettore. Come una coppa di cristallo che si presenti in tavola accanto a un vino di tutti i giorni, in tetrapak.

Certo, può apparire perfino ridicola la concentrazione sulle piccole cose del proprio tavolino da lavoro, quando sul tetto di casa gravano tempeste. Quell’affannarsi con signorine che cercano spille preziose, spasimanti in ansia per la risposta dell’amata, eleganti signori in attesa di prendere un treno, quando si cerca nientemeno che di liberare l’uomo dalla prigione dei suoi condizionamenti. Sta rivoluzionando il teatro – non la sua superficie ma le sue radici, i suoi princìpi – ma sembra incapace di smuoversi dal terreno dei drammi piccolo borghesi. Inventa il modo per tradurre Čechov in azioni fisiche, ma sembra tornare sempre alle schegge del vecchio repertorio. Colui che sta lavorando sull’uomo sotto specie d’attore, sembra voler limitare sempre l’obiettivo alle misere bisogne del palcoscenico. Ma, ci piaccia o no, così accade a coloro che indagano scientificamente mondi nuovi nascosti sotto il mondo conosciuto. Hanno bisogno di esempi e cavie piccole e banali. Con l’animo preso dalla meraviglia e dall’orrore per vulcani e geyser, si chinano sui fornelli casalinghi a vigilare sull’acqua che si sta scaldando.

Però nell’attesa – nella preparazione e nella precognizione – dell’istante in cui esploderà l’ebollizione. L’acqua in bollore è acqua molto calda: ma è un’altra cosa.

Estremisti e salto nello sguardo

Teatro in stato di ebollizione può essere definito il teatro laboratorio. Non può fare a meno del teatro – e del lavoro per portarlo ad alta temperatura – ma è un’altra cosa.

Del “teatro laboratorio”, l’esordio con il nome proprio è stato l’American Laboratory Theatre, fondato a New York nel 1924 da Rikard Boleslavskij e Marija Uspenskaja, seguaci di Stanislavskij transfughi in America. La consacrazione è avvenuta con il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, inaugurato nel 1962 a Opole, in Polonia, e poi dal 1964 trasferito a Wrocław. L’eredità più conosciuta è il Nordisk Teaterlaboriatorium di Eugenio Barba, che dal 1964 ha la sua sede a Holstebro, in Danimarca.

Con nomi e protagonisti diversi, il teatro laboratorio ha traversato il teatro del Novecento, e vi è tuttora presente, come una delle realtà più significative. Anzi, come un’autentica realtà rivoluzionaria.

Si è chiamato “atelier”, “theatre workshop”, o più genericamente “scuola”. Più spesso, senza comparire in alcuna forma nel titolo, è stato presente nella tradizione implicita di tanti teatri. Il nome originario, però, è stato “studio”, e il primo è stato il Primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca, fondato da Stanislavskij nel 1912. Molti dei suoi allievi – Michail Čechov e Evgenij Vachtangov, tra i più famosi – fondarono a loro volta degli Studi.

Si discute sulla realtà storica e storiografica del teatro laboratorio. In particolare: se ci sia continuità tra la prima e la seconda metà del secolo; se debba essere considerato come uno spazio di ricerca affiancato a teatri più istituzionali; se, soprattutto dopo la consacrazione di Grotowski, il nome adottato debba essere visto come una discriminante; quali pratiche pedagogiche – si pensi in particolare al training – possano esserne ritenute costitutive. Problemi, tutti, di grande interesse, ma dei quali qui non ci occupiamo.

Nelle pagine che seguono ci occuperemo dei teatri laboratorio – furono più d’uno – di Stanislavskij. Ma prima, seguendo Stanislavskij, della natura del teatro laboratorio in generale.

Cos’è un teatro laboratorio, a prescindere da date, nome e modi di operare: è un “centro studi” per lo spettacolo, un teatro d’avanguardia, una scuola avanzata per la formazione degli attori?

Artaud era notoriamente estraneo alla sperimentazione o all’avanguardia o alla pedagogia, e ancor più lo divenne negli ultimi anni.

Durante il tempo della follia e del manicomio, degli elettroshock e della fame, tra il 1937 e il 1948, quando morì – espropriato di volontà, pensiero, sentimenti – semplicemente portò all’estremo la convinzione di sempre che si può fare affidamento solo sul corpo, così come lui lo registra con rigore anatomico: arti, organi esterni ed interni, e quant’altro resta. Non esiste niente all’infuori del corpo. Comprese però che il corpo, lasciato all’automatismo dei suoi organi, si riduce a una “fabbrica di cacca”. Sono parole sue. Gli arti agiscono, i polmoni inspirano ed espirano, lo stomaco digerisce, il fegato secerne, puntualmente come ad ognuno detta la funzione specifica. E il prodotto finale di tutto questo operare è “cacca”.

Baudelaire ad esempio, dice, sono 25-30.000 defecazioni. Però sono anche 50 poesie che, essendo creazioni, sono incompatibili con l’automatismo. Come salvare le 50 poesie di Baudelaire, malgrado l’ipoteca delle sue funzioni organiche? Bisogna pensarlo in possesso – accanto al corpo fatto d’organi – di un altro corpo non soggetto all’automatismo, e dunque di un corpo senz’organi. L’unico luogo in cui sia possibile costruire questo nuovo corpo per ogni uomo, afferma Artaud, è il teatro.

Un laboratorio per costruire con gli strumenti del teatro, e partendo solo dal corpo, un uomo liberato dagli automatismi: il teatro che Artaud prefigura è lo sfondo per ragionare sulla natura del teatro laboratorio.

Si dirà, Artaud è un estremista. Vero.

Ma il teatro laboratorio deve essere osservato con uno sguardo da estremisti. Altrimenti si dissolve in una serie di casi singoli che, nel risalto di ciò che li distingue, rischiano di far perdere ciò che li accomuna, in profondità. L’estremista non è colui che sragiona in modo esagitato sulle cose; al contrario, è colui che sulle cose ragiona in modo pacato, logico e intransigente: ma alla ricerca di ciò che sta sotto la superficie.

Lo sguardo da estremisti mette a fuoco sull’essenziale. Di un tale sguardo sono stati portatori i maestri del teatro laboratorio. La messa a fuoco sull’essenziale non avviene per continuità. C’è un salto nello sguardo, una soluzione di continuità. Il salto si verifica nello sguardo, ma modifica la natura del fenomeno osservato.

Più radicalmente: mettendone in luce l’essenziale, lo rivoluziona.


Franco RUFFINI: Stanislavskij e il “teatro laboratorio”

Sulle tracce del Primo Studio

Il salto nello sguardo
Com’è noto, esistono due edizioni dell’autobiografia di Stanislavskij: quella americana My Life in Art, pubblicata a New York nel 1924, e quella russa Moja žiz’n v iskusstve, pubblicata a Mosca nel 1926. Come è un po’ meno noto – e comunque considerato trascurabile, negli studi – la versione russa non è una retro-traduzione di quella in inglese. Al contrario, fu il frutto di un ripensamento profondo, che comportò importanti variazioni. Stanislavskij arrivò addirittura a sconfessare la versione americana, riconoscendo come propria solo quella russa.

Una delle variazioni più significative riguarda il Primo Studio e, in particolare, il suo atto di nascita. Prima dell’apertura ufficiale del Primo Studio, nel settembre del 1912 – prima nell’ex cinema Lux, poi nel “Circolo della caccia”, in via Tverskaja – c’erano stati almeno due anni, durante i quali Stanislavskij aveva tentato di insegnare il “sistema” agli attori del Teatro d’Arte, all’interno dello stesso teatro. L’esperimento si era rivelato un totale fallimento. Stanislavskij decise allora di impiantare lo Studio in un luogo e con modi distinti dal Teatro d’Arte.

L’esperimento per l’attuazione del sistema s’intitola, infatti, il capitolo della versione russa relativo ai tentativi dentro il Teatro d’Arte. Lo segue il capitolo intitolato al Primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca. Nella versione americana, il capitolo sugli esperimenti s’intitolava già The First Studio, e il successivo The Founding of the First Studio.

E’ lo stesso Stanislavskij a spiegare il senso della variazione di titoli. Dice:

 “il lavoro di laboratorio non può svolgersi nel teatro stesso, con gli spettacoli giornalieri, in mezzo alle preoccupazioni del bilancio e della cassa, ai pesanti lavori artistici e alle difficoltà pratiche di una grande impresa”.

E’ l’apertura del capitolo Il Primo Studio nella versione russa; e, naturalmente, questa dichiarazione manca, nel corrispondente capitolo della versione americana.

C’è un salto nello sguardo di Stanislavskij. Ciò che gli si rivela, durante il lavoro per l’edizione russa, è che il Primo Studio era cominciato davvero solo con il distacco – non solo in senso spaziale – dal Teatro d’Arte. Quelle che nella versione americana erano accreditate già come attività dello Studio, vennero ricondotte a ciò che di fatto erano state: esperimenti. Preziosi e coraggiosi, ma appartenenti al prima.

Prima del laboratorio, c’era stato il territorio della sperimentazione. Ma la sperimentazione di per sé non è il teatro laboratorio.

Dalla compagnia- classe alla comunità teatrale

La prima rivoluzione prodotta dal salto nello sguardo è il passaggio dalla compagnia o dalla classe di una scuola al gruppo, o comunità teatrale, com’è stato chiamato da alcuni protagonisti, e anche dalla storiografia più avvertita.

Il foglio che Stanislavskij fece affiggere per segnarvi sopra le adesioni al Primo Studio, nel settembre 1912, non è in nessun modo l’equivalente del reclutamento di attori per “fare compagnia” o dell’esame di ammissione ad una scuola. Con quel foglio, Stanislavskij cercava compagni con i quali avventurarsi in un territorio sconosciuto, mettendo un’alea proprio sullo spettacolo. La lunga durata delle prove, che caratterizzava la sperimentazione, registra un salto di qualità. Diventava l’”avventura delle prove”.

