SULERZICKIJ (Suler) scrive a Stanislavskij

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1500 iscritti / anno VI,  n ° 32 / marzo/aprile 2007


 

Sulerzickij (Suler)
Sulerzickij (Suler)

 

“Caro Konstantin Sergeevic…”  Una lettera mai inviata

Sulerzickij (Suler) scrive a Stanislavskij

a cura di Fabio MOLLICA

Presentiamo l’appassionata e commovente lettera scritta il 27 dicembre 1915 da Leopol’d Antonovic Sulerzickij, detto Suler (1872-1916) a Stanislavskij, e mai in realtà inviata.

Stanislavskij incontra Suler nel 1906, rimane colpito dalla sua vita avventurosa: pescatore in Crimea, marinaio su navi da carico, imbianchino, bracciante agricolo, rivoluzionario, amico fraterno di Lev Tolstoj , obiettore di coscienza, incarcerato e deportato, e lo assume come suo personale collaboratore. Nel 1912 è Suler a “guidare” il Primo studio del teatro d’arte di Mosca e mentre Stanislavskij si interessa esclusivamente della sfera artistica, per Suler l’importante è che gli attori, prima che a recitare, imparino a vivere…”…lo sognavo di quel teatro in cui tutta l’arte, piena di ogni verità, accendesse gli uomini d’amore per tutta l’umanità, affinché nel nostro tempo terribile questo teatro sostenesse la fede nell’uomo, affinché questa compagnia fosse composta di persone che vivessero fraternamente nel lavoro e in piena libertà, l’inverno ardendo nell’arte, l’estate vivendo gioiosamente sulla riva del mare, dove tutto fosse creato con il proprio lavoro, ispirando nella gente l’entusiasmo della propria vita nell’ arte…Ecco il limite. lo non sono assolutamente interessato al successo esteriore del mio lavoro, al successo dello spettacolo, dell’incasso (Dio sia con loro); non è questo che mi aiuta ad entusiasmare e appassionare, ma una compagnia di fratelli, un teatro di preghiera, un attore-sacerdote…”

Stanislavskij  scrisse di lui: “Sulerzickij sognava di creare insieme con me qualcosa come un ordine spirituale di artisti. I suoi membri dovevano essere persone di elevate vedute, di idee larghe, di vasti orizzonti, che conoscessero l’animo umano, che aspirassero a nobili scopi artistici e fossero capaci di sacrificarsi per un’idea. Sognavamo di affittare una proprietà, collegata alla città per mezzo del tram o della ferrovia. Si poteva costruire accanto alla casa principale un palcoscenico e una sala per gli spettatori dove avrebbero dovuto aver luogo gli spettacoli dello Studio. Nelle dependences di questo edificio volevamo sistemare gli attori, e per gli spettatori sarebbe stato necessario organizzare un albergo, così colui che arrivava, nel prezzo del biglietto, aveva diritto a una camera per pernottare. Gli spettatori dovevano riunirsi molto tempo prima dello spettacolo; dopo aver passeggiato nel bel parco, dopo essersi riposati, aver pranzato nella sala comune che con gli studenti stessi avrebbero dovuto mantenere, scossa di dosso la polvere della metropoli, purificata l’anima, il pubblico sarebbe andato a teatro […]. I mezzi per tale Studio fuori città si sarebbero ricavati non solo dagli spettacoli, ma anche dai prodotti agricoli: in primavera e in estate durante la semina e la mietitura, i lavori dei campi dovevano essere fatti dagli studenti stessi. Ciò avrebbe avuto una grande importanza per lo stato d’animo generale e per l’atmosfera di tutto lo Studio […]. Se oltre che nella vita dietro le quinte la stessa gente si incontrerà in mezzo alla natura, nel lavoro della terra, all’aria aperta, sotto i raggi del sole, le loro anime si schiuderanno, i cattivi sentimenti si dilegueranno, e la fatica fisica comune agevolerà la loro fusione. Durante i lavori campestri primaverili e autunnali la vita teatrale si sarebbe interrotta per riprendere nuovamente dopo la mietitura. D’inverno, invece, nel tempo libero del lavoro creativo, i membri dello Studio avrebbero dovuto lavorare sulla messinscena delle opere, cioè, dipingere gli scenari, cucire i costumi, fare i modelli ecc.”   

Il testo della newsletter è tratto da “Il teatro possibile – Stanislavskij e il Primo studio del Teatro d’arte di Mosca”, ed. La Casa Usher, a cura di Fabio MOLLICA che ringraziamo per il permesso alla pubblicazione.

