Francois KAHN su Beckett, Grotowski e il laboratorio

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Francois KAHN
Francois KAHN

 

Francois KAHN su BECKETT, GROTOWSKI e il Laboratorio

di Lorenzo Mucci

François Kahn, quarant’anni di vita nel teatro, conversa con Lorenzo Mucci (è il 25 aprile 2004), si racconta e ci racconta, tra l’altro, dell’incontro con un grande maestro del novecento come Jerzy Grotowski, della partecipazione alle attività para-teatrali del Teatr Laboratorium diretto dal maestro polacco, della messa in scena di “Aspettando Godot” nel 1990 e degli esercizi usati nella preparazione di questo spettacolo…

L’articolo è stato edito con lo stesso titolo in “Prove di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”  21, anno X, n° 2, dicembre 2004, apparso all’interno della rubrica “l’Osservatorio Critico”, a cura di Fabio Acca, ora nel sito www.muspe.unibo.it/period/pdd/num05/04_num5.htm . Si ringrazia la redazione della rivista per il permesso di pubblicazione. Per acquistare il testo con il dossier integrale rivolgersi a  caratterecomunicazioni@virgilio.it.

Buona Lettura



L’Osservatorio Critico a cura di Fabio ACCA

Spesso la percezione della vitalità del teatro non coincide con lo spettacolo. François Kahn, nell’arco di oltre quarant’anni di vita nel teatro, ha attraversato con rigore questa dialettica, dando ampio spazio a lunghi e intensi momenti dedicati esclusivamente alla trasmissione dei saperi teatrali. Una scelta marchiata a fuoco dall’incontro con un grande maestro del Novecento come Jerzy Grotowski. Infatti, dalla metà degli anni Settanta e fino al 1981, partecipa come guida a diversi lavori para-teatrali del Teatr Laboratorium diretto dal maestro polacco, per poi continuare la sua personale ricerca fino al 1985 all’interno del Gruppo Internazionale l’Avventura di Volterra. È nel 1986 che Kahn ritorna a confrontarsi direttamente con la creazione spettacolare, sia come attore che come regista, grazie al lavoro svolto all’interno del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, diretto da Roberto Bacci. Dalla metà degli anni Novanta, orienta la propria ricerca sul progetto “Teatro da Camera”: trascrizione drammatica in forma di monologo a partire da alcuni testi letterari (Proust, Nerval, Kafka), presentati in spazi non teatrali per un numero limitato di spettatori. Un progetto che verrà ripreso alcuni anni più tardi, dopo alcune importanti collaborazioni con il Centro Teatrale Bresciano, e dopo aver creato una propria associazione culturale (Dedalus, 1999). Negli ultimi quindici anni, François Kahn ha dedicato una parte decisiva del proprio lavoro all’attività pedagogica, con laboratori teatrali svolti in Italia, Brasile, Russia e Israele; oppure conducendo seminari negli ambiti formativi proposti dalla Scuola D’Arte Drammatica “Paolo Grassi”, dall’Accademia dei Filodrammatici di Milano e dalla Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine. La conversazione che segue, avvenuta a cremona il 25 aprile 2004 e curata da Lorenzo Mucci, chiarisce alcuni aspetti importanti, tecnici ed estetici, del suo percorso pedagogico, a partire dal rapporto con i propri personali maestri: Beckett e Grotowski

INCONTRO CON

Francois KAHN su BECKETT, GROTOWSKI  e il Laboratorio

di Lorenzo Mucci

MUCCI  Potresti parlarci delle caratteristiche e del valore dell’attività laboratoriale che hai svolto nel corso della tua carriera?