La comunità teatrale non è solo una compagnia, o la classe d’una scuola.

Nella comunità teatrale continuano ad essere presenti le dimensioni di compagnia e di classe d’una scuola. Ma queste dimensioni e quella di comunità si rincorrono l’una con l’altra, si rispondono e si influenzano, come nella “corsa della regina rossa” di Alice, di cui ha parlato recentemente Mirella Schino. Non si sa chi preceda o insegua chi. Sono distinte: e tuttavia sono nello stesso giro.

Quando opera solo come compagnia o come classe, la compagnia e la classe diventano la zavorra della comunità teatrale. E’ precisamente quanto accadrà al Primo Studio, soprattutto dopo il successo del Grillo del focolare, andato in scena il 24 novembre 1914. La comunità tornò ad essere una compagnia, sia pur divenuta primaria; la classe d’una scuola, sia pur divenuta alta scuola.

Scriverà Sulerzičkij, al quale Stanislavskij aveva affidato la responsabilità dello Studio, in una lettera non spedita del 27 dicembre 1915, che il Primo Studio adesso è diventato “una grossa istituzione … Qualsiasi sogno o utopia viene rimossa, e rimane il ‘lavoro’, buono o cattivo … ma sogni non ve ne sono più”. Per il “buon Suler”, col ritorno degli onori ma anche dei vincoli dello spettacolo, l’avventura delle prove del Primo Studio era finita.


Franco RUFFINI: Stanislavskij e il “teatro laboratorio”

Dal regista-direttore alla guida spirituale

La seconda rivoluzione del teatro laboratorio ha il nome di Suler, nel caso del Primo Studio. In generale, si chiama guida spirituale.

Al Primo Studio, le presenze di Stanislavskij furono rade e, significativamente, limitate per lo più ai momenti di prova degli spettacoli. Più che come maestro, vi andava da regista ospite. Il ruolo di guida spirituale era già assegnato, e non poteva essere condiviso.

La guida spirituale di una comunità teatrale non è solo il regista d’una compagnia, o il direttore d’una scuola.

La guida di una comunità teatrale ha spesso la funzione di regista. Ma il regista è il responsabile dello spettacolo, la responsabilità della guida spirituale si estende oltre lo spettacolo, e talvolta contro lo spettacolo. La guida spirituale di un gruppo ha spesso la funzione di coordinatore di diversi maestri. Ma la responsabilità d’un direttore di scuola si concentra sulla didattica, la responsabilità della guida spirituale investe la complessiva educazione degli allievi.

Vale, anche tra regista direttore e guida spirituale, la “corsa della regina rossa”.

Dalla creazione alla condizione creativa
A proposito del Primo Studio, Stanislavskij parla insistentemente della “condizione creativa”, come obiettivo da perseguire. Lamenta che, durante gli “esperimenti”, i vecchi attori prendevano i suoi esercizi come altri cliché da aggiungere al loro corredo. Gli attori già formati – racconta – consideravano il suo insegnamento una teoria; non si rendevano conto che non si poteva “assimilare né in un’ora né in un giorno, ma [che] bisognava studiare sistematicamente, praticamente, per anni, per tutta la vita”, al fine di acquisirlo e mantenerlo come una “seconda natura”. Lo ringraziavano e lo lodavano, per questo, ma “sto fresco con queste lodi”, conclude sconsolato Stanislavskij.

Del resto, già un’altra volta le lodi avevano rischiato di fargli velo alla verità. Nell’estate 1906, Stanislavskij è reduce dalla prima tournée all’estero del Teatro d’Arte. A Berlino, hanno recitato Zar Fëdor e, per la replica su espresso desiderio e con la presenza del Kaiser Guglielmo, hanno dovuto posticipare la rappresentazione di Un nemico del popolo. Grande successo, dello spettacolo da Tolstoj e del dramma di Ibsen. Stanislavskij vi interpretava il ruolo del dottor Stockmann che, dalla prima del 1900, era un suo collaudato cavallo di battaglia.

Tuttavia, seduto su uno scoglio in riva al mare della Finlandia, dove si era recato per un periodo di riposo, vive una crisi profonda. Si interroga con angoscia.

E’ l’episodio, famoso, dello “scoglio in Finlandia”, che dà avvio alla Maturità artistica di Stanislavskij. Il frutto delle sue interrogazioni è la Scoperta di verità da lungo tempo note, che lo porterà ad opporre la condizione dell’attore, basata comunque sull’imitazione di un modello, alla condizione creativa, in cui l’attore fa ricorso esclusivamente alla propria interiorità.

A leggere con attenzione, ci si rende conto di quale sia la ragione profonda dell’angoscia. Banco di prova ne è proprio il personaggio del dottor Stockmann. Dice Stanislavskij:

 “Con l’intuizione ho creato l’aspetto esteriore di Stockmann: nacque naturalmente dall’uomo interiore. Il corpo e l’anima di Stockmann si fusero organicamente l’uno nell’altra. Non ho dovuto far altro che pensare ai desideri e ai problemi del dottor Stockmann, e subito apparve da sé la miopia, vidi il corpo inchinato in avanti e l’andatura affrettata. E subito il primo dito e il secondo si spinsero da sé in avanti come se volessero ficcare i miei sentimenti parole e pensieri nell’anima stessa dell’uomo con cui stavo parlando”. 

Stockmann non era nato per imitazione, era stato un’autentica creazione. Ma, dice Stanislavskij, “col trascorrere del tempo io persi quei vivi ricordi, che sono gli stimolatori, i motori della vita spirituale di Stockmann e il leitmotiv che attraversa tutto il dramma”. Nonostante fosse nata come una creazione, ora la parte rischiava “la degenerazione, [la] graduale morte spirituale”. Stanislavskij capisce che è necessario rinnovare la creazione ogni volta. Rinnovare la creazione ogni volta non è la stessa cosa che ripeterla invariata come la prima volta. La ripetizione è, anzi, il nemico da combattere. Un nemico subdolo, insidioso e quasi paradossale, perché si basa sulla “memoria muscolare … così forte negli attori”. Indispensabile per il loro lavoro.

Tra la creazione del personaggio una volta per tutte e la condizione creativa come seconda natura, passa una rivoluzione.

Dalla lettera allo “spirito”

Scriveva ancora Suler nella lettera non spedita a Stanislavskij del dicembre 1915:

(per leggere tutta la lettera CLICCA QUI)

“Il mio fine è la creazione di un teatro-comune … con i grandi compiti di teatro-tempio … Mi piaceva particolarmente la natura della terra che voi compraste per lo Studio a Eupatorija, così desertica e arida, dove sarebbe stato necessario tutto il nostro lavoro per costruire un focolare comune”. 

Anche Stanislavskij ricorda il progetto di Eupatorija, chiamandolo “ordine spirituale di artisti”. Non si realizzò mai pienamente, ma dall’estate del 1912 Suler vi si recò ogni anno, a trascorrere le vacanze con un gruppo di seguaci dello Studio. Facevano tutto quello che era previsto nel progetto: lavorare la terra, costruire le proprie case, accogliere gli spettatori come ospiti. Stanislavskij restò distante, se non diffidente; non partecipò mai prima del 1915 alle vacanze di Eupatorija. Non era la sua utopia. Era l’utopia di Suler, e il suo fallimento ne preconizzò la morte.

Ma utopia è diventata una parola impronunciabile. Nella lezione minore è caduta a significare un sogno senza fondamento di realtà, nella lezione maggiore s’è impennata a significare tensione etica: che, a stringere, non vuol dire niente.

Invece di utopia, allora, diremo anagogia. Nell’esegesi medievale, il senso anagogico è il quarto senso delle parole. Dopo quelli letterale, morale e allegorico, il senso anagogico esprime lo “spirito” della parola, e della cosa che essa rappresenta alla lettera. Il teatro-comune, il teatro-tempio, il focolare comune, l’ordine spirituale di artisti sono il senso anagogico – lo spirito – del teatro laboratorio.

Anche Copeau, nel progetto del 1916, parlava della sua scuola come di una “confraternita di artisti”, e la comunità di attori-operai in Borgogna, dal 1924, ne realizzerà la visione. Il modo in cui lo ricorda a cose fatte, nel 1927, somiglia in modo puntuale alla descrizione che Stanislavskij aveva fatto della comune di Eupatorija. Può darsi che Copeau l’avesse letta, My Life in Art era uscito nel 1924. In ogni modo, se non la scrive ex novo, la sottoscrive. E Grotowski, dal canto suo, parlerà di “fratellanza d’armi”.

Sono dei sognatori senza fondamento di realtà? No, sono degli estremisti. Mettendo a fuoco su ciò che è essenziale, semplicemente vedono ciò che in spirito il teatro laboratorio rappresenta e, altrettanto semplicemente, lo descrivono. Non è colpa di Stanislavskij Copeau o Grotowski se gli storici – che, in ossequio alla cosiddetta neutralità, si rifiutano di essere estremisti – hanno letto quelle descrizioni come la lettera di teatri-tempio o confraternite di artisti senza fondamento di realtà, e non invece come lo spirito di teatri laboratorio, talmente fondati nella realtà da poterla trascendere proprio per affermarne il fondamento.

Dalla lettera allo spirito: con questa rivoluzione, la condizione creativa si propone anche come condizione dell’uomo, oltre l’attore.

*

Sulle tracce del Primo Studio, può essere questa una definizione essenziale del teatro laboratorio: una comunità teatrale che, sotto la guida di una guida spirituale, lavora per incorporare come seconda natura la condizione creativa, in quanto attori ma anche in quanto uomini, per diventare capaci di vivere liberi dall’automatismo.

Ma, prima, dev’esserci il salto nello sguardo.