Buona Lettura



Caro Konstantin Sergeevic… Una lettera mai inviata

 

Konstantin Sergeevic STANISLAVSKIJ
Konstantin S. STANISLAVSKIJ

 

Sulerzickij scrive a Stanislavskij

…Nell’organizzazione della vita dello Studio, ancora nell’ottobre del 1915, Suler è intransigente, non perde occasione di ricordare ed imporre le regole della convivenza. In una lunga nota sul ‘Libro dello Studio’ ricorda l’importanza del rispetto verso il duro lavoro manuale, ed invita a prendersi sempre più cura della pulizia e della manutenzione della loro “casa”, a sentirsi uniti anche nella gestione dei servizi (come, tutta risposta qualcuno chiosò i suoi appunti con disegni e frasi ironiche). E’ costretto a sostenere un’accesa discussione, con strascichi di lettere e pubbliche proteste, con Rachmanov, il compositore dello Studio, a causa della frequentazione da parte di questi della stanza degli attori (camerini) prima dell’inizio dello spettacolo. Suler è categorico: nessuno, che non siano gli attori impegnati nella rappresentazione o persone a loro strettamente necessarie, deve entrare nella stanza degli attori. E una regola per garantire la serietà del lavoro e il rispetto degli attori che si stanno preparando._

Ma se questo accadeva ancora nell’ottobre del 1915, nel dicembre Suler presenta a Stanislavskij il conto del proprio lavoro, l’ultima testimonianza del suo modo di essere nella realtà dello Studio:

 «Caro Konstantin Sergeevic,

da tre anni e mezzo lo Studio, in qualità 1 teatro, come istituzione, è così cresciuto che esige per la sua vita un’ organizzazione più precisa di quella che ha avuto fino adesso, sotto la mia guida.

E’ necessaria l’organizzazione di un collettivo o la nomina di un direttore. Quello che adesso si chiama consiglio non può essere considerato l’organo direttivo dello Studio. Il consiglio adesso è composto da Gotovcev, Lazarev, Suskevic e Vachtangov. Gli altri, Bromlej e Vol’kenstejn (Commissione letteraria), Kolin (ragioniere), Mcedelov (che non c’è mai), non posseggono voce in capitolo. Queste persone, nei fatti, sono i padroni dello Studio, sebbene siano state scelte da me solo come miei aiutanti. Se si pensa che queste persone esprimano la direzione dello Studio, appare evidente che la cosa non può continuare oltre, per il semplice motivo che non posseggono le caratteristiche per questo ruolo. Credo che dovremmo essere ancora al livello in cui lo Studio sia diretto da tutti gli studijcy, collettivamente, ricevendo direttive soltanto da Voi e rispondendone soltanto a Voi personalmente. Col tempo, rendendosi consci del lavoro e delle capacità di ognuno, potranno scegliere da sé stessi alcune persone per il consiglio. Per questo io ho inserito nel consiglio la maggior parte degli studijcy e dei candidati ed ho posto le condizioni affinché le scelte siano possibili soltanto con la presenza di tutti. Praticamente sarebbe un’assemblea generale…

Quando tre anni e mezzo addietro Voi mi convocaste dal Caucaso per propormi l’organizzazione di uno studio, io dubitai, sapendo quanto sarebbe stato difficile e terribile gettarsi in questa attività.

Creando, Konstantin Sergeevic, lo Studio, io l’ho guidato secondo chiari principi, che nel corso di quattro anni l’hanno condotto all’ attuale posizione. Adesso è una grossa istituzione, ed io come organizzatore non sono più necessario.

Lo Studio è fatto.

Quei fondamenti e quei fini che mi hanno ispirato durante il pesante lavoro, che mi sono molto cari, che mi hanno accompagnato per molti anni dandomi gioia, come sembrerebbe, con i loro risultati, nel quarto anno di lavoro Vi appaiono falsi e pericolosi come basi per l’esistenza di tale istituzione.

In questo, Voi, pare, con mio profondo dispiacere, abbiate ragione. Infatti, il mio fine è la creazione di un teatro-comune, con una direzione collettiva, con i grandi compiti di teatro-tempio, con la sua terra ad Evpatorija, con un lavoro comune, con un’eguale divisione del profitto, con la costruzione, in estate, di un proprio posto dove sarebbe possibile riposare in libertà nella terra da noi lavorata e organizzata. Mi piaceva particolarmente la natura della terra che voi compraste per lo Studio ad Evpatorija, cosi desertica e arida, dove sarebbe stato necessario tutto il nostro lavoro per costruire un focolare comune.

lo sognavo di quel teatro in cui tutta l’arte, piena di ogni verità, accendesse gli uomini d’amore per tutta l’umanità, affinché nel nostro tempo terribile questo teatro sostenesse la fede nell’uomo, affinché questa compagnia fosse composta di persone che vivessero fraternamente nel lavoro e in piena libertà, l’inverno ardendo nell’arte, l’estate vivendo gioiosamente sulla riva del mare, dove tutto fosse creato con il proprio lavoro, ispirando nella gente l’entusiasmo della propria vita nell’ arte.