KAHN Dal 1973 ho partecipato all’attività del Teatr Laboratorium di Grotowski; in seguito ho fatto parte del gruppo internazionale “L’Avventura” guidato da Fausto Pluchinotta a Volterra, che svolgeva un lavoro di tipo para-teatrale finalizzato alla creazione di eventi di partecipazione piuttosto che di spettacoli. La struttura e la tecnica del lavoro para-teatrale, anche a livello pedagogico, sono molto diverse dal laboratorio di tipo scolare. Nel para-teatro i partecipanti imitano le azioni di una guida, il linguaggio orale è quasi totalmente assente e nella fase iniziale vengono fornite delle “regole del gioco” su cui si basano i partecipanti per cercare di risolvere le situazioni che vengono via via proposte. Ho iniziato a fare dei laboratori teatrali grazie a Renato Palazzi, il quale, dopo aver visto il mio primo lavoro teatrale come regista, intitolato Quentin (su testi di Faulkner: L’urlo e il furore; L’Appendice Compson, con Luisa Pasello, prodotto dal Centro per la Ricerca Teatrale di Pontedera), mi ha invitato a fare l’insegnante per l’anno accademico 1987-88 alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano di cui era direttore. È stata un’esperienza interessante ed affascinante.

MUCCI L’esperienza del para-teatro è stata utile per la tua attività pedagogica?

KAHN L’attività pedagogica non è direttamente riconducibile al para-teatro quanto piuttosto alla visione del teatro di Grotowski, secondo cui il centro del lavoro è l’attore e il ruolo del regista è quello dello spettatore; uno spettatore di tipo speciale, certo, ma pur sempre spettatore, nel senso che il suo ruolo fondamentale rimane quello del testimone: egli osserva, ascolta, può dare talvolta delle indicazioni, ma non agisce mai in prima persona. Tutto ciò non ha a che fare direttamente col lavoro para-teatrale in cui si parte dal presupposto che non ci sono spettatori ma solo partecipanti. Il lavoro para-teatrale, sposta dunque l’accento dal prodotto (lo spettacolo) al produrre, l’agire, eliminando l’oggetto da consumare e concentrandosi sullo sperimentare (inteso come “fare l’esperienza diretta”). Si tratta quindi di due attività completamente diverse dal punto di vista tecnico, sebbene in alcuni casi io abbia mantenuto, all’interno del lavoro pedagogico, alcuni esercizi utilizzati nel para-teatro, come ad esempio quello chiamato “vigilia” (czuwanie in polacco) che in realtà non è un esercizio ma un’azione in sé (cioè un’esperienza diretta con delle regole precise, un inizio e una fine), priva di parole e di gesti, costituita esclusivamente dal movimento silenzioso dei partecipanti all’interno di una sala. Ho utilizzato questa azione con gli allievi per far sì che attraverso l’esperienza diretta del movimento nello spazio, al di fuori del linguaggio parlato, sperimentassero fra le altre cose l’energia, l’intuizione del corpo, l’attenzione psico-fisica.

MUCCI  Potremmo dire che l’idea e la pratica del laboratorio sono parte di una visione del teatro di cui il Teatr Laboratorium si è fatto interprete e che ha fondato anche il lavoro pedagogico?

KAHN  L’aspetto del lavoro teatrale che interessava maggiormente Grotowski era la fase delle prove, non quella spettacolare. Lo spettacolo inteso come prodotto finale, a suo modo di vedere, doveva funzionare perfettamente per lo spettatore, ma la parte più appassionante per lui rimaneva quella delle prove intese come campo aperto alla ricerca.

MUCCI Quali differenze vi sono tra il lavoro delle prove finalizzato alla realizzazione di uno spettacolo e quello di un laboratorio con gli allievi?

KAHN Ho quasi sempre lavorato con l’idea che bisognasse presentare qualcosa al termine del laboratorio e non ritengo giusto separare completamente il momento della ricerca dalla presentazione finale di una dimostrazione di lavoro, perché in questo modo da un lato è possibile tradurre oggettivamente ciò che si è costruito precedentemente, dall’altro ha luogo il necessario confronto dell’attore con l’esterno. Per queste ragioni, sia nei laboratori brevi che in quelli di lunga durata, ho sempre insistito sull’importanza della dimostrazione finale, sia sotto forma di spettacolo che di esercitazione, perché ritengo essenziale la presenza di un momento di condivisione in cui delle persone agiscono mentre altre osservano.

MUCCI Peter Brook nel saggio Grotowski, l’arte come veicolo afferma a proposito del Teatr Laboratorium: “Un lavoro non può contemporaneamente essere una ricerca in profondità e aprirsi ogni giorno a tutti quelli che vengono con una naturale curiosità”. Condividi quest’affermazione?