I teatri laboratorio di Stanislavskij: i libri

Sul teatro laboratorio di Stanislavskij ci sarebbe ben poco da aggiungere. Se non fosse che il Primo Studio non fu il teatro laboratorio di Stanislavskij. La sua guida spirituale, il vero interprete del suo senso anagogico, fu Sulerzičkij.

Il teatro laboratorio di Stanislavskij non abitò nell’arida terra di Eupatorija, né nei locali angusti di via Tverskaja. Abitò nei libri e, due volte, nella musica.

*

Dell’autobiografia abbiamo già ricordato la differenza – il salto, addirittura – tra la versione americana e quella russa. Quanto all’altro libro “in vita”, Il lavoro dell’attore su se stesso, quelli che in America si presentano come due libri distinti e separati – An Actor Prepares (1936) e Building a Character (1949) – sono in realtà i due tomi di un libro unico e unitario: Il lavoro dell’attore su se stesso. I° La reviviscenza e Il lavoro dell’attore su se stesso. II° La personificazione. Insieme al sottotitolo, comune ai due tomi, Diario di un allievo, spariscono dall’edizione americana le date in testa ad ogni brano, trasformando il resoconto di giornate di lavoro in capitoli di un trattato. Né vanno sottovalutati i tagli di ripetizioni e lungaggini, coerenti con il “diario di un allievo”, ma del tutto incongrui in un libro proposto – contro le intenzioni sempre proclamate dall’autore – come un manuale. Proprio ad evitarne letture manualistiche, Stanislavskij metteva le virgolette intorno a “sistema”. Facciamo anche noi lo stesso. “La continua ripetizione di quei concetti che io considero importanti, è intenzionale. I lettori perdoneranno questo inconveniente”, dirà Stanislavskij nella sua introduzione al primo tomo. E sottintende che i lettori ai quali destinava la propria esperienza avrebbero saputo come far frutto di quell’inconveniente.

Lungi dall’esserne la traduzione, i libri americani sono oggettivamente il tradimento del progetto di Stanislavskij scrittore.

Ma ora, nella prospettiva del teatro laboratorio, si deve procedere a un esame più analitico. Nel comune intento di sottrarre il proprio pensiero alla versione americana, l’atteggiamento di Stanislavskij fu diverso, nei confronti dei due libri. Nel lungo intervallo dall’autobiografia al libro sul “sistema”, si verificò un mutamento radicale nel suo sguardo.

La strategia messa in atto per La mia vita nell’arte mirava a rivendicare la paternità dell’edizione russa. Già nel settembre del 1924, rispondendo all’editore Karl Kersten che chiedeva l’autorizzazione per un’edizione in tedesco, pone il veto, dicendo che è quasi pronta l’edizione russa “molto più approfondita nei problemi artistici”. Stessa risposta riceverà Gaston Gallimard, nel 1928. E a Norris Houghton che, recatosi a fargli visita nel 1924, gli chiede di firmare una copia di My Life in Art, Stanislavskij replicherà offrendo una copia della versione russa e dicendo: “Forse lei è già in grado di leggere il russo, e vorrei che avesse il testo così come io l’ho scritto”. 

Poi passano gli anni. Nell’introduzione di Elizabeth Reynolds ad An Actor Prepares (1936), il libro viene proposto come “a grammar for acting … a manual, a handbook, a working textbook”, secondo quanto Stanislavskij aveva preannunciato di voler fare, a conclusione dell’autobiografia. Il titolo, redazionale, è la sintesi della declaratoria introduttiva. Due anni dopo, esce la versione russa. Nell’introduzione, Stanislavskij non contesta il suo progetto originario, ma ribatte seccamente che “tuttavia [si astiene] dal farlo in questo momento”. Quello che ora interessa Stanislavskij è precisare l’identità del suo libro, affermare che non è il manuale, la “grammatica per recitare” dichiarata nell’edizione americana.

Questo è il salto che si verificò nel suo sguardo. Dall’autore ai lettori, che di un libro sono l’essenziale, oltre ogni rivendicazione di paternità. Lo conferma tutta la vicenda della collaborazione con la Reynolds, improntata a una sostanziale indifferenza verso quella che sarebbe stata l’edizione americana e, invece, a una puntigliosa attenzione verso l’edizione russa. La morte gli impedirà di curare con la stessa attenzione il secondo tomo. Ma ne resteranno comunque: il titolo, che lo lega indissolubilmente al primo; il sottotitolo, che ne afferma la natura di “diario di un allievo”; e la corrispondenza, infine, col tempo della “vita nell’arte”, che lo precisa come biografia – e non come teoria – della scienza.

Quel salto ci restituisce – al di là del “sistema” – una comunità di giovani attori che, sotto la guida spirituale d’un maestro, vivono la loro vita nell’arte, impegnati ad incorporare la condizione creativa come una seconda natura.

E’ vero, ci sono anche dei collaboratori di Torzov, l’apparenza può essere a volte quella di una scuola. Ma è apparenza, appunto. Il capitolo finale, con gli allievi che assistono eccitati alla preparazione di bandierine, nastri e cartelli per visualizzare il quadro del “sistema”, ha lo stesso inconfondibile colore degli attori seminudi che scorrazzano per le terre di Eupatorija, o degli “operai” di Copeau che familiarizzano con i vignaiuoli nel ritiro in Borgogna. E’ un momento di festa da condividere, non è la sintesi d’una teoria sulla quale sostenere l’esame finale.

Spigolare per citazioni sarebbe addirittura irriguardoso. Ma scambiare quei giovani alle prese col “non ci credo” del maestro – tra disperazione ed euforia, e mai abbandonati alla rassegnazione – per alunni d’una scuola; scambiare i salti d’umore di Torzov – tra bonarietà e severità, e mai abbandonato all’insofferenza – per espedienti didattici da professore; e scambiare infine gli esasperanti ritorni su uno stesso esercizio per il repetita iuvat da scagliare contro studenti dalla testa dura: cadere in simili travisamenti significa semplicemente non saper leggere. Accontentarsi di decifrare parole a risparmio, senza entrare nel ritmo – infatti, si dice anche: entrare nello spirito – a spreco. Il Lavoro dell’attore su se stesso, nell’edizione russa come l’autore lo volle, è un teatro laboratorio. Che è solo un altro modo per dire trasmissione dell’esperienza attraverso la parola scritta.

Stanislavskij raccomandava la pratica del “racconto ad occhi aperti”, nel confronto con i testi. Non riferirli o sintetizzarli, ma chiudere gli occhi, veder vivere personaggi e situazioni, e poi raccontare di quella vita. Ambienti in muratura o pagine, allora, nomi a stampa o allievi in carne ed ossa, parole scritte o a voce: non cambia.

*

Cambia rispetto alla materialità dell’oggetto, naturalmente. Non cambia rispetto alla sua concretezza. Una visione può essere molto più concreta della realtà che essa evoca. Il teatro materiale del Novecento deve molto alle visioni letterarie. Basti pensare a Il teatro e suo doppio di Artaud e alla complessiva opera di scrittore di Craig.

L’“immateriale concretezza” del libro laboratorio di Stanislavskij ci permette, anzi, di andare più a fondo sui tratti costitutivi del teatro laboratorio. Ad esempio, sul rapporto tra la comunità teatrale e la gioventù di coloro che ne fanno parte. Un rapporto di fatto, prima che di principio. Giovani erano stati gli allievi del Primo Studio; e ribadirà Stanislavskij in una lettera a Nemirovič-Dančenko del 9 gennaio 1915: “Io non credo nella possibilità di una piena rigenerazione dei nostri vecchi … il rinnovamento potrà arrivare soltanto attraverso la nuova generazione, come accade nella vita”.

Gli si deve credere, visto che aveva tentato di “rigenerare” gli attori del Teatro d’Arte in tutti i modi possibili, e sempre senza successo. Giovani saranno gli allievi cantanti dello Studio Operistico. Copeau addirittura destinava a bambini la sua scuola. Come se l’acquisizione della seconda natura presupponesse una “prima natura” non già compromessa dagli automatismi del mestiere, o anche della vita quotidiana.

Quale migliore spiegazione, ancora, rispetto alla guida spirituale, della coppia Torzov-Kostia? Come si spiega un foglio piegato in due, Torzov “il creativo” non è altri che Stanislavskij diventato più vecchio ed esperto di Konstantin, diminuito giovanilmente in Kostia. Se non sono materialmente una sola persona, Torzov e Kostia, ben lo sono concretamente. Ed è la simbiosi di maestro ed allievo – fin quasi a farne una sola persona – che fa del maestro una guida spirituale, come dimostra il passaggio dal Grotowski maestro di attori prima del Principe costante al Grotowski guida spirituale di Ryszard Cieslak, nel Principe costante.

E il lavoro giorno dietro giorno – duro, ripetitivo, intessuto di noia e d’improvvise epifanie – è l’immagine più efficace dell’impegno per passare dalla creazione una volta per tutte, alla condizione creativa come seconda natura.

I teatri laboratorio di Stanislavskij: la musica

Del lavoro intorno alla musica sappiamo fondamentalmente attraverso i capitoli del Lavoro dell’attore su se stesso dedicati al tempo-ritmo e attraverso le Conversazioni al Bol’šoj, che Stanislavskij indirizzò agli allievi cantanti tra il 1918 e il 1922, nello Studio Operistico.

Se si confrontano le due fonti, si resta sorpresi nel constatare che sembrano parlare di due cose diverse. Ma è proprio così. Nei capitoli del Lavoro dell’attore su se stesso dedicati al tempo-ritmo, Stanislavskij si occupa di come creare la musica dall’interno, da parte di chi non ne disponga dall’esterno, com’è il caso dell’attore-che-parla. Lo diremo, più propriamente uno studio per la musica. Nelle Conversazioni al Bol’šoj, si occupa dei vantaggi – e dei rischi – che la musica presenta a chi, come l’attore-che-canta, ne disponga dall’esterno. E’ uno studio sulla musica. Con lo studio sulla musica, Stanislavskij si congiunge a Grotowski.

