GROTOWSKI: addio ultimo sciamano

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1850 iscritti / anno IX,  n ° 51 / maggio/giugno 2010


Jerzy GrotowskiGROTOWSKI: addio ultimo sciamano

di Renato Minore

Ringraziamo il quotidiano “Il Messaggero” per il permesso alla pubblicazione.

 Grotowski«Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono, etc. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta. Questa è un’antica verità teoretica, ovviamente. Mette alla prova la nozione di teatro come sintesi di disparate discipline creative; la letteratura, la scultura, la pittura, l’architettura, l’illuminazione, la recitazione… » (Jerzy Grotowski, Per un Teatro Povero)…

Il 14 gennaio 1999 moriva a Pontedera Jerzy Grotowski, uno dei grandi riformatori del teatro europeo, due giorni dopo il quotidiano “Il Messaggero” di Roma pubblicava l’articolo di Renato Minore che riportiamo.

Buona Lettura



GROTOWSKI, addio ultimo sciamano

di Renato Minore

Dal quotidiano “Il Messaggero” del 16 gennaio 1999

Da tempo Jerzy Grotowski, il grande sciamano del teatro contemporaneo, era malato. E viveva l’esperienza della fine progressiva nella quiete del suo ritiro a Pontedera, nella campagna toscana, comunicando al piccolo gruppo di amici e collaboratori, stretti intorno a lui, il senso di una ricerca ancor più rigorosa ed essenziale, quasi travasando la sostanza della sua vita. Era “una scoperta profonda e dolorosa”, s’era confessato in una delle sue ultime interviste.

Grotowski se n’è andato, ad appena 65 anni, e con lui scompare la figura forse più carismatica e misteriosa della scena di questi ultimi decenni. Quella nel cui nome e dietro il cui trascinante esempio in tanti – negli anni sessanta – hanno provato a rinnovare il teatro. Abolendo ogni scenografia e stabilendo ogni volta, in una cantina come in un capannone o in un qualunque spazio privo di una qualsiasi istituzionalità, il luogo di una rappresentazione estrema, da ricostruire in forme vitali e cangianti nel rapporto tra attore e spettatore. Depurata, cioè, fino all’essenziale di una luce di candela e di un attore capace di modulare, nel linguaggio del corpo, la comunicazione assai dura e senza indulgenze, incisa nelle pieghe della carne e nel pulsare – fisico e tambureggiante – della mente.

Una parabola che, da creatore di spettacoli, si era consumata in tempi assai veloci. Dalla fondazione, nel 1959, del suo “Teatro delle 13 File”, poi divenuto il famoso “Teatro Laboratorio”, a Opole, piccola città polacca vicino a Cracovia, fino all’annuncio del suo ultimo spettacolo, nel 1968. Era Apocalypsis cum Figuris, che ebbe due varianti, nel 1971 e nel 1973. “Mistero Laico” sull’inutile ritorno di Cristo in terra e sulla sua definitiva dipartita, sintetizzava mirabilmente la drammaturgia di Grotowski. All’improvvisazione creativa degli attori si sovrapponevano motivi del Vecchio Testamento, frammenti di Eliot, di Simone Weil, di Dostoevskij. Uno spettacolo memorabile, ogni volta diverso: sfortunatamente, chi non lo ha visto ha perduto un’esperienza fondamentale, di quelle segnate per sempre nella mente e nel cuore con un marchio a fuoco. I testi erano continuamente usati in senso trasgressivo per attingere da essi, nella negatività derisoria, la possibile rigenerazione sospesa tra rito e profanazione, slancio dionisiaco e scacco metafisico.

In questa tonalità espressiva dove lo spazio teatrale era il luogo della continua rinegoziazione tra attore e spettatore, rifluivano il metodo, la ricerca tra spontaneità e disciplina del laboratorio di Grotowski, già sperimentato in altri spettacoli-eventi che gli diedero notorietà internazionale. Come Il Principe Costante, con la materia attinta dal grande dramma del romanticismo polacco, repertorio di situazioni archetipe della coscenza collettiva che evocano che avocano scelte fondamentali nell’azione umana. Il “metodo” era ricavato in una spartana autodisciplina fisica e mentale. Alle spalle l’esempio di Stanislavskij, l’immersione nella cultura orientale ed anche l’ossessione di una ricerca destabilizzante (“una vita nell’arte”) condotta fino al punto massimo del suo sacrificio: quella (forse mai interamente riconosciuta) di Artaud. E s’imponeva con la “povertà”, con la “santità” dell’attore contro ogni forma di “spettacolo, rappresentazione, teatro, spettatore”.

Per un teatro povero, nel 1968 aveva teorizzato l’esito estremo in cui la forma teatrale si allontanava dalla sua rappresentazione affidando l’insegnamento e la conoscenza al “saper fare”. Una tecnica di sapienziale artigianato del corpo e della mente, un mantra al cui interno, in un affinamento progressivo, non si distinguevano parola, danza, canto, cerimonia, rito. E il libro fu un’autentica Bibbia nella ricerca degli anni Sessanta. Venerata, usata, saccheggiata, impressa nella memoria come un repertorio di tecniche, un proclama mistico, un breviario che aveva messo nel conto ogni possibile scarto all’ortodossia.

Grotowski confessò, poi, di aver abbandonato il teatro perché “già circolavano i grotowskiani”. In quei suoi superbi spettacoli c’era già, inciso nell’ammaliante bellezza della loro sempre cangiante esecuzione, quella sorta di bivio tra l’arte come fonte di ricerca (“al pari di uno scultore che trova nelle venature della pietra la sua figura”) e l’arte come rappresentazione e spettacolo. Il filo, esilissimo, fu spezzato. Venne la fase post-teatrale con i testi teorici, la funzione parateatrale e didattica, l’acting therapy, la “meditazione ad alta voce” del “teatro delle sorgenti”. Sempre più interessato agli elementi originari anteriori alla differenziazione culturale. Grotowski voleva ricostruire “l’ecologia dell’umano” che nell’odierna società massificata va evaporando.

Approdò all’esperienza di Pontedera. Con un risvolto, ancora più forte, di adamantina eticità, crebbe anche la sua aura di invisibilità sacerdotale. Quasi come quella di un distillatore e antropologo di minime epifanie di verità, intorno a cui s’animava il consenso di piccole comunità ammesse al rito che coincideva, attraverso i canti le azioni e i movimenti drammatici, con un’intera pratica di vita. In un’epoca con il mito della comunicazione invasiva, era una traccia o una presenza sottratta per sempre al controllo del pubblico, entità mistificante che aveva sempre rifiutato: “Io sento che questo è il compito permanenete della mia esistenza. Ho ricevuto una tradizione e devo trasmetterla. Sono come una gallina che dispone di un uovo solo e deve deporlo”.

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