KAHN Ho difficoltà ad accettare, nel corso del lavoro laboratoriale, degli osservatori esterni al gruppo, anche se si tratta solo di esercizi banali, perché considero il testimone nello stesso modo in cui lo considera un ricercatore scientifico: ritengo cioè che chi guarda influisce su colui che agisce (basta pensare, in questo senso, al lavoro dell’antropologo). L’idea che l’osservazione deforma l’oggetto osservato è una delle costanti del teatro. Per questo motivo ci sono delle attività che vanno svolte senza altri testimoni al di fuori dei diretti partecipanti e di chi guida il laboratorio. In questo senso Brook è molto chiaro e fa preciso riferimento alla volontà di Grotowski nell’ultima fase del suo lavoro. È determinante, nel laboratorio, che si crei una relazione di estrema fiducia tra il regista e l’attore, in modo che questi possa in tutta tranquillità e senza essere giudicato dagli altri (se non dai colleghi che sono al suo stesso livello e si prendono gli stessi rischi) accettare di abbandonare certe maschere, abitudini, immagini proiettate su di sé o che egli proietta all’esterno. Soltanto dopo che ciò sia avvenuto è possibile costruire lo spettacolo come una struttura definita che permette all’attore di sentirsi protetto (così come accade nella fase laboratoriale) e quindi di smascherarsi, di svelarsi con maggior sicurezza di fronte allo spettatore; e allo spettatore di proiettare sull’attore pensieri, emozioni e immagini proprie.

MUCCI  In una recente intervista hai dichiarato, riguardo al criterio che ti guida nella scelta di un testo, che l’unica regola è : “di essere toccato dal testo e che deve contenere un senso forte, che può essere come nascosto dentro ma che risponde ad una mia necessità”. Sulla base di ciò, cosa ti ha spinto a lavorare su Aspettando Godot nel 1990 all’interno di un laboratorio alla “Paolo Grassi”?

KAHN Ci sono delle frasi, in Godot, che mi toccano profondamente. Ad esempio, c’è n’è una di Pozzo, quasi al termine della pièce, sulla nascita e la morte: “Partoriscono a cavallo di una tomba, la luce brilla un istante, e poi è notte di nuovo”. Dopo una frase del genere c’è poco altro da aggiungere. È rigorosa, definitiva, drammatica. È una visione del mondo e della vita senza appello, ma espressa in una situazione ironica, distanziata.

MUCCI Come si arriva alla scelta del tipo di esercizi o di improvvisazioni da utilizzare nel laboratorio?

KAHN Vi sono alcune idee che ti sei fatto a priori e che sono determinanti per la scelta degli esercizi. In Aspettando Godot vi erano due elementi su cui lavorare e che avevo individuato precedentemente: il circo e l’ambientazione punk/rock’n’roll. Il primo elemento ha determinato la suddivisione dello spettacolo in tanti brevi segmenti della durata di tre minuti circa ciascuno e l’alternanza luce/buio tipica dei numeri sulla pista; il secondo ha dettato la scelta delle musiche (la canzone iniziale il cui tema ricalcava quello di un famoso pezzo rock’n’roll e il cui testo era quello di Beckett , veniva ripresa più volte all’interno dello spettacolo) e dell’ambientazione giovanile, oltre che dei costumi in bianco e nero. L’altro fattore determinante nella scelta degli esercizi sono gli oggetti. Anche in questo caso ho deciso a priori, in parte per intuizione, in parte per scelta poetica e drammaturgica, quale tipo di oggetti e di colori utilizzare come elementi di base su cui sviluppare la ricerca. Una volta che si hanno a disposizione vestiti, oggetti, ecc. (nel nostro caso si trattava ad esempio di un secchio di ferro, della carta da appallottolare, ecc.) questi non vanno intesi come delle semplici illustrazioni da usare in modo decorativo, ma al contrario come dei veri e propri materiali drammaturgici su cui si basano alcuni esercizi.

MUCCI Da cosa è stata dettata, invece, la scelta dell’esercizio del “cerchio neutrale”?