Dei due studi dovremo trattare distintamente, perché distinti – e per certi aspetti opposti – sono i problemi con i quali essi si confrontano.

Lo studio per la musica

Fa dire, Torzov, a Stanislavskij:

 “E’ una scoperta eccezionale! Se è veramente così, significa che, una volta individuato nel modo giusto, il tempo-ritmo di un testo o di una parte può in maniera intuitiva, inconsapevole, e perfino meccanica, raggiungere il sentimento di un attore, facendo nascere la giusta reviviscenza” . 

Per il periodo in cui aveva puntato sulla via interiore alla reviviscenza, Stanislavskij aveva guardato al corpo come a uno schiavo riottoso dell’anima. Il problema era stato solo come indurlo a vivere, inducendo prima l’anima a credere. “Corpo che vive”, “anima che crede”: sono sue espressioni testuali. Con la “scoperta” della musica, si rese conto che il corpo è solo l’altra faccia dell’anima. Si può anche seguire la strada opposta: indurre l’anima a credere, inducendo prima il corpo a vivere. Dato che l’essenziale è giungere, comunque, all’espressione di sentimenti veri.

All’origine, c’era stato l’insuccesso di Mozart e Salieri, del 1915. Alle prese per la prima volta con i versi “terribili” di Puškin, Stanislavskij non riesce ad applicare con successo su se stesso il “sistema”, che riteneva ormai giunto a un livello di elaborazione definitivo, soprattutto dopo le verifiche incrociate di Un mese in campagna e dell’Amleto con Craig.

Lo registra senza reticenza nell’autobiografia russa, in un capitolo dal titolo severo e imperativo, L’attore deve saper parlare. Dopo aver ammesso di aver fatto “un terribile fiasco” nella parte di Salieri, conclude: “Mi sembrava che tutta la vita passata fosse stata vissuta invano, di non aver imparato niente, perché avevo seguito nell’arte una via sbagliata”. Nell’edizione americana, l’episodio di Mozart e Salieri manca del tutto; se ne fa solo un cenno evasivo in tre righe d’un capitolo relativo ad un periodo successivo.

In sintesi, Stanislavskij constata che, se allo sforzo per immergersi nelle circostanze date – e suscitare in tal modo la reviviscenza – si aggiunge un ulteriore sforzo, com’era stato quello di dominare i versi puškiniani, l’attore può perdere la capacità di “allontanarsi dalla parte”, e quindi di dominare contemporaneamente la “prospettiva del personaggio”, tutta focalizzata sul presente, e la “prospettiva della parte”, che deve invece collocarsi sopra il presente. Era capitato a lui, dopo più di dieci anni di applicazione sistematica, poteva capitare ad ogni altro attore.

Si fa strada un’ipotesi per uscire dalla “via sbagliata”: affidare la “vita del corpo” – e quindi la reviviscenza – alla musica. Ma la musica per l’attore-che-parla non è data dall’esterno, com’è per l’attore-che-canta. Dev’essere lui stesso a crearla. La musica esterna è un riferimento di partenza, ma da trapiantare subito nella specificità dell’attore-che-parla.

Fino dal dicembre 1915, Stanislavskij comincia a condurre esercitazioni al Primo Studio, con i cantanti del Bol’šoj. Gli si chiarisce sempre più la funzione conduttrice del tempo-ritmo. Il tempo-ritmo non conduce solo l’azione esteriore del cantante, può condurre anche la sua azione interiore. E quando a condurre è la grande musica, l’azione interiore è quella di un sentimento vero. Il tempo-ritmo della grande musica, così come il tempo-ritmo di un sentimento vero, è il tempo-ritmo giusto. Ma l’attore-che-canta questo lo ignora. Compiaciuto del bel canto, non si preoccupa nemmeno di impararlo. La musica guida i suoi movimenti, ma lui non sa come trasformare quei movimenti in azioni giustificate dall’interno, sentite. L’attore-che-parla, al contrario, sa come mobilitare l’interiorità – la pratica assidua dell’”azione reale” gliel’ha insegnato – ma non ha la musica a guidarlo.

L’attore-che-parla non è un cantante diminuito: ne è solo la metà mancante. E viceversa, il cantante è la metà che manca all’attore-che-parla.

Il lavoro per innestare l’attore-che-canta nell’attore-che-parla si concentra sull’azione fisica. La segmentazione in “azioni ausiliarie” – ognuna giustificata dal relativo compito – serviva all’attore per non allontanarsi dal presente. Ora, in più, il ritmo esteriore, determinato dalla segmentazione, assume il compito di confrontarsi con il ritmo interiore, registrare le eventuali sfasature, e modificarsi di conseguenza. E così via: dall’azione esteriore a quella interiore e, di rimando, dall’interno all’esterno. Finché il tempo-ritmo non diventi il tempo-ritmo giusto.

Il tempo-ritmo esteriore è l’equivalente della musica, per l’attore-che-parla. Quando diventi tempo-ritmo giusto – nella perfetta coincidenza tra esterno e interno, tra corpo e anima – la musica diventa grande musica. Il movimento dell’attore diventa danza, le parole portate dalla voce diventano poesia. E, insieme, danza poesia musica esprimono la “verità delle passioni umane”. D’un tale processo il tempo-ritmo esteriore è l’innesco e il costante strumento di verifica.

La scoperta della musica fu la vera rivoluzione del “sistema”.

La crisi aperta con Mozart e Salieri trova il punto di massima intensità con quella che lo stesso Stanislavskij definì la “tragedia del Villaggio Stepančikovo”, nel 1917. L’incapacità di venire a capo del personaggio di Rostanev affidandosi tutto e solo all’immersione nelle circostanze date, costrinse Nemirovič-Dančenko a esonerare Stanislavskij dalla parte. Messo in discussione il primato della via interiore alla reviviscenza, si afferma nel pensiero e nella prassi pedagogica di Stanislavskij il cosiddetto “metodo delle azioni fisiche”. Cosiddetto: perché il metodo delle azioni fisiche è via al sentimento vero – anche nell’uso per la costruzione del personaggio – a condizione che l’attore sia capace di far diventare le proprie azioni musica. E infine, grande musica.

Ma le azioni fisiche come musica dovranno attendere molti anni, per trovare il loro teatro laboratorio. A Stanislavskij ne restavano pochi da vivere, in continua convalescenza dopo il doppio infarto del 1928

Intorno alla poltrona da malato

Nell’autunno del 1935, Stanislavskij abbozza una lettera di risposta a Stalin che, due anni prima, gli aveva proposto di definire lo status del Teatro d’Arte, come grande teatro di Stato, e come Accademia per la formazione degli attori. Stanislavskij, in sostanza, gli obietta che è impossibile tenere le due cose insieme. La tradizione artistica del Teatro d’Arte va preservata e sviluppata ma, quanto alla formazione degli attori, per gran parte di quelli del Teatro d’Arte, veterani o novizi, “la maggiore creatività, che pone loro domande più grandi come uomini e come artisti, è un fastidio non necessario”.

Quanto a lui, “si è rivolto ai giovani” e con loro ha fondato pochi mesi fa – nel luglio – uno Studio Operistico-Drammatico. Nel frattempo – dice – continua a lavorare al libro sul “sistema”, con lo stesso intento di trasmettere l’esperienza della sua vita nell’arte. Quel libro, l’abbiamo riconosciuto come un teatro laboratorio. Ora che si specchia nell’ultimo teatro laboratorio di Stanislavskij, possiamo averne la conferma.

Lo Studio Operistico-Drammatico fu un teatro laboratorio estremo. Il suo presente fu il futuro. Il salto fu un salto morale. Il nome, di per sé, ne è l’espressione. Pare una semplice estensione dello Studio Operistico al Bol’šoj. Ne era, in realtà, la rivelazione dell’essenziale. L’attore-che-canta – è come se dicesse Stanislavskij, con quel titolo – non sarà più la metà mancante dell’attore-che-parla. Saranno una stessa cosa, con le stesse rischiose possibilità; solo, sotto la guida di forme diverse della musica. Note metronomo melodia ovvero azioni fisiche col loro tempo-ritmo. Questa proiezione al futuro fu il presente dello Studio Operistico-Drammatico.

Lavoravano nell’appartamento di Stanislavskij, in vicolo Leont’ev, intorno alla sua poltrona da malato: ed era spesso un lavoro al limite dell’acrobazia. Su un tale sfondo di dinamismo e gioventù, e del consueto buonumore, quale doveva essere il contrasto del volto di Stanislavskij! La sofferenza e l’ostinazione a continuare malgrado tutto avevano distillato dal maestro lo “spirito” della guida spirituale. Pietà euforia e il sentimento d’un mistero, dal gruppo d’allievi avevano distillato lo spirito d’una comunità.

L’azione sulla scena – aveva detto Stanislavskij – come la parola, deve essere musicale”. Erano attori drammatici, ma dovevano “cantare” le loro azioni fisiche. A questo li sollecitava di continuo la loro guida, senza mai indulgere al risultato di mezza misura. L’unica misura consentita nello Studio Operistico-Drammatico era la misura estrema.

Seguivano le istruzioni, come s’erano impegnati a fare fin dall’inizio, quando Stanislavskij li aveva avvertiti: “Se volete studiare, allora, incominciamo, se no, lasciamoci senza rancori. Voi andrete a teatro a continuare il vostro lavoro e io riunirò un altro gruppo e farò quello che ritengo il mio dovere nei confronti dell’arte”. Erano restati. Più che un accordo formale, il loro era stato un patto per la vita.