Nel secondo anno, quando tutti i membri dello Studio si azzuffarono indecorosamente, quando tutto allo Studio era in decomposizione, io mi sentii indebolire e volevo lasciare. Trascorsi molte notti insonni allo Studio, temendo di uscire non soltanto di giorno ma anche di notte. Raccogliendo tutte le forze continuai. E fu giusto. Il meglio prese il sopravvento, e giunse il terzo anno, pieno di gioia ed entusiasmo…

Tutti si riappacificarono, credettero l’un l’altro e in sé; io vedevo come fiorivano gli animi, come brillava Il grillo, come si formava la vita stessa percorrendo quella direzione, come si fantasticava, come anche la sala emanasse commozione da quella felicità di cui luceva la gioventù. Venne l’estate, e una parte dei giovani si recò nella nostra terra in Evpatorija. Si comprarono gli utensili, ci si costrui da sé le baracche, si accudivano i cavalli, si trasportavano i mattoni, mangiavamo tutti insieme… Tutto questo sono soltanto allusioni, brani di vita, non compresi come sarebbe necessario, ma persino in questi schizzi quanta gioia, allegria, purezza, libertà.

Lo Studio-teatro cresce sempre più, già recita nei grandi teatri a Pietroburgo, l’istituzione si sviluppa, cresce in ampiezza, allunga sempre più le sue braccia, occupa un posto sempre più grande nel pubblico e nella stampa. Inevitabilmente si sviluppa sempre più la parte amministrativa. Ed ecco…

Ecco che inizia il mio grosso errore…

Queste attività amministrative sono sempre più intricate, e danno, a quelli che se ne occupano, una posizione. Involontariamente si crea l’impressione che le persone che se ne occupano stiano a capo dell’attività, involontariamente essi stessi si sentono padroni dell’ attività, guastando inevitabilmente e allontanandosi dal fine principale e dalla sostanza dello Studio, del collettivo, organizzandosi in una specie di organo di potere, non realizzano la volontà comune, ma soltanto la propria, limitando e avvilendo sempre più i fini, realizzando non ciò per il quale si era stati nominati, ma realizzando ciò che è più pratico, più accessibile, più facile organizzare. Qualsiasi sogno o utopia viene rimossa, e rimane il ‘lavoro’, buono o cattivo (bisogna esaminarlo attentamente per dire a cosa conduca); ma sogni non ve ne sono più. Lo Studio ormai non vive più una vita comune. Tre o quattro persone conducono autonomamente l’attività, gli altri non vi partecipano assolutamente, non interessandosi e non sapendo cosa si faccia.

Questo è un mio grande errore; dovevo riuscire ad ottenere che tutto lo Studio prendesse parte alla conduzione dell’attività. Ci sarebbero state molte discussioni, ma si sarebbe forgiato quello che sarebbe stato lo Studio.

Quando mi accorsi del mio errore era già troppo tardi; non potevo più influire su queste persone. Comprendendo ciò, decisi di equilibrare la composizione del consiglio, facendo prevalere la parte idealistica, in quanto la parte “amministrativa” era troppo forte, e pericolosa perché attenuava lo slancio verso la realizzazione dei fini. Per questo aggiunsi al consiglio Solov’eva, Fedorova, Birman e Bondyrev. In seguito decisi di allontanarmi del tutto ed ero convinto che si sarebbero forgiati, che gli errori sarebbero stati superati, che gli ‘affaristi’, ai quali sono riconoscente per il lavoro, sotto l’influenza di compagne come Solov’eva, Fedorova, Birman, sarebbero diventati meno mercantili, avrebbero cessato di sentirsi i ‘padroni’ dello Studio, anche perché avevo posto come condizione necessaria che il consiglio decidesse l’attività alla presenza di tutti i membri.

[…]

Così credetti che in tal modo si potesse superare il mio errore. Proprio in questo periodo Voi sentivate che lo Studio non andava per il verso giusto, mi ricordavate che il direttore ero io, che lo Studio era affidato a me e a nessun altro, che dovevo stare al mio posto con fermezza, che dovevo ricorrere al Vostro aiuto come ad un compagno più anziano, dovevo ricorrere alla Vostra autorità. Mi fu pesante tornare indietro, ma purtroppo mi accorsi che temporaneamente dovevo tornare indietro, colpevole io stesso.