KAHN Nel caso di Aspettando Godot questo esercizio è stato ridotto al suo punto di partenza più semplice, uello del clown, senza passare alla fase successiva di indagine sul personaggio. Si è cioè partiti dall’idea che ciascun allievo-attore dovesse compiere l’esercizio come se fosse un clown, andando al centro del cerchio e cercando di resistere, di rimanere indifferente (da qui il carattere “neutrale” dell’esercizio) alle provocazioni esterne degli altri membri del gruppo. Si tratta di un esercizio che rimane interno al gruppo, senza divenire mai momento di spettacolo. Il gruppo era composto da cinque attori (compreso il ragazzo) e dalle due assistenti di regia che sarebbero state presenti in scena nel corso dello spettacolo ad annunciare i vari sketch e a svolgere altre mansioni tecniche (quali la regolazione delle luci ecc.) per cui anch’esse erano incluse nel cerchio neutrale.

MUCCI Come è strutturato l’esercizio e qual è la sua utilità per l’attore?

KAHN Si tratta di un esercizio complesso, a più livelli. Il primo livello è più tecnico e riguarda la procedura, apparentemente semplice, di entrata ed uscita dal cerchio. L’attore in questa fase comprende concretamente la differenza tra l’azione e la decisione, e impara a separare le azioni; a farle cioè una dopo l’altra, senza mescolarle, senza stacchi o momenti d’attesa, con un ritmo regolare e cambiando la direzione dello sguardo. Una volta che l’attore riesce a compiere questo primo passo e a realizzare e mantenere la procedura in modo corretto, il primo problema, una volta giunti al centro del cerchio, è di non rispondere alle provocazioni, rimanendo immobili e silenziosi (il solo fatto di parlare, infatti, fa saltare l’intero sistema di protezione); nel caso egli lasci trasparire qualche reazione (anche solo con un sorriso) o risponda, viene eliminato dall’esercizio. Inizialmente si pensa di dover resistere, poi si scopre che la chiave sta nell’essere trasparenti, nel farsi attraversare dalle sollecitazioni esterne, rimanendo rilassati, senza innalzare mura. In tal modo l’attore è costretto a fare i conti con se stesso, confrontandosi con la propria vanità. È un esercizio faticoso per chi si trova al centro del cerchio, ma è ugualmente difficile per gli attori che all’esterno fanno le provocazioni e la cui spietatezza e crudeltà risultano fondamentali. L’esercizio ha anche una funzione di regolazione dell’equilibrio all’interno del gruppo: chi dimostra aggressività, violenza o furbizia, riceverà un trattamento analogo quando si troverà al centro del cerchio. Grazie a questo fondamento di eguaglianza si può dire che l’esercizio perde le sue potenzialità distruttive; anzi, se il gruppo funziona bene tutto ciò viene vissuto con un sentimento di tranquillità, divertimento e leggerezza. Il testimone esterno non prende parte a tutto ciò e mantiene un ruolo di controllo, come fosse un giudice di pace; ruolo fondamentale il suo perché deve comprendere se ciò che accade serve o meno al processo di crescita del laboratorio.

MUCCI A questo livello siamo ancora nella fase di lavoro antecedente all’indagine sul personaggio.

KAHN Sì. Una volta che l’attore ha superato la fase delle provocazioni gli viene chiesto il nome e, subito dopo, le particolarità del personaggio; questi dati vengono decisi autonomamente dall’attore ma non possono essere in contraddizione con quelli desunti dal testo. L’altra regola è che una volta che sia stata enunciata una caratteristica del personaggio, questa non può più essere modificata. Se l’attore commette un errore, infrangendo una di queste regole, viene “punito” con l’uscita dal cerchio; il che significa privarsi della possibilità di far crescere il proprio personaggio. Nel caso di Aspettando Godot, l’aspetto di indagine sul personaggio non è stato affrontato, con l’eccezione del nome. Nessun dato biografico è stato aggiunto; anzi, abbiamo lavorato per sottrazione. Dopo le fasi della procedura, delle provocazioni e del nome, l’indagine sul personaggio si è fermata al grado zero, perché si sono scelte altre direzioni di lavoro come ad esempio quella di far alternare gli attori nella parte di Lucky, nella fase centrale dello spettacolo (e di consequenza anche tutti gli altri – nelle parti di Vladimiro, Estragone e Pozzo – negli “esercizi” in cui Lucky è presente); ciò veniva deciso nel corso della rappresentazione con un sorteggio che aveva luogo sotto gli occhi degli spettatori.