Non erano alunni disciplinati d’una scuola, né membri d’una compagnia pressati dall’urgenza della prima. Nella riunione inaugurale del lavoro per Tartufo, che li tenne impegnati nell’ultimo periodo dello Studio, Stanislavskij aveva messo in chiaro: “Non intendo affatto mettere in scena uno spettacolo … Quello che mi interessa adesso è trasmettere a voi l’esperienza che ho accumulato in tutta la mia vita”. Quello su cui erano chiamati a lavorare era la condizione creativa. Stanislavskij li aveva ammoniti che senza un’applicazione continua sarebbero arrivati a un “vicolo cieco della [loro] creatività”.

In una scena per Tartufo, i parenti discutono su come sottrarre Marianna al progetto di Orgone di darla in moglie a Tartufo. Gli allievi discettano sul “tono agitato” della situazione, ma Stanislavskij li obbliga a concentrarsi sull’azione di sottrarre, nascondere, fino a trovarne il tempo-ritmo giusto. E comincia un esercizio in cui, messo da parte Molière, tutti cercano concretamente di nascondere Marianna ad un immaginario pazzo che, armato di coltello, vorrebbe ucciderla.

Giocano: in realtà, lavoravano sulla condizione creativa, come una seconda natura basata sulla “musicalizzazione” del corpo.

Lo studio sulla musica

Nell’autunno 1918, Elena Malinovskaja, direttrice dei teatri accademici di Stato, aveva proposto al Teatro d’Arte di collaborare con il Bol’šoj, prevedendo allo scopo la creazione di un apposito Studio. Nemirovič-Dančenko e Stanislavskij accettarono. Ma, mentre Nemirovič-Dančenko lavorò all’interno del Bol’šoj, Stanislavskij lo faceva separatamente in due stanze riservate alle prove. Successivamente, si trasferì nel proprio appartamento, in vicolo Leont’ev, dove avrà luogo il suo ultimo teatro laboratorio. Di fatto, lo Studio Musicale del Teatro d’Arte, istituito nel 1919 da Nemirovič-Dančenko, non ebbe alcun rapporto con il lavoro di Stanislavskij. Com’era accaduto per il Primo Studio, anche all’origine dello Studio Operistico ci fu un distacco.

Stanislavskij scelse come compagni d’avventura i cantanti più giovani. Una del gruppo, Konkordia Antarova, ne trascrisse le “conversazioni” tenute nei primi quattro anni. Alcune citazioni, tra le tante possibili, saranno sufficienti a precisare quella che per Stanislavskij e per i suoi allievi doveva essere la natura dello Studio.

“Lo Studio è un po’ come l’atrio del tempio dell’arte”. Se il maestro dovesse trasformare l’insegnamento in un “noiosissimo dispotismo senza risate felici durante gli esercizi, allora lo Studio non diventerà mai un tempio dell’arte”. Quest’espressione – teatro-tempio – l’abbiamo già incontrata: Suler l’aveva usata per il Primo Studio, nella nostalgia per la versione “anagogica” di Eupatorija. “Chiunque sia nella vita privata, lo studente-attore, appena entra allo Studio, diventa un membro della nuova famiglia”. Suler aveva detto “focolare comune”: lo spirito è lo stesso.

Continuano su questo tono, le prime sei conversazioni; e insistono su quale debba essere l’obiettivo dello Studio, al di là delle tecniche messe in campo. La “vita dell’uomo artista consiste nella sua creatività”; “vi dovete preparare a questa alta missione, vale a dire al lavoro creativo”; “Lo Studio deve rivelare uno dopo l’altro all’allievo i misteri del lavoro creativo”.

Ci sono “sette gradini” per accedere a quei misteri: attenzione, sorveglianza mentale, coraggio, calma creativa, tensione eroica, fascino, gioia. Coraggio, chiarisce altrove Stanislavskij, è la capacità di non bloccare l’azione per calcolo razionale, ma lasciarla fluire organicamente. Fascino non è altro che sincerità. Chi arriva all’ultimo gradino della scala – uomo, o attore che parli o che canti – è come se diventasse un altro uomo. “Seconda nascita” è il nome che Stanislavskij dà ora alla seconda natura.

Comunità, guida spirituale, seconda natura come condizione creativa: nella scena e, attraverso l’arte della scena, nella vita. Lo Studio Operistico al Bol’šoj fu un vero teatro laboratorio.

 “Al sorgere dello Studio dell’opera – ricorda Stanislavskij nell’autobiografia – io ne assunsi la direzione con molta esitazione. Ma in seguito, vedendo l’effettiva utilità che me ne derivava nel campo della mia specialità, compresi che attraverso la musica e il canto io potevo trovare un’uscita dal vicolo cieco nel quale mi avevano cacciato le mie ricerche”.

Accentua quanto aveva affermato dopo il fiasco di Mozart e Salieri. La via sbagliata diventa un vicolo cieco. Durante gli anni allo Studio Operistico, mentre insegnava all’attore-che-canta come aprire le porte dell’interiorità, imparava per l’attore-che-parla come produrla senza “metronomo, né note, né partiture stampate, né direttore d’orchestra”.

La rivoluzione tra creazione del personaggio e condizione creativa come seconda natura, maturata nello “scoglio in Finlandia”, può essere riproposta in termini di precisione. “Vera arte e recitazione ‘generica’ non possono stare assieme. L’una esclude l’altra”, così Stanislavskij riassume il suo continuo monito contro la recitazione imitativa. L’azione dell’attore deve essere ogni volta precisa. Altrimenti, diventa “in generale”: imitazione, sia pure di un risultato raggiunto in base alla condizione creativa, com’era accaduto per il personaggio del dottor Stockman.

Precisione è la perfetta aderenza dell’azione a tutte le circostanze che la determinano qui e ora, non a quelle che l’hanno determinata là e allora, all’atto della costruzione del personaggio. Le circostanze mutano ad ogni replica. Cambia lo sguardo del compagno di scena, s’attenua o si eleva il tono della sua battuta, varia la qualità della luce. Si modifica lo stesso stato interiore e fisico dell’attore. L’attore deve ogni volta reagire a tutte queste mutate circostanze, deve ogni volta trovare l’azione che è precisa, senza contentarsi di ripetere l’azione che magari è stata precisa, e che si è fissata nella memoria muscolare.

E’ necessaria una certa preparazione spirituale – dice infatti Stanislavskij – prima di dare inizio alla creazione, ogni volta, a ogni sua ripetizione. E’ necessaria, prima dello spettacolo, una toletta non solo corporale, ma soprattutto spirituale. Occorre, prima di creare, essere capaci di entrare in quella atmosfera spirituale, nella quale soltanto è possibile il mistero della creazione”.

Ma la soluzione della toletta spirituale equivale di fatto a riproporre il problema. La toletta spirituale è un monito per l’attore. Come trovare ogni volta l’azione precisa, resta “il mistero della creazione”.

Se non dà la soluzione, Stanislavskij però indica una figura-guida da seguire. Dopo aver ammirato un funambolo, ai Giardini d’Estate, lo addita come esempio agli attori perché l’“acrobata non fa niente a caso. Non lascia niente al caso. Sa benissimo che basta che scivoli per rompersi l’osso del collo”. L’acrobata non può affidarsi alla memoria muscolare della prima volta. Deve trovare la precisione ogni volta: alla mutata direzione del vento, alla diversa elasticità della fune, al proprio stato interiore e fisico … Deve: altrimenti rischia la morte.

Così come l’attore che, se si affida alla memoria muscolare della prima volta, rischia la “morte spirituale” della parte.

Condizione creativa, precisione dell’azione, figura-guida dell’acrobata: con questo lascito dallo scoglio in Finlandia, Stanislavskij entrò, nel 1918, nello Studio Operistico del Teatro Bol’šoj. Le pietra di fondamenta del “sistema” s’erano ricomposte in un quadro più ampio, che ora comprendeva anche il tempo-ritmo e, per l’attore-che-canta, la musica esterna. Attori cantanti erano gli allievi dello Studio Operistico.

A loro Stanislavskij poteva chiedere di più, rispetto all’attore-che-parla. Con la musica, e con la padronanza della condizione creativa, c’è quello che lui stesso indica come “il passaggio del Rubicone”.

Ora abbiamo, per così dire, attraversato il Rubicone, e possiamo procedere nel nostro lavoro creativo. Non ci occuperemo più del lavoro dell’attore sulla parte o su se stesso, ma del problema di dove collocare tutte le energie dell’attenzione nel lavoro sulla parte, senza che ci sia conflitto tra il vostro io e il se io, cioè la parte”.

Cerca di spiegare: l’attore deve portare “tutte le sue energie, sentimenti e pensieri, espressi nell’azione fisica, al grado più alto permesso dalla verità dell’esecuzione”. E non ha remore ad esemplificare dicendo che, nell’attore che sta seduto senza dire una parola, la posa dev’essere “rilassata al massimo”; e che, se sporge la testa da dietro un cespuglio, “la testa deve sporgere effettivamente il più possibile”.

Prende in esame l’esecuzione di un attore: “Ha impostato in modo corretto i problemi e li ha risolti correttamente? Sì. Il suo corpo è libero da impedimenti? Sì. La vita dell’artista scorre all’interno del cerchio creativo? Sì, ancora”. E allora, cosa manca – si chiede – che invece c’è nell’attore di genio? Ciò che manca, risponde, è la tensione eroica.

La condizione eroica è il grado ulteriore e ultimo della condizione creativa.

La condizione eroica parte dal corpo: che dev’essere estremamente rilassato, estremamente teso. Teso o rilassato, la condizione eroica è questione di misura, di “evidenza della tensione più estrema”.

Poi, dal corpo, va al cuore e alla testa.