Ma quando proposi di tornare alla situazione precedente era già impossibile, per far questo bisognava lottare con questo gruppo. Questa lotta, come ogni lotta, richiamava sentimenti cattivi e penosi, ed io non avevo le forze per condurla. Persino per tali ottimi fini non trovavo in me le forze. lo ammetto il mio errore: non sono stato capace di organizzare lo Studio. Se non fosse per questo errore, adesso…

Ma dicono così coloro che non hanno fatto tutto il possibile.

Grazie al secondo anno io vedo di aver avuto e di avere ragione di credere all’utopia’. L’ho visto coi miei occhi.

Un errore nel lavoro c’è stato. Io posso infervorare i giovani eccellenti, ma non condurli; per due-tre soltanto ne ho guastati molti, gettando li in una situazione difficile e lasciandoli soli in situazioni seducenti e pericolose, senza l’aiuto di un uomo più esperto. Si può dire che essi non sono dei ragazzi. Sì, ma nei fatti li ho condotti per tre anni, ed hanno camminato.

Troppo presto mi sono rallegrato e infervorato per i successi, è il mio eterno errore in tutto. Valeva la pena di vedere gli schizzi, gli abbozzi per la realizzazione dell’utopia al terzo anno, quando tutto cominciava a rilucere qui e a Evpatorija, e io già tiravo un sospiro di sollievo e mi estasiavo, invece di rafforzare l’attenzione al lavoro.

L..]

Bisogna rendersi conto: io non posso realizzare i miei sogni. Ecco il limite. lo non sono assolutamente interessato al successo esteriore del mio lavoro, al successo dello spettacolo, dell’incasso (Dio sia con loro); non è questo che mi aiuta ad entusiasmare e appassionare, ma una compagnia di fratelli, un teatro di preghiera, un attore-sacerdote. Non ce l’abbiate con me, ma devo andare via. Se non lo potrò fare, sarà con amarezza. Sono scoraggiato, molto scoraggiato. Non trattenetemi. Se non lo potrò fare io non ha importanza, tutto continuerà lo stesso, è una legge della vita dell’uomo, e si realizzerà. Lo credo profondamente, tutto, prima o poi, si realizzerà; questo sogno vive in ogni uomo e si realizzerà.

[…]

Sento il bisogno di servire in un altro modo, senza accollarmi dei compiti che non sono per le mie forze, ma servire appropriatamente alle loro capacità.

Comprendetemi, Konstantin Sergeevic, non posso essere il direttore dello Studio. Essere direttore di un teatro mi è cosa del tutto estranea…

Comprendetemi, Konsuantin Sergeevic, che adesso, quando mi è evidente che non posso fare questo lavoro, servire come direttore in quell’attività cui ho dato tutta l’anima e il cuore, mi è impossibile; è troppo doloroso. Permettete che me ne vada; quando troverò come servire la mia fede, allora lavorerò. Per quanto sia malato e debole, ancora non mi chino soltanto per guadagnare un ‘pezzo di pane’.

Verrà anche questa ora, pronti a riceverla, come la morte, ma quanto più tardi tanto meglio…»_

Suler non spedì questa lettera a Stanislavskij, ma non si tratta di uno sfogo personale, momentaneo, frutto di uno scoramento legato a specifici fatti contingenti. Questa lettera,ha il valore di riconoscimento preciso dello stadio di sviluppo dello Studio. E il momento della ‘maturità’, del successo, degli introiti, ma è anche l’organizzazione, intesa come Istituzione, che travalica l’utopia. Suler non vuole avere qui la pretesa di parlare ‘oggettivamente’, di compiere una diagnosi critica di tutta l’attività dello Studio o tranciare giudizi, e non c’è astio o risentimento verso nessuno. Denuda invece la sua debolezza, il suo sognare, e mostra il suo modo d’essere nello Studio nella sua più intima peculiarità. La contraddizione che ha animato la vita dello Studio è esplosa. Le congerie di desideri di teatro che si poneva a fondamento dell’agire dello Studio, la complessità degli atteggiamenti che reggevano il lavoro quotidiano, subiscono la forza normalizzatrice dell’ evento di mercato; i sogni necessitano una regolamentazione. E a questo Studio che non riconosce ancora valide le sue motivazioni, che Suler non crede più. E non si piega. Da questo momento si tratterà di uno Studio diverso. Suler continuò a frequentarlo saltuariamente, ma nell’aprile del 1916 tornò ad Evpatorija, per cercarvi, con la sua famiglia, una nuova vita. L’acutizzarsi della malattia, nefrite, lo costrinse presto a tornare a Mosca, subendo continui ricoveri. Morì il 17 dicembre del 1916; lo Studio e il Teatro d’arte officiarono una solenne cerimonia nei locali dello Studio, e fu seppellito con tutti gli onori nel cimitero di Novodevic.98

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