MUCCI Quest’ultimo aspetto rientra nell’ambito della ricerca sul circo in cui si inquadra anche l’utilizzo specifico dell’esercizio del “cerchio neutrale”?

KAHN Proprio così. Il punto di partenza in Aspettando Godot è stato il lavoro sul clown, per cui ai personaggi non è stato deliberatamente attribuito un certo tipo di spessore; essi cambiavano di nome nel momento in cui gli attori indossavano una camicia di diverso colore dopo l’estrazione a sorte. Il clown esiste in quanto c’è lo sketch, un intervallo di tempo ristretto in cui ciò che accade non è legato all’identità o alla psicologia dei personaggi, ma all’energia che contraddistingue il loro o nteragire. L’unica differenza tra i clown è quella tra il clown bianco e l’augusto.

MUCCI Tristan Remy sosteneva che il clown, a differenza dell’attore, è incapace di sdoppiarsi; non lavora, come l’attore, su una parte, ma fa riferimento a qualcosa che lo fa essere sempre uguale a se stesso (potrebbe essere qualcosa di innato, di primordiale come l’infanzia, l’ingenuità…).

KAHN Credo che la differenza tra il clown e l’attore stia nel tipo di attività che il primo compie, nel tipo di gestualità e di oggetti che usa. Il clown può essere colto, popolare, cattivo, buono, ecc., ma compie sempre una specie di esercizio di stile spinto fino alle estreme conseguenze.

MUCCI Oltre al lavoro sul clown quali altri elementi della cultura circense sono stati valorizzati?

KAHN L’uso e la composizione degli oggetti: ad esempio l’albero era montato su una struttura dotata di ruote, i cui rami erano dei tubi di gomma nera che gli attori utilizzavano per picchiarsi nella scena iniziale del pestaggio di Estragone. Venivano anche usati oggetti tipici dei numeri circensi come il secchio, le banane ecc. Inoltre abbiamo tenuto conto della parentela tra Pozzo e Monsieur Loyal, il tipico presentatore del circo che chiede a Lucky di fare il suo numero.

MUCCI E come vi siete regolati per la composizione dello spazio?

KAHN Nella cosiddetta “sala nera” della “Paolo Grassi”, una piccola ex sala cinematografica, abbiamo creato lo spazio facendo scendere dal palcoscenico, scarsamente utilizzato dagli attori, due lunghe strisce di carta bianca che rappresentavano la strada e lungo i cui lati era disposto il pubblico. Al termine della strada, sul lato opposto al palcoscenico, vi era un tavolo con due sedie occupate dalle due assistenti alla regia, le quali regolavano le luci a vista, davano l’annuncio di inizio a ciascun esercizio e fornivano alcuni oggetti. Gli attori recitavano sulle strisce e ciò costituiva una complicazione tecnica ulteriore perché erano costretti a muoversi sulla carta.

MUCCI Oltre all’utilizzo di celebri brani musicali, vi sono stati altri riferimenti alla cultura musicale pop-rock?

KAHN Il costume in bianco e nero con la sciarpa palestinese dei giovani attori si rifaceva al vestiario dei musicisti punk di quel periodo: non si trattava quindi di una citazione, ma di un riferimento diretto alla loro cultura giovanile.

MUCCI Hai utilizzato altri esercizi oltre a quello del “cerchio neutrale”?