“Supponiamo che tu debba recitare una scena drammatica con tua sorella che ti ha soffiato il marito col quale hai vissuto per venti anni … Come potrai dar vita alla scena, quando potrai raggiungere le vette dell’arte creativa? Solo quando avrai passato il Rubicone, avrai dimenticato te stessa e ti sarai innalzata a sentimenti migliori. Solo quando avrai scoperto le circostanze che attenuano la colpa di tua sorella, solo quando comincerai a chiederti quando e dove tu stessa hai fatto torto a tuo marito. Allora, sgorgando da te, fluirà nella parte un’onda di bontà e non di maledizioni, e in più l’energia che nasce dalla tensione eroica del cuore femminile e del perdono”.

Salta di qualità, il compito dell’attore. Se la condizione creativa lo impegnava all’espressione precisa della passione del personaggio, la condizione eroica lo chiama all’espressione oggettiva della compassione per la condizione umana. Lo dice esplicitamente:

 “Tutto ciò che è contingente, convenzionale, deve essere eliminato dalle qualità del ruolo. Dovete scoprire l’essenziale in ogni qualità, solo la natura organica di una passione, e non la sfumatura casuale data nel testo a questo o quel sentimento e all’azione che ne deriva”.

Superficialmente, identifichiamo l’eroe pensando solo alle modalità dell’azione eroica. Eroe come individuo spericolato, coraggioso fino all’estremo, quasi amante del rischio di per sé. Ma, se l’eroe è anche questo, prima dev’essere colui che assume su di sé una condizione che lo trascende in quanto persona – la condizione di un popolo, di un gruppo sociale, di un ideale condiviso – e che si configura come oggettiva. Se agisce solo in nome di se stesso, è la tragica caricatura d’un vero eroe.

C’è un doppio vettore nell’azione dell’eroe. Uno che porta all’interno, verso l’azione per se stessa e il suo protagonista in quanto individuo. L’altro che porta all’esterno, verso ciò che l’azione rappresenta per tutti gli uomini, a prescindere dall’individuo particolare che la compie. L’azione eroica di per sé non basta; e tuttavia l’eroe non può eluderla, pena la perdita del vettore che ne permette la trascendenza.

Se l’acrobata era la figura-guida della condizione creativa, la figura-guida della condizione eroica è l’eroe.

L’acrobata agisce per se stesso, l’eroe agisce per tutti gli esseri umani che rappresenta.

L’acrobata si sottomette all’azione, l’eroe si dona all’azione.

L’azione dell’acrobata è obbligata dalla precisione; l’azione dell’eroe è necessaria, in quanto è oggettiva.

Se il rischio dell’acrobata è morire, il rischio dell’eroe è morire inutilmente.

E’ quella che Artaud chiamerà “crudeltà”.

Se ci si vuole fare un’idea della condizione eroica, basterà riguardare la scena del martirio in Jeanne D’Arc di Dreyer. Giovanna raccoglie da terra la corda caduta di mano al boia, ed è la corda con la quale verrà legata al palo del supplizio. Si rimbocca la manica per scoprire i polsi da immobilizzare. Con attenzione monta i gradini del patibolo. Sono azioni estremamente precise, ma a guidarle non è l’efficacia per non morire, come per l’acrobata, è la necessità di non morire di una morte inutile. Scoppierà la rivolta, infatti, come risultato del suo martirio.

La suggestione sembra far volare troppo alto le parole. Ma che altro chiedeva Stanislavskij all’attrice tradita dalla sorella e dal marito? Bontà, non maledizioni; non desiderio di vendetta ma perdono. Perché questo è la condizione eroica: rivelazione della “vita nel suo insieme”, oltre il particolare “avvenimento sulla scena”.

L’acrobata guidava l’attore richiamandolo continuamente alle circostanze qui e ora dell’azione; l’eroe guida l’attore proponendogli le circostanze qui e ora dell’azione come trampolino per trascenderle. Dalla maledizione alla bontà, dalla vendetta al perdono. Ma più che da a: maledizione e bontà, vendetta e perdono, insieme. Nell’attore in condizione eroica, più che non esserci “interruzione … nei passaggi dall’odio più profondo e incandescente a una improvvisa ingenuità infantile. Semplicemente spari[sce] l’abisso enorme tra questi sentimenti”.

Uscire dallo spettacolo

L’attore che non sa porsi in condizione creativa rischia di morire; l’attore che non sa porsi in condizione eroica rischia di morire inutilmente. Ma in teatro, acrobata o eroe, la morte è “come se”. C’è da chiedersi cosa rischi, senza “come se”, l’attore che rappresenta “solo la natura organica di una passione, e non la sfumatura casuale data nel testo a questo o quel sentimento e all’azione che ne deriva”.

La risposta l’ha data Grotowski, a parole e con la sua opera. Dice Thomas Richards che il lavoro di Stanislavskij si riferiva al

 “contesto della comune vita di relazione: persone in circostanze ‘realistiche’ … [ma l’] arte dell’attore non è necessariamente limitata a situazioni realistiche. A volte, più alto è il livello e la qualità dell’arte, più essa si allontana da questo fondamento realistico, entrando nei domini dell’eccezionalità … E’ precisamente ciò che ha sempre interessato davvero Grotowski nel suo lavoro con l’attore”.

E ancora, dando la parola direttamente a Grotowski:

 “L’essere umano al ‘massimo interiore’ utilizza segni ritmicamente articolati, comincia a ‘danzare’, a ‘cantare’. In questo modo non un gesto comune o una naturalezza quotidiana ma un segno è proprio dell’espressione elementare degli esseri umani”.

Stanislavskij avrebbe integralmente sottoscritto. O meglio, avrebbe sottoscritto lo Stanislavskij dello studio sulla musica. L’aveva detto, che non si sarebbero più occupati del “lavoro dell’attore sulla parte”. Avrebbero cercato di andarne, secondo le parole di Grotowski, oltre il “fondamento realistico”.

Nel tempo della storia, da Stanislavskij a Grotowski c’è il passaggio dall’attore che porta ad evidenza di verità un personaggio, all’attore che porta ad evidenza di verità l’essere umano “al ‘massimo interiore’”. Nella biografia di Stanislavskij, c’è il passaggio dalla condizione creativa alla condizione eroica.

Ed è identico il rischio: l’uscita dallo spettacolo. Dove gli estremi si confondono – bontà e maledizioni, vendetta e perdono – il rischio è che sparisca il personaggio, il pezzo di vita rappresentato dal testo, per lasciare il posto solo alla “vita nel suo insieme”.

*

Le conversazioni al Bol’šoj sono tra il 1918 e il 1922. La condizione eroica ne occupa interamente tre (dalla XIX alla XXI), e rimane poi come filo sotteso fino alla fine. E’, senza alcun dubbio, il culmine dell’insegnamento. La mia vita nell’arte, nelle due edizioni, è del 1924 e del 1926; la preparazione del Lavoro dell’attore su se stesso va dal 1930 al 1938. Ma della condizione eroica non si trova più traccia, né nell’autobiografia né nella parte del libro sul “sistema” dedicata al tempo-ritmo, cioè al problema della musica per l’attore-che-parla.

Che per Stanislavskij fosse la posta della condizione eroica a prevalere sul rischio di uscire dallo spettacolo o viceversa, una domanda resta comunque aperta. Se in generale fosse stata la posta a prevalere, perché Stanislavskij lasciò cadere l’argomento? E se in generale fosse stato il rischio a prevalere, perché Stanislavskij pose la condizione eroica al centro di una parte così rilevante – e così impegnativa per gli sviluppi a venire – del suo lavoro pedagogico? Come c’è da aspettarsi, è lo sguardo in generale a confondere le acque. Semplicemente – precisamente – la posta valeva il rischio in presenza della musica. Era troppo grande in assenza della musica.

Il che, se dà ragione dei fatti, non ne dà la ragione. Ma scrive Thomas Richards:

 “Un’altra differenza tra il lavoro di Stanislavskij e quello di Grotowski … concerne il ‘personaggio’. Nel lavoro di Stanislavskij il ‘personaggio’ è un essere interamente nuovo che nasce dalla combinazione fra il personaggio scritto dall’autore e l’attore stesso … Negli spettacoli di Grotowski, invece, il ‘personaggio’ esisteva più come uno schermo pubblico che proteggeva l’attore … Questo si può vedere chiaramente nel caso del Principe Costante di Cieslak. Il ‘personaggio’ era costruito dal regista, non dall’attore, e serviva a tenere occupata la mente dello spettatore con la storia … Il ‘personaggio’ proteggeva l’attore, che dietro questo schermo aveva ancora la sua intimità, la sua sicurezza” .

Se si vuole consentire all’attore di uscire dal personaggio e nello stesso tempo “tenere occupata la mente dello spettatore” con la storia rappresentata, occorre che a farsi garante dello spettacolo sia il regista. Questo dice Grotowski, a chiare lettere.

Oppure che sia la musica: questo aveva detto Stanislavskij, senza dirlo. La musica per Stanislavskij fu l’equivalente del regista per Grotowski. Per Grotowski attraverso la regia, per Stanislavskij attraverso la musica, fu la stessa scommessa: uscire dallo spettacolo senza perdere lo spettacolo.

Teatro, spettacolo, teatro laboratorio

Uscire dallo spettacolo vuol dire prima di tutto consentire allo spettacolo di uscire da se stesso. Al pari dell’azione del vero eroe, anche in certi spettacoli è come se ci fossero due vettori: uno che porta all’interno, e obbliga lo spettatore a guardare lì dove si vede; l’altro, che lo spinge a guardare oltre. Non c’è bisogno di dimostrazioni, appartiene all’esperienza d’ogni spettatore esigente. Sono legati intimamente: lo spettacolo non può uscire da se stesso se allo stesso tempo non afferma se stesso. Però non basta.

Scorre la composizione registica e drammaturgica, o scorre la grande musica. Protetto da quello schermo, l’attore o il cantante che ne abbia maturato la volontà e il talento può uscire dal personaggio, e trascenderlo verso la condizione umana nella sua universalità. Dall’altra parte, mentre lo spettacolo lo impegna nell’esperienza di ordine artistico, lo spettatore che ne abbia maturato l’esigenza può incontrare un’esperienza di vita: che passa per la propria persona, ma senza fermarsi lì

Non è stato questo il miracolo nello spettacolo di Cieslak e Grotowski?

Non era questo il miracolo nello spettacolo di Maria Callas?

*

Ma il gesto clamoroso di Grotowski, nel 1970, ha indotto molti a credere che uscire dallo spettacolo significhi solo e necessariamente abbandonarlo. Non è questo l’insegnamento da trarre da Grotowski. Quel gesto chiama in causa piuttosto il rapporto tra teatro e spettacolo.

Cos’ha fatto Grotowski con la sua “uscita dallo spettacolo”? Ha abbandonato l’attività di regista, ma non ha abbandonato gli strumenti delle performing arts, secondo la sua terminologia poliglotta, e allo stesso fine di procurare allo spettatore-partecipante quell’esperienza di vita che gli aveva procurato, in maniera definitiva, con Il Principe costante. Grotowski è uscito dallo spettacolo, ma è rimasto all’interno del teatro; solo che lo ha fatto rinunciando alla forma spettacolo.

Che spettacolo e teatro non siano sinonimi, è l’evidenza del teatro del Novecento. Da un tale presupposto, troppo spesso se n’è concluso che spettacolo e teatro siano opposti. Ma il teatro non si oppone allo spettacolo. Esattamente: il teatro include lo spettacolo, ma non lo implica. Vuol dire che può al limite azzerarlo, o sospenderlo, pur mantenendone e usandone e affinandone tutti gli strumenti.

Dato che lo include senza implicarlo, il teatro può essere definito come ciò che supera lo spettacolo: nello spazio, nel tempo e nella funzione.

Nello spazio e nel tempo, vuol dire che ne supera il mero accadimento. Lo inscrive in un sapere – ma sapere, ammonisce Stanislavskij, significa “essere in grado di” – che è di lunga durata, malgrado l’accadere puntuale degli spettacoli. L’Antropologia Teatrale, con la ricerca dei principi pre-espressivi dell’attore, serve primariamente il teatro, e solo secondariamente i suoi spettacoli. Il sovvertimento di questa gerarchia ha creato non pochi guasti. Chi non ricorda tanti spettacoli brutti, che tentavano di costringere nella scena i principi dell’Antropologia Teatrale? Nella funzione, il teatro supera lo spettacolo liberando l’azione per la scena anche come laboratorio dell’azione per la vita.

Ecco, in ultima analisi il teatro laboratorio è proprio il laboratorio del teatro.

Per costruire un nuovo attore e, attraverso l’attore, anche un uomo nuovo.

Non è molto diverso dalla fucina di “corpi senz’organi” di Artaud. O dal “teatro in ebollizione”, presagito da Stanislavskij mentre, nel lavoro d’ogni giorno, cercava di far crescere la temperatura del teatro.



Dall’American LaboratoryTheatre è nato, nel 1931, il Group Theatre e, da quello, nel ’47, l’Actors Studio. Il Teatr Laboratorium ha chiuso definitivamente nel 1984, mentre il Nordisk Teaterlaboratorium è tuttora attivo. Atelier si è chiamato, per primo, quello di Charles Dullin, fondato a Parigi nel 1921. Vi hanno lavorato, tra gli altri, Antonin Artaud, Jean-Louis Barrault ed Etienne Decroux. Il Theatre Workshop più noto è quello di Joan Littlewood, attivo negli anni ‘50 a Manchester. Tra le numerose Scuole, ricordiamo quella di Jacques Copeau, che iniziò la sua attività nel 1920-21.Tra i teatri laboratorio a prescindere dal nome, ricordiamo per tutti il Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck, fondato a New York nel 1947. Quanto ai teatri laboratorio malgrado il nome diverso, scelto dopo Grotowski, ci si riferisce in particolare al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, e al Centre de Création Théâtrale di Peter Brook. Quanto a Stanislavskij, va ricordato che c’era stato, prima del 1912, lo Studio sulla Via Povarskaja, fondato nel 1905 con Mejerchol’d. Ma durò solo un anno, e l’eredità ne restò soprattutto a Mejerchol’d.

Di questi e di altri problemi consimili, si è dibattuto nella sessione del 2003 dell’”Università del Teatro eurasiano” (Scilla, 21-16 giugno), in preparazione del Simposio Internazionale Why a Theatre Laboratory?, tenuto recentemente ad Aarhus (4-6ottobre 2004), per iniziativa di Eugenio Barba.

In una lettera a Pierre Loeb, del 23 aprile 1947 – presso la cui galleria d’arte, saranno presentate due letture di testi di Artaud, tra il 4 e il 20 luglio – Artaud scrive: “Che cosa fu Baudelaire, che cosa furono Edgard Poe, Nietszche, Gérard de Nerval? Corpi che mangiarono, digerirono, dormirono, russarono, cacarono tra 25 e 30.000 volte, e a fronte di 30 o 40.000 pasti … devono presentare ognuno 50 poemi … Noi siamo 50 poemi, il resto non siamo noi …”. Cito dalla traduzione di M. Dotti, in A. Artaud, Per farla finita col giudizio di dio, Stampa Alternativa, Roma 2000, pp. 105-6 (l’originale è in G. Charbonnier, Antonin Artaud, Seghers, Paris 1959). Sul cosiddetto “teatro della follia” di Artaud, cfr. l’ottimo M. De Marinis, La danza alla rovescia di Artaud. Il secondo teatro della crudeltà, I Quaderni del Battello ebbro, Porretta Terme 1999.

K. Stanislavskij, Opere scelte (Sobranie sočinenij) t. I (Mosca 1954) , trad. it. La mia vita nell’arte, Einaudi, Torino 1963, p. 427. Facciamo riferimento all’edizione italiana, in quanto essa è la traduzione letterale dell’edizione russa.

Cfr. in particolare F. Cruciani, Teatro nel Novecento. Registi pedagoghi e comunità teatrali nel XX secolo, Sansoni, Firenze 1985 (nuova ed. Editori & Associati, Roma 1995). E’ un libro che nel titolo – con quel richiamo alla pedagogia e alle comunità teatrali – concentra la proposta critica distribuita lungo i contributi che lo compongono.

“Le prove sono una grande avventura”, dice Grotowski, e poi: “Allora abbiamo: prove per lo spettacolo e prove non del tutto per lo spettacolo, volte piuttosto a scoprire le possibilità degli attori”. Cfr. Dalla compagnia teatrale a L’arte come veicolo, in Th. Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993., in particolare pp. 126-27. L’idea delle prove come avventura è sottesa o dichiarata in tutti gli scritti di Grotowski.

Della “corsa della regina rossa” ha parlato Mirella Schino nella relazione introduttiva al citato Simposio di Aarhus, dal titolo Theatre Laboratory as a Blasphemy. L’intento della Schino è quello di inserire il teatro laboratorio in una dialettica con il teatro in quanto produttore di spettacoli. La mia prospettiva è, piuttosto, quella di distinguere i due ambiti; ma distinguere non vuol dire separare né, tanto meno, opporre. Della Schino, un quadro di riferimento al problema del teatro laboratorio si trova in La nascita della regia teatrale, Laterza, Roma-Bari 2003.

La lettera di Sulerzičkij è pubblicata quasi integralmente in F. Mollica (a c. di), Il teatro possibile. Stanislavskij e il Primo Studio al Teatro d’Arte di Mosca, La casa Usher, Firenze 1989, pp. 191-94; la cit. è alle pp. 191-92.

Nei suoi appunti per la costituenda scuola, Copeau scrive che doveva esserci “un legame di comunità … sotto l’ispirazione di un’unica personalità” Cfr. J. Copeau, La scuola del Vieux Colombier. Progetto di una scuola tecnica per il rinnovamento dell’arte drammatica (1916), in Il luogo del teatro, a c. di M. I. Aliverti, La casa Usher, Firenze 1988, p. 57, corsivo dell’autore. Copeau dice scuola, ma che pensasse a un laboratorio lo rivela non foss’altro l’esito dei Copiaus, di lì a qualche anno.

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit.; le cit. sono rispettivamente a p. 425 e p. 426.

K. Stanislavskij, L’attore creativo, a c. di F. Cruciani e C. Falletti, La casa Usher, Firenze 1980, che, oltre a vari saggi e ad una Risposta a Stanislavskij di Jerzy Grotowski, contiene il testo delle “conversazioni” tenute al Bol’šoj; conv. V, p. 65, corsivi miei.

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit., pp. 362-63.

Cfr. F. Mollica (a c. di), Il teatro possibile, cit., pp. 191-92, corsivi miei.

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit., p. 432.

J. Copeau, La scuola del Vieux Colombier, cit., in Il luogo del teatro, cit., p. 59, corsivo dell’autore.

Cfr. J. Copeau, La fuga in Borgogna. I Copiaus, in Il luogo del teatro, cit. E’ il testo di una delle tre conferenze pronunciate all’American Laboratory Theatre, nel gennaio 1927.

Dice Grotowski che non vuole avere “allievi. Voglio avere dei compagni d’armi. Voglio avere una fratellanza d’armi”. Cfr. Risposta a Stanislavskij, in K. Stanislavskij, L’attore creativo, cit., p. 192.