KAHN Sì, alcuni esercizi fisici come quello chiamato “saluto al sole”, derivato dallo yoga ed eseguito quotidianamente; degli esercizi di memorizzazione resi necessari dal fatto che in tre scene gli attori dovevano essere in grado di interpretare tutte le parti (la qual cosa veniva decisa ogni volta attraverso il lancio dei dadi). L’intercambiabilità permetteva di rompere la continuità di tipo psicologico che poteva eventualmente venirsi a creare nel lavoro dell’attore sul personaggio. Per raggiungere questo scopo, nella seconda parte dello spettacolo, intitolata “Secondo giorno”, si verificava un’accumulazione di personaggi che raddoppiavano, triplicavano, mentre nella prima parte dello spettacolo era lo scambio dei personaggi a prevalere. Qui, ad esempio, ciascuno di loro a turno doveva interpretare l’impegnativo monologo di Lucky (che è stato tagliato in alcuni punti in quanto eccessivamente lungo) la cui difficoltà stava nel trovare un’azione specifica corrispondente: Peter ad esempio ha scelto una partita di tennis senza pallina (che mi ha fatto pensare al match che alcuni giovani giocano nella scena finale di Blow up di Michelangelo Antonioni); Gigi invece accentuava gli aspetti animaleschi (aveva la bava alla bocca e la totale immobilità di un asino picchiato) risultando al tempo stesso repellente e commovente.

MUCCI In generale quale stimolazione creativa hanno tratto gli attori dal complesso degli esercizi?

KAHN  L’esercizio conclusivo e fondamentale per gli attori consisteva nel trovare un’azione per ciascuno dei ventisei esercizi in cui era stato sezionato il testo, della durata di circa tre minuti.

MUCCI  Roger Blin affermava che la dimensione del circo era molto presente in Godote lui stesso ne aveva tenuto conto nei suoi allestimenti della pièce; però, di fronte a monologhi come quello di Vladimiro in chiusura del secondo atto, egli racconta di come si sia reso conto che il circo andava tenuto “in filigrana”. Blin sembra individuare un aspetto di Godot irriducibile alla dimensione circense, che forse ha a che fare con la tragedia. Nel vostro lavoro avete tenuto conto di ciò?

KAHN  Sì, nella diversa modalità di presentazione delle due giornate. Nel corso del primo giorno c’era, come nello spettacolo del circo, una successione di scene in piena luce intervallate dal buio completo; durante il secondo giorno la luce progressivamente si abbassava, rendendo l’ambientazione crepuscolare, quasi sepolcrale. La luce bassa e la luminosità data dalla carta bianca determinavano un’atmosfera altra rispetto a quella del circo. Anche il pestaggio di Estragone (interpretato da ciascuno degli attori sulla base del sorteggio) che aveva luogo nel corso della “seconda giornata”, non era affatto divertente, anzi, incuteva timore. Inoltre per accentuare la struttura ciclica della vicenda, si ripetevano sia la canzone che il pestaggio e, nella “seconda giornata”, l’albero si trovava sul lato della strada opposto a quello in cui era collocato nella “prima giornata”, come per mostrare quella stessa strada nella direzione opposta.

MUCCI  A tuo parere Beckett ha creato una drammaturgia che aiuta il teatrante, l’attore ad un lavoro di pulizia, precisione, trasparenza?

KAHN  Certamente, anche perché Beckett, a differenza di Genet che era invadente e pretendeva di giudicare qualsiasi cosa, era molto discreto quando lavorava con Blin, ma lasciava intravedere una comprensione di fondo del fenomeno teatrale. Mi riferisco alle dichiarazioni a proposito di Beckett rilasciate da Roger Blin, un regista per cui ho grande ammirazione, e contenute in Roger Blin. Souvenirs et propos recueillis par Lynda Bellity Peskine:“Nel 1953, era un autore teatrale nuovo mapossedeva un istinto formidabile della cosa teatrale”.

MUCCI In che senso, secondo te, il lavoro teatrale di Beckett come drammaturgo e, dagli anni Sessanta in poi, anche come regista delle proprie opere si può apparentare al lavoro teatrale di Grotowski? Noto, in entrambi, una tendenza a ricostruire le condizioni basilari ed essenziali della relazione umana, partendo da presupposti di un quasi totale annullamento delle possibilità di rapporto interpersonale, della comunicazione stessa. In Beckett, in particolare, la ricostruzione avviene attraverso la riscoperta, da parte dell’uomo-attore, delle capacità di gioco, dell’ingenuità.