Per un quadro di sintesi sul confronto tra le due edizioni dei “libri in vita” di Stanislavskij, cfr. il mio Romanzo pedagogico. Uno studio sui libri di Stanislavskij, in “Teatro e Storia”, 10, apr. 1991, e il capitolo Trasmettere l’esperienza. I libri di Stanislavskij, in Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Laterza, Roma-Bari 2003 (nuova ed. accresciuta Laterza, Roma-Bari 2005). Basandosi sulle edizioni russe, tra l’altro, risulta evidente che l’autobiografia e il libro sul “sistema” si corrispondono puntualmente secondo l’ordine cronologico della “vita nell’arte”. Gran parte del lavoro di revisione operato per la versione russa dell’autobiografia punta proprio a precisare tale corrispondenza. L’ordine del libro sul “sistema” non è l’ordine logico di una teoria, è l’ordine organico di un’esperienza in continua maturazione. Il libro sul “sistema” si propone come una biografia della scienza, non un trattato sulla scienza dell’attore. L’edizione italiana de Il lavoro dell’attore su se stesso, Laterza, Roma-Bari 1997, corrisponde – integralmente per il primo tomo, e quasi integralmente per il secondo – al secondo e terzo tomo dell’edizione russa delle Opere scelte, Mosca 1954 e 1955.

K. Stanislavskij, S. S. II, trad. it. Il lavoro dell’attore su se stesso, cit., p. XLIX.

Cfr. J. Benedetti, A History of Stanislavski in Translation, in “New Theatre Quarterly”, VI, 23, aug. 1990, e N. Houghton, Les répétitions au Théâtre d’Art dans les années ’30, in Le siècle Stanislavski, “Bouffonneries”, 20-21, 1989. Per una bibliografia più completa sull’argomento, cfr. il mio Stanislavskij, cit.

Del “racconto ad occhi aperti”, Stanislavskij parla nei materiali per Otello (1930-33), raccolti in Il lavoro dell’attore sul personaggio [nelle Opere scelte, t. IV, Mosca 1956], Laterza, Roma-Bari 1988, in particolare pp. 148-50. Ma sulla regia di Otello si veda anche Othello, mise en scène et commentaires de C. Stanislavski [Mosca 1945], a c. di N. Gourfinkel, Seuil, Paris 1948.

La lettera è contenuta nel t. VII delle Opere scelte di Stanislavskij; citata in F. Mollica (a c. di), Il teatro possibile, cit., p. 184.

K. Stanislavskij, S. S. III, trad. it. Il lavoro dell’attore su se stesso, cit. p. 454.

Nel gennaio 1909, il Teatro d’Arte aveva deliberato di produrre insieme Un mese in campagna di Turgenev e l’Amleto con Craig, debutti previsti rispettivamente per lo stesso 1909 e per il 1910. Stanislavskij decide di lavorare su entrambe le produzioni, soprattutto per provare la validità generale del “sistema”: con un testo dal tono intimistico come Un mese in campagna, e con un classico come Amleto. Un mese in campagna debuttò alla scadenza prevista e fu un trionfo. Stanislavskij vi aveva sperimentato, tra l’altro, la possibilità dell’attore di “irradiare” in condizioni di quasi totale immobilità. Amleto, ostacolato anche da una malattia che tenne lontano Stanislavskij per quasi un anno, debuttò il 13 dicembre 1911. Non fu un trionfo, ma il successo di critica convinse comunque Stanislavskij che il “sistema” avesse superato la prova incrociata. Cfr. J. Benedetti, The System Emerges, in Stanislavski. A Biography, Methuen, London 1988.

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit., p. 449, corsivo mio.

L’accenno si trova ad apertura del capitolo The Opera Studio.

K. Stanislavskij, S. S. III, trad. it. Il lavoro dell’attore su se stesso, cit. p. 409.

“Musicalizzare l’attore”, fu anche il progetto di Copeau. Pensò inizialmente di affidarne la realizzazione alla ritmica di Emile Jaques-Dalcroze, salvo a rendersi conto ben presto che l’obbedienza alla musica esterna non basta e, anzi, che l’obbedienza può trasformarsi in dipendenza. L’attore diventa un virtuoso, ma si “disumanizza”. Cfr. J. Copeau, Lettera a Jaques-Dalcroze (1921), in Il luogo del teatro, cit. Sul conflitto tra Copeau e Dalcroze, e sulla decisione di Copeau di rivolgersi al “metodo naturale” di Georges Hébert, cfr. il mio Teatro e Boxe, Il Mulino, Bologna 1994.

“Come organizziamo l’insegnamento dello Studio con voi? Per mezzo di esercizi ritmici cerchiamo di raggiungere l’accordo dei movimenti del corpo con le vostre parti, i vostri organi musicali. Ma da dove abbiamo preso questo senso musicale? Siamo partiti dal ritmo, dalla parola e dal suono,dalla vita che il compositore ha rivestito di suoni. Questi suoni, in virtù del suo genio e del fuoco del suo cuore, li ha fusi col ritmo con il quale un certo personaggio viveva, nella sua consapevolezza” (L’attore creativo, cit., XXVI, pp. 142-43). E’ una definizione chiara della “grande musica”, e della sua capacità di contenere – nel tempo-ritmo giusto – la verità delle passioni umane.

Stanislavskij prescrive esplicitamente ai cantanti: “Per portare la musica, il canto, la parola e l’azione all’unità occorre non il tempo-ritmo esterno, fisico, ma quello interno, spirituale” (La mia vita nell’arte, cit., p. 472). E Pavel Ivanovič Rumjancev, baritono entrato nello Studio Operistico nel 1920, a vent’anni, nel suo Stanislavski on Opera [Mosca 1969], Theatre Arts Books, New York 1975, trad. e cura di Elizabeth Reynolds, insiste costantemente su questo punto. “Stanislavski did not recognize any beauty in gesture or pose for its own sake; he always insisted on some action behind it, some reason for a given pose or gesture based on imagination”. A Stanislavskij, tra le altre, attribuisce questa affermazione lapidaria: “Action is that counts, a gesture all by itself is nothing but nonsense” (p. 6).

La lettera è parzialmente pubblicata in J. Benedetti, Stanislavski, cit. La cit. è a p. 337.

Sulla centralità del tempo-ritmo nell’ultimo Studio di Stanislavskij, c’è la testimonianza entusiasta e continuamente ribadita di Toporkov. Dice che “’ritmo’, ‘tempo’, ‘tempo-ritmo’” erano “espressioni correnti nella bocca di registi, attori e critici teatrali”, ma nessuno – lui compreso, ed escluso naturalmente Stanislavskij – avrebbe saputo dire cosa significassero (Cfr. Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Ubulibri, Milano 1991, pp. 41-42).

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit., p. 471.

Toporkov afferma che Stanislavskij “mirava, se così si può dire, a una ‘buona dizione’ delle azioni fisiche” (Stanislavskij alle prove, cit., p. 113). Che Toporkov intendesse la “buona dizione” nel senso della musica, lo rivela quando dichiara di essersi potuto fare un’idea del tempo-ritmo in quanto, da ex musicista, “avev[a] una certa dimestichezza con quegli esercizi” (p. 44). “Cantare le azioni” può essere inteso come un sinonimo di danza.

V. Toporkov, Stanislavskij alle prove, cit., pp. 106-7.

Dal 1924, lo Studio Operistico venne definitivamente separato dal Bol’šoj, col nome di Studio Operistico Stanislavskij. Nel 1926 fu trasformato in Studio-Teatro Operistico e, nel 1928, in Teatro d’Opera Stanislavskij.

Le citazioni sono in L’attore creativo, cit., rispettivamente III, p. 54;VI, p. 70; X, p. 78.

Le citazioni sono in L’attore creativo, cit., rispettivamente III, p. 53; IV, p. 59; VI, p. 68.

V. Toporkov, Stanislavskij alle prove, cit., p. 112 e p. 109.

K. Stanislavskij, L’attore creativo, cit., IX, p. 76.

Come per il Primo Studio, non entriamo nel merito degli esercizi che venivano eseguiti nello Studio Operistico. Ma di uno almeno va fatto cenno. Nella XV conversazione, si descrive un esercizio per sviluppare l’attenzione. Si trattava, in sostanza – ma la descrizione è molto lunga e dettagliata – di accordare la respirazione con vari movimenti delle braccia e delle dita, finché il movimento fosse portato dal respiro e viceversa: movimento e respiro diventassero una sola cosa (L’attore creativo, cit., pp. 97-98). Di esercizi del genere parla anche Rumjancev. Li ricorda come monotoni e faticosi. Nel guidarli, Stanislavskij manifestava “entusiasmo e gioia”; lo stesso atteggiamento pretendeva anche dagli esecutori. E lo otteneva (Stanislavki on Opera, cit., pp. 4-7). Quei cantanti disposti in circolo che, presumibilmente attoniti, arrivano dalla monotonia all’entusiasmo e alla gioia muovendo le dita delle mani e respirando, ci appaiono come un’immagine rivelatrice del clima di lavoro in un teatro laboratorio.

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit., p. 475, corsivo mio.

K. Stanislavskij, S. S. III, trad. it. Il lavoro dell’attore su se stesso, cit., p. 426. Dice Stanislavskij: “Io non soltanto insegnavo nello Studio dell’Opera, ma imparavo” (La mia vita nell’arte, cit., p. 472). Sul duplice impegno di Stanislavskij allo Studio Operistico insiste anche Rumjancev, proprio in apertura del suo libro. “Stanislavski in teaching others was at the same time learning himself” (Stanislavski on Opera, cit., p. 2).

K. Stanislavskij, S. S. II, trad. it. Il lavoro dell’attore su se stesso, cit., p. 58.

K. Stanislavskij, S. S. I, trad. it. La mia vita nell’arte, cit., pp. 363-64, corsivo mio.

Cfr. D. Magarshack, Stanislavsky. A life, Macgibbon & Kee, London 1950, pp. 331-32.

K. Stanislavskij, L’attore creativo, cit., XIX, p.116-17, corsivi dell’autore.

Le citazioni sono in L’attore creativo, cit., XIX, pp. 118-19; XX, p.121.

K. Stanislavskij, L’attore creativo, cit., XXI, p. 126, corsivo dell’autore.

Le citazioni sono in Th. Richards, Al lavoro con Grotowski, cit., rispettivamente pp. 109-110, corsivi dell’autore; p. 113.

Th. Richards, Al lavoro con Grotowski, cit., p. 108

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