KAHN  Forse ciò che è comune ad entrambi risiede nel fatto che la ricostruzione della relazione umana e teatrale non avviene in base ad un’indagine di tipo psicologico, ma attraverso la realizzazione di azioni da parte dei personaggi. Ho sentito Grotowski affermare che il problema fondamentale dell’attore, la sua presenza in scena, si può risolvere almeno in parte, concentrandosi su ciò che il personaggio fa piuttosto che su ciò che pensa o sente.

MUCCI  Quando Grotowski parla del rapporto tra il Teacher e il Performer fa le seguenti affermazioni: “Esiste un io-io. Il secondo Io è quasi virtuale; non è, dentro di noi, lo sguardo degli altri, né il giudizio: è come uno sguardo immobile, presenza silenziosa, come il sole che illumina le cose – e basta. Il processo di ciascuno può compiersi solo nel contesto di questa immobile presenza. Io-Io: nell’esperienza la coppia non appare come separata, ma piena, unica. Nella via del Performer, si percepisce l’essenza quando essa è in osmosi con il corpo, poi si lavora il processo sviluppando l’Io-Io. Lo sguardo del teacher può a volte funzionare come lo specchio del legame Io-Io (questo legame non essendo ancora tracciato). Quando il collegamento Io-Io è tracciato, il Teacher può sparire e il Performer continuare verso il corpo dell’essenza”. Ti chiederei di commentare quest’affermazione sulla base della tua frequentazione del Teatr Laboratorium e della condivisione dei suoi principi di lavoro.

KAHN Ciò che Grotowski tocca qui è un fenomeno estremamente complesso. La mia interpretazione del suo pensiero è la seguente: sia che l’attore agisca in modo intuitivo che ragionato, l’importante è che sia presente in lui la coscienza di ciò che sta facendo. È fondamentale cioè che l’attore non utilizzi solo la ragione per capire ciò che sta accadendo, ma che sia globalmente cosciente del processo in corso. Poiché personalmente penso che le cose più sorprendenti vengano dall’istinto, l’intuito, l’inconscio dell’attore, per far sì che questi elementi emergano è necessario entrare in una condizione paradossale facendo agire il corpo in modo intuitivo senza decidere per esso cosa fare, e allo stesso tempo essendo coscienti di ciò che ha luogo. L’attore deve essere dotato dentro di sé di due valori apparentemente opposti: un essere attivo che registra, testimonia e un essere passivo che agisce (attento al paradosso: l’attore in azione deve trovare la parte passiva di sé che gli permette di seguire la sua intuizione, mentre la sua mente deve essere attiva per registrare ciò che avviene). Queste due componenti non sono separate, né schizofreniche, dal momento che agiscono sincronicamente e in modo fluido, non meccanico. In certi casi, nel lavoro molto specifico di Grotowski, la sua presenza era costante e determinante perché garantiva obiettività alle azioni dell’attore. In questo caso si può dire che il Teacher ha una funzione di specchio perché chi agisce sa che il testimone è vigile, non per manipolare ma per registrare; in tal modo l’attore ha fin dal principio maggior possibilità di lasciarsi andare seguendo l’intuizione, senza controllare o frenare la sua creatività, proprio perché ha delegato al teacher la funzione di specchio. Nel momento in cui l’attore arriva a padroneggiare l’intero processo, il testimone non è più necessario per rendere oggettivo ciò che accade; la partitura funziona da sé. Il Teacher, in questo caso Grotowski per me, diventa soltanto lo sguardo presente, non giudicante, caloroso.

MUCCI Nel lavoro pedagogico-laboratoriale hai sviluppato e portato a maturazione processualità di questo tipo?

KAHN Ciò che a mio parere è più interessante nel lavoro dell’attore è la parte involontaria, intuitiva, quasi animale della sua natura che dà una qualità vitale e originale alla sua creazione e quindi alla sua presenza in scena. Ciò non significa che l’attore non debba essere intelligente, anzi; ma ciò che risolve in modo funzionale la sua presenza in scena molto spesso è la parte intuitiva non quella razionale. La funzione dello sguardo esterno rispetto a questo processo può assolverla il regista così come chi guida un laboratorio; qualcosa accade perché tu sei capace di guardare e registrare ciò che avviene nell’attore in scena e poi di manifestargli il tuo interesse, la tua attenzione e proteggere ciò che è vivo e può crescere.

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